Sentenza n. 126 del 1983

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SENTENZA N. 126

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 9 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni (Inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale) promossi con le ordinanze emesse il 5 aprile e il 3 maggio 1976 dal Pretore di Rovigo, il 10 novembre 1977 e il 23 maggio 1978 dal Pretore di Rodi Garganico e il 27 settembre 1980 dal Pretore di Orvieto, rispettivamente iscritte ai nn. 465 e 690 del registro ordinanze 1976, ai nn. 103 e 433 del registro ordinanze 1978 e al n. 874 del registro ordinanze 1980 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 232 del 1976, n. 4 del 1977, nn. 115 e 341 del 1978 e n. 63 del 1981.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 19 maggio 1982 il Giudice relatore Alberto Malagugini;

udito l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con due ordinanze di identico tenore emesse il 6 aprile ed il 3 maggio 1976 nel corso dei procedimenti penali a carico di Malengo Enzo Silvano e Bonfà Pietro, imputati del reato di cui all'art. 9 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, così come modificato dall'art. 8 legge 14 ottobre 1974, n. 497 (inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale), il Pretore di Rovigo, muovendo dalla premessa che la misura di prevenzione della sorveglianza speciale e la misura di sicurezza della libertà vigilata "danno vita a restrizioni analoghe per il soggetto, pur se differenti quanto a presupposti ed effetti", sollevava d'ufficio questione di legittimità costituzionale del predetto art. 9 l. n. 1423/1956 assumendone il contrasto con l'art. 3 Cost.. Ad avviso del Pretore, non sarebbe conforme al principio di uguaglianza la previsione di una sanzione penale (arresto da tre mesi ad un anno) per la violazione delle prescrizioni inerenti alla citata misura di prevenzione, dal momento che analoga sanzione non é prevista per il caso di trasgressione agli obblighi imposti con l'assoggettamento a libertà vigilata (art. 228 c.p.), cui consegue solo l'aggiunta della cauzione di buona condotta o, nei casi più gravi, la sostituzione con la misura di sicurezza dell'internamento in colonia agricola o casa di lavoro (art. 231 c.p.). Tale diverso trattamento non sarebbe secondo il giudice a quo giustificabile, in quanto l'applicazione della libertà vigilata postula "una situazione oggettiva e soggettiva più grave". Un'identica questione di costituzionalità veniva altresì sollevata dal Pretore di Rodi Garganico con due ordinanze di tenore analogo alle precedenti emesse il 10 novembre 1977 ed il 23 maggio 1978 nel corso dei procedimenti penali a carico di Bevere Francesco e Viterbo Michele, anch'essi imputati del reato di cui all'art. 9 legge n. 1423/1956. Le predette ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, venivano pubblicate rispettivamente sulla Gazzetta Ufficiale nn. 232 dell'1 settembre 1976, 4 del 5 gennaio 1976, 115 del 26 aprile 1978 e 341 del 6 dicembre 1978.

2. - Intervenendo nei primi tre dei suddetti giudizi in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato chiedeva che la questione fosse dichiarata infondata, osservando che, se é vero che misure di sicurezza e misure di prevenzione ante delictum hanno in comune il fondamento e la finalità di prevenzione di fronte alla pericolosità sociale del soggetto, é pur vero che essere diversamente disciplinate dalla stessa Costituzione (artt. 13 e 16) - si differenziano nettamente per struttura, settore di competenza, campo e modalità di applicazione ed organi a questa preposti. Solo le prime, e non le seconde, presuppongono la perpetrazione di un reato. Inoltre, mentre la libertà vigilata "mira al fine specifico di impedire nuovi reati anche attraverso il reinserimento del reo nel contesto economico e sociale in cui - espiata la pena - deve ritornare a vivere", alla sorveglianza speciale é estranea la finalità di recupero sociale del soggetto, operando essa in funzione di mera prevenzione. Per garantire questa, il legislatore ha ritenuto la pena dell'arresto strumento valido ad assicurare l'osservanza delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale. Viceversa, nella delicata fase di reinserimento sociale di un condannato che abbia già espiato una pena detentiva, ha ritenuto opportuno graduare diversamente i poteri del giudice, non obbligandolo ad irrogare in ogni caso una pena detentiva, ma per altro verso consentendogli di giungere, per le trasgressioni più gravi, "a restrizioni molto incisive della libertà personale" (conversione della misura nell'assegnazione ad una colonia agricola o a una casa di lavoro).

3. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Miagostovich Giovanni Battista, imputato del reato di cui al citato art. 91. n. 1423 del 1956 (come modificato all'art. 8 l. n. 497/1974) per avere distribuito volantini ciclostilati a contenuto politico - così contravvenendo alla prescrizione del decreto di sorveglianza speciale consistente nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni e comizi elettorali - il Pretore di Orvieto sollevava questione di legittimità costituzionale del citato art. 9 nonché del precedente art. 5 l. n. 1423/1956 che disciplina le prescrizioni da imporre al sorvegliato speciale. Nella succinta motivazione del provvedimento, il Pretore assumeva che rispetto alle prescrizioni anzidette (divieto di partecipare a pubbliche riunioni e comizi elettorati) "non é contenuto nella legge alcun criterio direttivo che impedisca la limitazione di libertà costituzionalmente garantite quali quelle previste dagli artt. 21 e 49 della Costituzione con violazione altresì per la indeterminatezza dei criteri suddetti del principio di stretta legalità dell'art. 25 della Costituzione". L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 63 del 4 marzo 1981. Nel giudizio così instaurato non interveniva né il Presidente del Consiglio dei ministri né la parte privata.

Considerato in diritto

1. - Le cinque ordinanze di rimessione sollevano questioni attinenti al medesimo testo legislativo. Le relative cause, trattate congiuntamente, possono essere, perciò, riunite e decise con unica sentenza.

2. - I Pretori di Rovigo (r.o. nn. 465 e 690 del 1976) e di Rodi Garganico (r.o. nn. 103 e 433 del 1978) dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 9 (primo comma) della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come modificato dall'art. 8 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, che punisce con l'arresto da tre mesi ad un anno il contravventore alle prescrizioni del decreto di sorveglianza speciale.

Secondo i giudici a quibus, autori di ordinanze estremamente concise, la disposizione di legge denunziata contrasterebbe con il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, comma primo, Cost., per ciò che in essa la trasgressione alle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale é sanzionata con pena detentiva mentre altrettanto non é previsto, dall'art. 231 del codice penale, per la trasgressione alle prescrizioni imposte al libero vigilato. Il Pretore di Rodi Garganico si limita ad affermare che l'art. 9 della legge n. 1423 del 1956 "prevede... una pena qualitativamente più grave di quella prevista dall'art. 231 del codice penale per la trasgressione agli obblighi della libertà vigilata". Il Pretore di Rovigo, invece, premesso che, a suo giudizio, "la misura di sicurezza della libertà vigilata (artt. 199 e seguenti del codice penale) e la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S.... danno vita ad analoghe restrizioni per il soggetto, pur se differenti quanto a presupposti ed effetti", ritiene non possa giustificarsi "sotto il profilo dell'art. 3 Cost. la previsione della sanzione penale dell'arresto soltanto per le violazioni delle prescrizioni della seconda, in presenza di una situazione soggettiva ed oggettiva meno grave rispetto a quella postulata dalla applicazione della misura di sicurezza sopra indicata". La questione non é fondata.

3. - Invero l'art. 9 della legge n. 1423 del 1956, nel testo modificato dall'art. 8 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, configura un'ipotesi di reato contravvenzionale e ne determina la pena, dell'arresto, da un minimo ad un massimo. L'art. 231 del codice penale, invece, attiene alla disciplina delle misure di sicurezza, al cui sistema é interno, e prevede che a carico del libero vigilato (e cioè di un soggetto sottoposto a misura di sicurezza personale non detentiva - art. 215, terzo comma, del codice penale-) il quale contravvenga alle prescrizioni impostegli (di cui all'art. 228 del codice penale) possano - e non debbano - essere applicate o, in via aggiuntiva, la misura di sicurezza patrimoniale della cauzione di buona condotta, ovvero, nelle ipotesi di cui al secondo comma del medesimo art. 231 e in via sostitutiva, una delle misure di sicurezza personali detentive di cui all'art. 215, secondo comma, n. 1 e n. 4 del codice penale.

Ora, mentre é chiaro che non può parlarsi di pene qualitativamente più o meno gravi, come pretende il Pretore di Rodi Garganico, posto che quelle facoltativamente previste dall'art. 231 del codice penale, pene non sono, ma misure amministrative di sicurezza, occorre riconoscere che il diverso trattamento sostanziale riservato dal legislatore al sorvegliato speciale da un lato ed al libero vigilato dall'altro, nelle ipotesi di trasgressione alle prescrizioni loro rispettivamente imposte, trova ampia giustificazione nella diversità delle situazioni cui la disposizione di legge denunziata e quella ad essa raffrontata sono riferite.

Infatti, la misura di prevenzione della sorveglianza speciale presuppone la pericolosità sociale, accertata ante delictum, del soggetto a cui viene applicata ed ha fini cautelari, di difesa della società contro il pericolo di attentati alla sicurezza ed alla moralità pubbliche. Viene inflitta per un tempo determinato, da uno a cinque anni, può essere revocata o modificata soltanto quando sia cessata o mutata la causa che l'ha determinata e cessa di diritto allo spirare del termine stabilito nel decreto del Tribunale che la applica, salvo che, nel frattempo il sorvegliato speciale abbia commesso un reato; é, infine, incompatibile con una misura di sicurezza detentiva o la libertà vigilata.

La misura di sicurezza della libertà vigilata, invece, può essere applicata soltanto sul presupposto della pericolosità criminale del soggetto, di regola, accertata o presunta, post delictum; pericolosità intesa come probabilità che il soggetto medesimo commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. Viene inflitta per il periodo minimo previsto dalla legge, che può essere prolungato, quando allo spirare dello stesso un nuovo accertamento attesti la persistente pericolosità del soggetto interessato; può, di contro, essere revocata, anche prima dello spirare del termine minimo, quando la pericolosità medesima risulti cessata.

La misura di sicurezza in esame, da ultimo, ha finalità rieducativa e sociale, così che le prescrizioni imposte dal giudice devono essere "idonee ad evitare occasioni di nuovi reati" e "la sorveglianza deve essere esercitata in modo da agevolare, mediante il lavoro, il riadattamento della persona alla vita sociale" (art. 228 del codice penale). Inoltre essa é accompagnata da "interventi di sostegno e di assistenza" del servizio sociale al fine del "reinserimento sociale" del libero vigilato (art. 55 legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo sostituito dall'art. 6 della legge 12 gennaio 1977, n. 1). Basta, dunque, la semplice descrizione delle due situazioni poste a raffronto per poterne desumere la indubbia disomogeneità.

4. - Il solo Pretore di Rovigo dà atto della differenza di "presupposti ed effetti" delle due misure, di sicurezza e di prevenzione, qui considerate. Egli sembra però fondare il suo dubbio di costituzionalità sul fatto che le dette misure danno vita ad "analoghe restrizioni" per il soggetto al quale o l'una o l'altra viene applicata. Con tale affermazione il giudice a quo si riferisce alle analogie delle prescrizioni che possono essere imposte al sorvegliato speciale, da un lato, ed al libero vigilato, dall'altro, così che analoghi e di analoga gravità dovrebbero considerarsi i comportamenti di trasgressione alle prescrizioni stesse. Analoghe, cioè sarebbero le condotte considerate nelle due disposizioni di legge a confronto, che meriterebbero, perciò, uguale trattamento.

Neppure così prospettata la questione può però dirsi fondata.

Anzitutto nessuna disposizione del codice penale indica analiticamente quali prescrizioni il giudice debba imporre al libero vigilato, a differenza di quanto l'art. 5 stabilisce per il sorvegliato speciale, con riferimento specifico a taluni soggetti (comma secondo), "in ogni caso" (comma terzo), ovvero quando alla sorveglianza si accompagni l'obbligo di soggiorno in un determinato comune (comma quinto).

L'unico punto di contatto sta tra la norma (art. 5 l. 1423 del 1956) che consente al Tribunale di "imporre", "inoltre", al sorvegliato speciale "tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale" e quella (art. 228, secondo comma, del codice penale) che fa carico al giudice di imporre al libero vigilato "prescrizioni idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati", ma é evidente che le due distinte disposizioni hanno effetto divaricante e non convergente. La possibilità che, di fatto, nelle due ipotesi possano aversi prescrizioni analoghe o anche ugualmente formulate non vale certo a rendere omogenee le due situazioni. In secondo luogo e soprattutto le condotte materiali (anche se per ipotesi uguali) non possono essere considerate in sé ma, ai fini che qui importano, vanno valutate in riferimento agli interessi ritenuti dall'ordinamento meritevoli di tutela, che le condotte medesime offendono o mettono in pericolo. Stabilire se e come una condotta debba essere sanzionata in relazione al danno o al pericolo che da essa deriva ad interessi determinati, valutati per la loro rilevanza, rientra nelle scelte discrezionali del legislatore e il rapporto tra precetto e sanzione, penale o meno, implica un giudizio di valore riservato esclusivamente al legislatore stesso, e sindacabile da questa Corte nell'esclusiva ipotesi di palese irrazionalità (sent. n. 26 del 1979).

Nessuna irrazionalità é peraltro riscontrabile nella fattispecie denunziata configurata dal legislatore come un illecito penale punito con pena detentiva in vista del preminente interesse alla difesa sociale con essa tutelato e tenuto conto del valore anche intimidatorio della previsione incriminatrice. Al contrario, l'art. 231 del codice penale del tutto ragionevolmente, consente al giudice - che sovraintende ad una azione combinata di pubblici poteri intesa ad "agevolare, mediante il lavoro, il riadattamento del libero vigilato, evitandogli anzitutto le occasioni di nuovi reati" - di valutare, se a quel fine, in presenza di trasgressioni alle prescrizioni imposte, sia opportuno assumere un qualche ulteriore provvedimento oppure no, e, nel caso affermativo quale misura applicare, tenuto presente che, per le trasgressioni reiterate o più gravi, alla misura non detentiva in atto può essere sostituita altra detentiva e che la condotta del trasgressore dovrà pur sempre essere valutata in sede di riesame della pericolosità.

Da nessun punto di vista, dunque la questione sollevata dai Pretori di Rovigo e di Rodi Garganico può giudicarsi fondata.

5. - Il Pretore di Orvieto, con l'ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 874 del 1980) denunzia gli artt. 5 e 9 della legge n. 1423 del 1956, prospettandone il contrasto con gli artt. 21, 25 e 49 Cost.. Ciò perché, nelle citate disposizioni della legge in questione, non sarebbe "contenuto" "alcun criterio direttivo che impedisca la limitazione di libertà costituzionalmente garantite quali quelle previste dagli artt. 21 e 49 della Costituzione con violazione altresì, per la indeterminatezza dei criteri suddetti, del principio di stretta legalità dell'art. 25 Cost.".

Anche questa questione, peraltro nuova, non é fondata.

Per poterla apprezzare correttamente é necessario rifarsi alla ordinanza di rimessione, dalla quale si ricava che essa é stata emessa nel corso del giudizio a carico di soggetto imputato del fatto di "avere distribuito volantini di contenuto politico" "così contravvenendo al provvedimento della Corte di Appello di Milano del 25 febbraio 1980 adottato ai sensi dell'art. 5 legge 1423/1956" e "quindi chiamato a rispondere della contravvenzione prevista dal successivo art. 9 della legge n. 1423 del 1956 come modificato dall'art. 8 della legge n. 497/1974". Sempre secondo il Pretore di Orvieto, la prescrizione, contenuta nel citato provvedimento della Corte di Appello di Milano, della cui inosservanza si tratta, é quella "consistente nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni ed a comizi elettorali", l'unica che il giudice a quo cita e che, considerandola consentita dall'art. 5 della legge n. 1423 del 1956, lo induce a dubitare della disposizione di legge che la prevede.

6. - Così riprodotta la situazione processuale, quale descritta nella ordinanza di rimessione, cui questa Corte non può non riferirsi, sembra che vada preliminarmente risolta la questione se la disposizione di legge denunziata, nella parte in cui elenca tra le prescrizioni che il giudice deve "in ogni caso" imporre al sorvegliato speciale, quella di "non partecipare a pubbliche riunioni" (art. 5, terzo comma, ultimo inciso), contrasti o meno con il principio di stretta legalità di cui all'art. 25 Cost., per la indeterminatezza dei criteri dettati al giudice dalla stessa disposizione di legge per l'applicazione di quella specifica prescrizione. Questi infatti sono i limiti in cui la questione appare rilevante perché la disposizione di legge denunziata non fa riferimento a comizi elettorali, ma soprattutto e pregiudizialmente perché il fatto di trasgressione addebitato al sorvegliato non é quello di aver partecipato a comizi elettorali, ma quello di aver "distribuito volantini di contenuto politico".

Se così é, basta scorrere l'elenco delle prescrizioni di cui all'art. 5, terzo comma, della legge 1423 del 1956 - redatto per la verità, con terminologia arcaica ed anacronistica - per constatare che quella, rilevante nella fattispecie giudicanda, facente divieto al sorvegliato di partecipare a pubbliche riunioni é espressa in termini assolutamente tassativi e non lascia alcun margine di discrezionalità al giudice che deve applicarla "in ogni caso" e cioè a tutti i sorvegliati speciali. Ma anche quando così non fosse, la norma generale di cui al quarto comma del medesimo art. 5 (che, peraltro non rileva nel presente giudizio) stabilisce che al sorvegliato speciale possono essere imposte soltanto le prescrizioni, "tutte le prescrizioni", ravvisate "necessarie" dal giudice "avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale"; le prescrizioni, cioè, la cui osservanza appaia strumentalmente necessaria per la tutela di siffatte esigenze, tenuto conto, lo si ripete, della pericolosità specifica del sorvegliato, accertata nel processo di prevenzione, nonché, ovviamente, nel rispetto dei principi costituzionali, o se si vuole, dei diritti costituzionalmente garantiti. Tale essendo la disposizione denunziata, anche la ritenuta mancanza di "criteri direttivi" appare del tutto insussistente L'ulteriore censura, per cui la disposizione di legge denunziata, intesa nei termini sopra confutati, non "impedisce la limitazione di libertà costituzionalmente garantite, quali quelle previste dagli artt. 21 e 49 Cost.", può essere letta in un duplice senso intendendola cioé riferita o ad una pluralità di parametri costituzionali, non specificati (tutti quelli che garantiscono diritti di libertà) o ai soli parametri degli artt. 21 e 49 Cost..

Considerata sotto il primo punto di vista la questione é chiaramente inammissibile per la sua indeterminatezza, che rende impossibile identificarne i termini e verificarne la rilevanza. Vale però, ugualmente, la pena di ricordare, che sulla legittimità costituzionale, in via di principio, di "un sistema di prevenzione dei fatti illeciti, a garanzia dell'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti tra i cittadini" subordinatamente, peraltro, al rispetto del principio di legalità e all'esistenza della garanzia giurisdizionale, questa Corte ha avuto modo di pronunziarsi in numerose sentenze, dalla n. 2 del 1956 alla n. 177 del 1980. Ciò, evidentemente, non significa, ma anzi, esclude tassativamente che, con le misure di prevenzione, mediante prescrizioni specifiche, male invocando la clausola generale, contenuta nell'art. 5, quarto comma della legge n. 1423 del 1956, per cui oltre a quelle ivi elencate, possono essere imposte tutte le prescrizioni che il giudice "ravvisi necessarie avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale"; mediante prescrizioni del genere, possano essere imposte al sorvegliato speciale limitazioni di diritti costituzionalmente garantiti in casi e per fini non previsti dalla Costituzione stessa. Verificandosi siffatte ipotesi, non se ne potrebbe far carico alla denunziata disposizione della legge n. 1423 del 1956 (che come significativamente scrive il giudice a quo non le impedirebbe), ma soltanto al provvedimento del giudice che contenesse prescrizioni del genere; provvedimento contro il quale sono esperibili i mezzi di impugnazione di cui all'art. 4 della legge medesima.

Sotto il secondo punto di vista, la censura riferita ai soli artt. 21 e 49 Cost. non é fondata, posto che la prescrizione la cui trasgressione é assunta ad elemento materiale della contravvenzione prevista e punita dall'art. 9 della legge 1423 del 1956, nel testo sostituito dall'art. 8 della legge n. 497 del 1974, é quella - l'unica, si ripete, citata, nella ordinanza di rimessione - "di non partecipare a pubbliche riunioni o comizi elettorali" corrispondente, per la parte che rileva, al più volte citato disposto del terzo comma dell'art. 5 della medesima legge. Non si vede allora come un disposto di legge che limita, per il periodo di durata della misura applicata, il diritto del cittadino sorvegliato speciale "di riunirsi pacificamente e senz'armi" di cui all'art. 17 Cost. possa trasformarsi nella limitazione del diritto "di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione" di cui all'art. 21 Cost. Quest'ultimo diritto di libertà non può essere confuso con il diritto di riunione che soltanto viene in discussione nella norma denunziata e nella prescrizione della cui trasgressione si discute. Ancor più fuori campo, se così si può dire, si colloca il diritto "di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" di cui all'art. 49 Cost.

Si tratta in entrambi i casi di libertà il cui esercizio può incontrare soltanto limitazioni di fatto in conseguenza della limitazione legislativamente prevista e recepita nelle prescrizioni imposte dal giudice al sorvegliato speciale per l'esercizio del diritto di riunione, limitazioni di fatto che non possono dar luogo a problemi di costituzionalità. Sulla legittimità costituzionale della prescrizione da farsi al sorvegliato di non partecipare a pubbliche riunioni (di cui all'art. 5, terzo comma, legge 1423 del 1956), si é pronunciata questa Corte con la sentenza n. 27 del 1957, decidendo questione sollevata in riferimento agli artt. 2 e 17 Cost..

Le argomentazioni allora svolte sul punto meritano conferma e vale la pena anche di ricordare l'osservazione per cui spetta al giudice penale determinare i "concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza".

7. - Riconosciuta la legittimità costituzionale, nella parte denunziata, dell'art. 5 della legge n. 1423 del 1956, nessun problema si pone per quanto concerne l'art. 9 della medesima legge, nel testo modificato dall'art. 8 della legge n. 497 del 1974, volta che quest'ultimo disposto viene coinvolto dal giudice a quo nell'unica censura di costituzionalità sul presupposto necessario ed esclusivo della illegittimità costituzionale dell'art. 5 sopra specificato.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come modificato dall'art. 8 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, Cost., dai Pretori di Rovigo e di Rodi Garganico con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 e dell'art. 9, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 come modificato dall'art. 8 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, sollevata, in riferimento agli artt. 21,49 e 25 Cost. dal Pretore di Orvieto con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 aprile 1983.

Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI -  Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 5 maggio 1983.