Sentenza n. 31 del 1969
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SENTENZA N. 31

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO 

Dott. Luigi OGGIONI 

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI 

Dott. Nicola REALE

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 330 del Codice penale promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 21 luglio 1966 dal giudice istruttore del tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Agostinelli Ottavio, Balsimelli Luciano, Merola Salvatore ed altri, iscritta al n. 88 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 157 del 24 giugno 1967;

2) ordinanza emessa il 2 marzo 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Sica Giovanni, Giacomi Vittorio, Bontatti Luigi, Santandrea Filippo ed altri, iscritta al n. 82 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 152 del 15 giugno 1968;

3) ordinanza emessa il 7 marzo 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Corsi Bernardino ed altri, iscritta al n. 107 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 203 del 10 agosto 1968.

Visti gli atti di costituzione di Balsimelli ed altri, Merola ed altri, Sica, Giacomi, Bontatti e Santandrea;

udita nell'udienza pubblica del 29 gennaio 1969 la relazione del Giudice Costantino Mortati;

uditi gli avvocati Ugo De Leone, Guido Martuscelli, Vincenzo Summa, Luciano Ventura, Massimo Severo Giannini e Benedetto Bussi, per le parti private costituite.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - In relazione ad un procedimento penale in corso di istruzione formale promosso nei confronti di 203 persone, imputate alcune dei reati di cui all'art. 330 del Codice penale, per avere abbandonato collettivamente il pubblico ufficio di vigile urbano nei giorni 30 giugno e 1 luglio 1965 e altre per avere promosso ed organizzato tale abbandono collettivo, il Giudice istruttore di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale della suddetta norma penale per violazione degli artt. 39 e 40 della Costituzione.

Nell'ordinanza in data 21 luglio 1966 si osserva preliminarmente che la questione é rilevante, nonostante che i reati rubricati siano coperti dall'intervenuta amnistia, poiché, ove l'art. 330 del Codice penale fosse dichiarato incostituzionale, gli imputati dovrebbero essere prosciolti nel merito, in applicazione dell'art. 152 cpv., del Codice di procedura penale.

Nel merito l'ordinanza, dopo avere indicato i motivi i quali conducono ad escludere che la originaria correlazione dell'art. 330 con l'ordinamento corporativo sia così stretta da determinare la sua automatica abrogazione, in seguito ai provvedimenti legislativi di soppressione di tale ordinamento intervenuti negli anni 1943 e 1944, passa a deliberare la fondatezza della questione di legittimità costituzionale, che non gli appare preclusa dalla sentenza n. 123 del 1962 della Corte costituzionale, sia perché viene ora dedotta anche la violazione dell'art. 39 della Costituzione, sia perché in tale sentenza la questione non sarebbe stata pienamente affrontata e risolta, dato che essa si limitò ad affermare l'applicabilità alla fattispecie della scriminante di cui all'art. 51 del Codice penale, sancendo così la validità dell'art. 330 Cod. pen. Nonostante i suoi riconosciuti "aspetti d'incostituzionalità". Conclude pertanto per la non manifesta infondatezza della questione, nei confronti oltreché dell'art. 40, anche dell'art. 39, perché il riconoscimento della libertà sindacale potrebbe direttamente giustificare la liceità penale di tutte le varie forme di tutela degli interessi professionali.

L'ordinanza é stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 157 del 24 giugno 1967.

Avanti la Corte si sono costituiti due gruppi di imputati.

Il primo assistito dagli avv. Massimo Severo Giannini, Giuseppe Sabatini e Guido Martuscelli, i quali, in una memoria a stampa depositata il 14 gennaio 1969 hanno illustrato le conclusioni contenute nell'atto di costituzione, tendenti a far dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 330 del Codice penale in riferimento agli artt. 39 e 40 della Costituzione, o, quanto meno, l'inesistenza di una questione di incostituzionalità per mancanza di azioni incriminabili "essendo stati i fatti ascritti ai giudicabili assoggettati a limiti atti a salvaguardare quegli interessi che potessero ritenersi preminenti".

Nella memoria si deduce che l'art. 330 del Codice penale dovrebbe ritenersi abrogato, sia per effetto della soppressione dell'ordinamento corporativo (dato che esso ebbe come sua funzione di riprodurre e completare disposizioni penali già contenute nella legge 3 aprile 1926, n. 563) sia per effetto dei nuovi principi introdotti nell'ordinamento italiano con l'art. 40 della Costituzione sanzionanti la libertà di sciopero e il diritto di sciopero. La tesi dell'abrogazione, pur se non ancora adottata espressamente, sarebbe tuttavia prevalente nel convincimento sostanziale e complessivo della stessa Corte, come risulterebbe da riconoscimenti contenuti nella motivazione di alcune sentenze, circa la sussistenza di un radicale contrasto fra i principi dell'ordinamento corporativo e quelli del vigente sistema costituzionale.

Si deduce poi che, anche a prescindere dall'abrogazione dell'art. 330 del Codice penale, l'azione degli imputati non risulterebbe incriminabile per essere stata compiuta nell'esercizio di un diritto. Ricordate le sentenze della Corte n. 46 del 1958, n. 29 del 1960 e n. 123 del 1962, la difesa passa ad affrontare la particolare posizione che é propria dei vigili urbani, per dimostrare come anche ad essi competa il diritto di sciopero, in applicazione del fondamentale principio di eguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione.

Considerato che l'esclusione dei vigili urbani dal novero di coloro che hanno diritto di scioperare é stata fatta dipendere dalla circostanza che essi esercitano funzioni di polizia giudiziaria ed hanno la qualifica di agenti di pubblica sicurezza, la difesa, dopo avere osservato che funzioni di polizia giudiziaria competono anche ad altro personale, come alle guardie daziarie, campestri ed alle guardie giurate, per le quali é inconcepibile l'esclusione del diritto stesso, mette in rilievo che il riconoscimento prefettizio delle qualità di agente di pubblica sicurezza non é automatico per tutti i vigili in quanto tali, ma avviene con un provvedimento discrezionale ad personam che comporta l'attribuzione a singoli vigili di mansioni estranee alle funzioni istituzionali del Corpo.

Né la privazione del diritto di sciopero può farsi derivare dall'art. 98 della Costituzione, perché questo prevede la possibilità di limitare il divieto dell'iscrizione ai partiti politici solo per determinate categorie di pubblici funzionari; e, poiché nessuna altra norma costituzionale circoscrive il diritto di iscrizione ai sindacati per tali categorie, se ne deve dedurre che ai membri di esse sia da riconoscere, in via conseguenziale, anche il diritto di sciopero.

A parte queste considerazioni di ordine generale, la difesa stessa fa comunque rilevare come l'azione di sciopero concretamente posta in essere, ed alla quale si riferisce l'attuale incriminazione, fu limitata alle funzioni che sono proprie dei vigili urbani come dipendenti comunali, mentre gli stessi scioperanti sostarono nelle sedi dei rispettivi reparti dichiarandosi pronti ad assolvere alle funzioni di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza relative ad eventuali incidenti stradali. Ciò in conformità alle direttive delle organizzazioni sindacali, le quali avevano preso atto della circolare emanata dal Prefetto di Roma, nell'imminenza dello sciopero, che richiamava l'esigenza dell'assolvimento delle funzioni stesse, e ciò non già al fine di legittimare lo sciopero (che essi ritengono in ogni caso legittimo), ma per la responsabile salvaguardia di quegli interessi pubblici più essenziali, la cui tutela é stata ritenuta preminente e pregiudiziale nella sentenza n. 123 del 1962 della Corte costituzionale.

Per il secondo gruppo di imputati gli avv. Benedetto Bussi, Ugo de Leone e Alfredo Pirrone hanno presentato il 14 luglio 1967 un ampio scritto di deduzioni nel quale si rileva innanzi tutto che non può dubitarsi dell'ammissibilità della riproposizione della questione (benché già risolta in senso negativo nella sentenza n. 123 del 1962), data la diversità dei termini in cui é ora prospettata. Nella precedente sentenza, infatti, la legittimità costituzionale dell'art. 330 fu esaminata rifacendosi alla relazione esistente tra le norme penali in esso contenute e la causa di giustificazione dell'esercizio del diritto di sciopero, derivante dalla combinazione dell'art. 40 della Costituzione con l'art. 51 del Codice penale: pertanto la questione fu ridotta ad un semplice problema di interpretazione e non di legittimità costituzionale. Sulla base di quanto affermato dalla Corte stessa nella sentenza n. 29 del 1960 risulta tuttavia che lo sciopero, anche se non fosse riconosciuto come un "diritto" dall'art. 40, costituirebbe egualmente un atto penalmente lecito in virtù del disposto dell'art. 39 della Costituzione e di conseguenza il problema della legittimità dell'art. 330 non può essere risolto in una semplice relazione fra disposizione incriminatrice e causa di giustificazione dell'esercizio del diritto, ma dovrebbe essere esaminato in tutta la sua ampia portata di vera e propria questione di legittimità costituzionale.

In merito a tale questione, dopo avere richiamato la sentenza n. 46 del 1958 secondo cui l'abbandono di un ufficio può avvenire anche per ragioni diverse dallo sciopero, traendosene la conclusione che la norma non poteva essere dichiarata costituzionalmente illegittima, obietta che siffatta conclusione può venir rovesciata se si ammette - come deve ammettersi ove si abbia presente l'origine storica della norma - che la disposizione impugnata ha come suo fine, nella normale e costante applicazione che se ne é fatta, l'incriminazione di un tipo di attività (quella sindacale) che é espressamente prevista dalla Costituzione, quanto meno come attività penalmente lecita. Ove poi veramente la previsione di reato di abbandono di ufficio possa trovare un valido fondamento in altro che nel divieto dell'attività sindacale spetterà al legislatore ridimensionare l'ambito dell'incriminazione in conformità ai principi della Costituzione.

Dopo aver ulteriormente illustrato il dedotto contrasto tra l'art. 330 del Codice penale, inteso come ispirato e condizionato direttamente dai principi dello Stato corporativo, e gli artt. 39 e 40 della Costituzione, che nel nuovo ordinamento costituzionale hanno solennemente riaffermato, proprio in opposizione a quel sistema, il principio della libertà sindacale inteso, già nella sentenza n. 29 del 1960, come libertà di azione sindacale, la difesa dei vigili urbani conclude per la dichiarazione d'illegittimità costituzionale della norma.

Queste considerazioni sono state poi ulteriormente illustrate in una memoria depositata il 16 gennaio 1969, nella quale si richiamano le precedenti argomentazioni e si aggiunge che l'art. 39 costituisce un logico sviluppo della proclamazione dell'art. 1 secondo cui "l'Italia é una Repubblica democratica fondata sul lavoro" e che, pur essendo inserito nel titolo terzo che regola i "rapporti economici" si riconnette in una felice ed efficace sintesi con le altre disposizioni regolanti i "rapporti civili". Aggiunge che la libertà sindacale non può essere negata a particolari categorie di cittadini, stante il divieto di discriminazioni di cui all'art. 3 della Costituzione, e poiché il' diritto di sciopero é la principale manifestazione della libertà sindacale non può come questa subire limiti di carattere soggettivo. La diretta tutela che quest'ultimo diritto trova nell'art. 40 determina a suo favore una doppia liceità. In base a questi rilievi la difesa dei vigili conclude perché l'art. 330 del Codice penale sia dichiarato costituzionalmente illegittimo.

2. - Altra questione analoga é stata poi sollevata dal pretore di Roma nel corso di un processo penale contro cinque autisti e fattorini dell'Organizzazione Autoservizi Zeppieri di Roma, imputati del reati di cui all'art. 330 del Codice penale per avere partecipato ad uno sciopero impedendo improvvisamente le partenze dei pulman, con riferimento agli artt. 3, 39 e 40 della Costituzione.

Nell'ordinanza 2 marzo 1968 il pretore osserva innanzi tutto che la questione può essere risollevata nonostante che la Corte costituzionale si sia già pronunciata sullo sciopero degli incaricati di un pubblico servizio di autotrasporti, rifacendosi sostanzialmente ai motivi già richiamati a proposito dell'ordinanza del giudice istruttore per dedurne che la questione di costituzionalità é rimasta impregiudicata. Argomenta la non manifesta infondatezza della questione stessa facendo osservare che l'ammissione di limiti soggettivi al diritto di sciopero, mentre violerebbe l'art. 3, sarebbe in contrasto con l'art. 40 che consente solo limitazioni riguardanti l'esercizio, non già la titolarità del diritto stesso, ed altresì con l'art. 39, data la connessione fra quest'ultimo e la libertà sindacale.

Passando a considerare il problema dei limiti obbiettivi del diritto di sciopero, l'ordinanza osserva che esula dalla competenza dell'autorità giudiziaria effettuare quella comparazione fra gli interessi tutelati con l'esercizio del diritto di sciopero e quelli generali preminenti da cui la Corte fa discendere uno di tali limiti. Escluso poi che l'art. 330 comprenda in sé ipotesi di astensione dal lavoro non qualificabili come sciopero, essendo ipotesi di tal genere previste dal successivo art. 333, non é prospettabile l'eventualità che dall'annullamento dell'art. 330 possa discendere una lacuna, tale da precludere la pronunzia che lo sancisca.

Infine il pretore segnala l'antinomia che si determinerebbe tra l'applicazione "residuale" dell'art. 330 e la previsione dell'aggravante per l'ipotesi in cui il fatto abbia determinato dimostrazioni, tumulti o sommosse popolari, la quale é conciliabile invece con l'interpretazione da lui seguita.

L'ordinanza é stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 152 del 15 giugno 1968.

Avanti la Corte costituzionale si sono costituiti Sica Giovanni, col patrocinio degli avv. Benedetto Bussi e Vincenzo Summa, Bontatti Luigi e Santandrea Filippo, col patrocinio degli avv. Luciano Ventura e Vincenzo Summa e Giacomi Vittorio col patrocinio degli avv. Carlo Smuraglia e Vincenzo Summa, i quali hanno svolto le loro argomentazioni nella memoria depositata il 16 gennaio 1969.

Anch'essi deducono preliminarmente che l'art. 330 del Codice penale deve ritenersi escluso dal sistema positivo per effetto della caduta dell'ordinamento corporativo e comunque a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione, per assoluta incompatibilità con l'art. 40 di questa e ricordano come in un primo tempo fosse stata addirittura prospettata una sorta di eccezionale "desuetudine" di questa norma penale e come in ogni caso la dottrina non abbia avuto dubbi circa la sua abrogazione ai sensi dell'art. 15 delle preleggi.

Poiché tuttavia, in seguito, si é manifestato anche un orientamento giurisprudenziale diretto a negare l'abolizione implicita della norma, o a risolvere il problema mediante ricorso all'esimente di cui all'art. 51 del Codice penale, appare necessario che si giunga ad un completo chiarimento sul punto, col riconoscimento esplicito dell'illegittimità costituzionale della norma.

Dopo avere ricordata la sentenza della Corte n. 123 del 1962 e la giurisprudenza dei giudici ordinari, sempre restia ad applicare l'art. 330, i difensori si diffondono a dimostrare come l'abbandono del servizio sia previsto anche da altre norme sanzionatorie, rispetto alle quali quella in esame presenta la particolarità di essere diretta contro le astensioni a carattere collettivo e contro l'organizzazione dei lavoratori, come del resto era nelle intenzioni del legislatore dell'epoca. Donde la conseguenza che l'art. 330 appare oggi o una ripetizione superflua di altre norme penali o come una norma incompatibile con i principi di libertà che informano l'ordinamento vigente.

Dopo avere svolto varie considerazioni volte ad illustrare le particolarità del rapporto di lavoro dei ferrotranvieri, i difensori mettono in rilievo la diversa formulazione della norma impugnata rispetto a quella dell'art. 328 del Codice penale che punisce chi indebitamente rifiuta ecc., ed a quella dell'art. 333, che punisce ogni prestazione del servizio svolta (al fine anziché soltanto in modo) da turbarne la regolarità, ed osservano che molto più grave ne risulta, di conseguenza, la limitazione alla libertà di azione sindacale. Per contro, la formula dell'art. 330 é da avvicinare a quella dell'art. 502, secondo comma, del Codice penale, che fu infatti dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 29 del 1960.

Per queste ragioni insistono per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 330 del Codice penale, per violazione degli artt. 3, 39 e 40 della Costituzione.

3. - Infine, altra simile questione di legittimità costituzionale é stata sollevata dallo stesso pretore di Roma, con ordinanza 7 marzo 1968, nel corso del processo penale promosso contro Corsi Bernardino ed altri dipendenti dell'Azienda Comunale Centrale del Latte di Roma che avevano anch'essi abbandonato collettivamente il servizio per aderire ad uno sciopero.

Dopo avere svolto considerazioni preliminari analoghe a quelle esposte nelle altre ordinanze, il pretore osserva che la statuizione di questa Corte, secondo cui l'art. 330 può trovare ancora applicazione per gli scioperi a finalità non economiche, e per quelli dei funzionari esercenti attività la cui interruzione riesca lesiva degli interessi generali tutelati dalla Costituzione, in quanto ha per conseguenza di affidare al giudice ordinario la identificazione della natura dello sciopero e la valutazione comparativa degli interessi confliggenti, viene a contrastare con il principio della riserva di legge posta dall'art. 40 della Costituzione che non consente di decidere nei singoli casi, e con criteri necessariamente variabili da caso a caso, quali siano gli interessi suscettibili di imporre limitazioni soggettive ed oggettive del diritto in questione, e contrasta altresì con l'altro principio dell'eguaglianza consacrato nell'art. 3. Aggiunge che, anche a volere ammettere la sussistenza di limiti di tal genere, non se ne può senz'altro argomentare che dalla loro violazione siano da far discendere sanzioni penali, essendo invece possibile ipotizzare conseguenze intermedie fra l'illecito penalmente sanzionato e il diritto, la cui determinazione non é stata operata dal legislatore, né é desumibile dall'interpretazione data dalla Corte. Altro contrasto con i principi il giudice desume dall'ipotesi di aggravamento che il n. 1 dell'ultimo comma dello stesso art. 330 prevede pel caso che l'abbandono dei pubblici servizi avvenga per finalità politica. Ipotesi che (mentre non appare integrata nel vigente sistema costituzionale che é sorto da esperienze storiche che hanno conferito agli scioperi politici rilievo fondamentale, e che riconosce all'autotutela popolare una funzione di garanzia contro involuzioni antidemocratiche dell'ordinamento) presenta il pericolo che si ravvisi una finalità politica in ogni forma di sciopero di pubblici dipendenti. Fa rilevare infine che l'esclusione dal diritto di sciopero per intere categorie di lavoratori importa gravi conseguenze in ordine alla libertà sindacale, che é in stretta correlazione con quel diritto (come la Corte ha altre volte ritenuto) e determina di conseguenza anche una violazione dell'art. 39.

L'ordinanza debitamente notificata e comunicata é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 203 del 10 agosto 1968. Nel giudizio innanzi a questa Corte nessuna delle parti si é costituita.

 

Considerato in diritto

 

Le tre cause, aventi ad oggetto una stessa disposizione legislativa e richiedenti l'interpretazione delle disposizioni costituzionali attinenti alla stessa materia vanno riunite e decise con unica sentenza.

1. - L'ordinanza del giudice istruttore denuncia l'illegittimità costituzionale dell'art. 330 del Codice penale, per violazione, oltre che dell'art. 40 della Costituzione, già preso in esame dalla precedente sentenza n. 123 del 1962, anche dell'art. 39, mentre le due del pretore aggiungono a queste la violazione dell'art. 3.

Si rende opportuno, prima di procedere all'esame delle censure riferite, prendere in considerazione il motivo, fatto valere più particolarmente dalla difesa di parte, che, se vero, sarebbe assorbente, secondo cui, avendo l'art. 330 recepito in ogni sua parte (con in più l'aggravamento delle pene) l'art. 19 della legge 3 aprile 1926, n. 563, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, ed essendo perciò permeato dell'ideologia corporativa della quale quella legge fu tipica espressione, non se ne può ammettere la permanenza in un ordinamento come quello ora vigente poggiante su concezioni con essa contrastanti. Sicché, anche a non volerne dichiarare l'avvenuta abrogazione (come la Corte ebbe a ritenere nei confronti dell'art. 502, con la sentenza 29 del 1960), sia da statuire l'illegittimità dell'intera disciplina ivi contenuta.

Il richiamo all'art. 502 é però inconferente perché questo puniva lo sciopero effettuato per motivi contrattuali, contrastante con l'ordine del lavoro e rubricato fra i delitti contro l'economia pubblica, sicché, strettamente collegato com'era ad un insieme di istituti creati per la composizione in via giurisdizionale dei conflitti fra le classi addette alla produzione, non poté sopravvivere alla loro caduta. Differente é invece la valutazione da fare dell'art. 330, riguardante un reato irriducibile all'altro per la diversità dei soggetti e degli interessi coinvolti nell'abbandono del servizio. Infatti il Codice lo fa rientrare fra i reati contro la pubblica Amministrazione, considerando suoi soggetti attivi, oltre ai lavoratori dipendenti, anche alcune categorie di lavoratori autonomi e persino soggetti, quali i pubblici funzionari, del tutto estranei ai rapporti di lavoro cui si riferiva l'ordinamento corporativo.

Si può aggiungere che nei confronti di questi ultimi anche il Codice penale prefascista del 1889, puniva all'art. 181 l'indebito allontanamento dall'ufficio effettuato previo concerto in numero di tre o più persone. Allontanamento che, secondo le concezioni del tempo, era considerato "indebito" pur quando fosse stato promosso dall'intento di ottenere mutamenti delle norme regolanti rapporti di lavoro con lo Stato o con altri enti pubblici (come può desumersi anche dal confronto con il disposto dell'art. 166, dettato per i rapporti disciplinati da convenzioni di diritto privato, rispetto ai quali perseguito penalmente era l'abbandono del lavoro solo se promosso o accompagnato da violenza o da minacce).

Se una correlazione é dato riscontrare fra l'art. 330 e l'assetto politico vigente al tempo della sua emanazione, essa non attiene alla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro o di servizio ivi considerati, ma piuttosto alla generale concezione autoritaria della posizione dello Stato nei rapporti con i cittadini che ispirava il regime dell'epoca e conduceva a ridurre la tutela dei diritti pubblici soggettivi di costoro, quando non anche a negarne il riconoscimento; concezione che trova un riflesso, per quanto riguarda l'articolo in esame, nella gravità delle sanzioni penali dal medesimo comminate (tanto più evidente quando si pongano a confronto con quelle prima disposte dall'art. 181, fatte consistere solo nella multa e nell'interdizione temporanea dall'ufficio). Ma, a parere della Corte, tale circostanza non é sufficiente a far ritenere caducato l'articolo, né per la parte precettiva, né per quella sanzionatoria.

Che l'art. 330 non possa in nessun caso venir meno nella sua totalità emerge poi anche dall'altro rilievo che la genericità della sua formulazione lo rende applicabile a fatti di abbandono collettivo del lavoro i quali non abbiano finalità rivendicative degli interessi economici di coloro che l'effettuano, sicché verrebbe a conservare una sua propria ragione d'essere (contrariamente a quanto si sostiene, e senza considerare il precedente rilievo sull'incongruenza della pena) anche se dovesse venire affermata l'incostituzionalità della particolare fattispecie criminosa costituita dallo sciopero in senso tecnico. Né vale a far ritenere diversamente l'argomento desunto dall'intitolazione data all'articolo in esame poiché, se pure essa corrispondeva all'intenzione del legislatore dell'epoca di considerare lo sciopero come fattispecie tipica del crimine voluto reprimere, non esclude la possibilità di far rientrare nell'ampia sua formulazione anche ipotesi differenti da quella tipica. Può aggiungersi che l'ordinamento antecedente prevedeva come reato a sé stante l'abbandono dell'ufficio da parte di un singolo pubblico ufficiale (art. 181, secondo comma), dal che può argomentarsi che la pluralità degli agenti era considerata costitutiva di un reato a sé stante, differenziabile quindi da quello cui dà luogo la comune figura del concorso di più persone in uno stesso reato. Il che sembra sufficiente a contestare l'esattezza della tesi enunciata dalla difesa di parte, secondo cui la caduta dell'art. 330 non determinerebbe alcuna lacuna riguardo alla repressione dell'abbandono collettivo dell'attività, per il fatto che vi si potrebbe provvedere ricorrendo all'applicazione dell'art. 333 del Codice penale. La diversità delle due ipotesi appare comprovata dal fatto che, mentre quest'ultimo articolo condiziona la punibilità alla prova del dolo specifico (abbandono al fine di turbare la continuità o regolarità del servizio), l'altro ne prescinde, nella presunzione che tale turbamento si accompagni necessariamente all'abbandono effettuato da un gruppo di persone d'accordo fra loro.

Più persuasivo dei precedenti non é neppure un ultimo argomento che si ritiene di poter trarre dall'aggravamento di pena sancito dal n. 2 del secondo comma dell'art. 330 pel caso che l'abbandono abbia determinato dimostrazioni o tumulti, poiché, comprendendo la disposizione, come si é detto, ogni specie di astensione dal lavoro, non si sarebbe potuto non considerare l'ipotesi che i fini perseguiti da qualcuna di esse o le modalità del suo svolgimento inducessero a fatti di violenza o di turbamento dell'ordine pubblico.

2. - Passando ora a considerare le censure dedotte dall'art. 40, con riferimento allo sciopero ivi considerato, caratterizzato (secondo l'origine e la funzione attribuita al termine nell'attuale fase storica) dalla sospensione dell'attività di lavoro da parte di lavoratori dipendenti, strumentale pel conseguimento dei beni economico-sociali che il sistema costituzionale collega alle esigenze di tutela e di sviluppo della loro personalità, la Corte deve riconfermare l'interpretazione data nella precedente sentenza n. 123 del 1962 circa l'ambito da assegnare ai limiti che l'articolo stesso connette all'esercizio del diritto di sciopero.

Si é in contrario pregiudizialmente sostenuto che, avendo l'art. 40 assegnato alla legge la determinazione di siffatti limiti, l'interprete non potrebbe sostituirsi ad essa senza violare la riserva disposta a suo favore. É agevole replicare che la libertà del legislatore in materia non può esercitarsi in misura tale da riuscire lesiva di altri principi costituzionali, indirizzati alla tutela o di beni di singoli, pari ordinati rispetto a quelli affidati all'autotutela di categoria, oppure delle esigenze necessarie ad assicurare la vita stessa della comunità e dello Stato. E non può esser dubbio che competa alla Corte costituzionale la funzione di accertare se limiti di tal genere si desumano dal sistema, procedendo nell'affermativa alla loro determinazione, allorché ciò si renda necessario, come avviene nella specie, per potere decidere della loro applicabilità alla legge denunciata. Ove si ritenesse diversamente risulterebbe violata non già la riserva di legge, ma l'altra riserva che l'art. 134 dispone nei confronti della Corte quando le affida il compito di giudicare della legittimità costituzionale delle leggi. L'ampia discrezionalità spettante al legislatore per l'assolvimento del compito conferitogli dall'art. 40 non potrebbe mai esercitarsi in modo da pregiudicare gli interessi fondamentali dello Stato previsti e protetti dalla Costituzione. Né può ammettersi che l'intervento della Corte si renda possibile solo dopo che il potere predetto sarà stato esercitato ed in confronto alla legge a tale scopo emanata, perché, a parte l'assurdo di un diritto suscettibile di svolgersi per un tempo indeterminato all'infuori di ogni limite, il vincolo a carico del legislatore, proveniente da una fonte sopraordinata, com'é la Costituzione, precede e condiziona la sua attività.

La tesi enunciata dalle ordinanze secondo cui l'art. 40, prevedendo solo limitazioni all'esercizio del diritto, non tollera che esse si estendano alla sua titolarità, si dimostra inesatta sulla base dell'osservazione che queste ultime sono necessariamente collegate alle prime. Infatti, una volta ammesso, com'é indubbio, che la libertà di sciopero, per rimanere nell'ambito corrispondente al suo oggetto, di libertà di non fare, deve svolgersi in modo da non ledere altre libertà costituzionalmente garantite, com'é quella consentita a quanti non aderiscono allo sciopero, di continuare nel loro lavoro, o altri diritti egualmente protetti, quale quello di poter continuare a fruire dei beni patrimoniali privati o di appartenenza pubblica senza che essi siano esposti al pericolo di danneggiamenti o ad occupazioni abusive, se ne deve dedurre che, già pur sotto questo circoscritto punto di vista, non sia contestabile l'esigenza di limitare il diritto in parola per coloro cui siano demandati compiti rivolti ad assicurare il rispetto degli interessi che potrebbero riuscire compromessi da scioperanti indotti a sostenere le proprie ragioni con intimidazioni o violenze, e rispetto a cui si rende indispensabile l'impiego di congrui mezzi di prevenzione o di repressione. Rilievo ancora maggiore assumono le prospettate esigenze garantiste quando si abbia riguardo ai valori fondamentali legati all'integrità della vita e della personalità dei singoli, la cui salvaguardia, insieme a quella della sicurezza verso l'esterno, costituisce la prima ed essenziale ragion d'essere dello Stato.

Si potrebbe ritenere che la soddisfazione di tali finalità non richieda necessariamente e sempre l'esclusione dall'esercizio del diritto per tutti i preposti ai compiti di protezione di cui si é parlato, potendo risultare sufficiente, almeno per alcuni di essi, consentire l'esercizio stesso in una misura tale da assicurare almeno un minimo di prestazioni che attengano ai servizi essenziali. Ma é chiaro che la disciplina di un siffatto uso parziale non potrebbe essere consentita altrimenti che con apposita legge, cui competerebbe fissarne i casi di ammissibilità, nonché le condizioni ed i modi necessari ad assicurare la efficienza e la continuità dei servizi stessi.

Le conclusioni alle quali si é pervenuto nell'interpretazione dell'art. 40 non sono in nessun modo influenzate dal richiamo che le ordinanze fanno all'art. 3, dato che l'eguaglianza nel godimento dei diritti può farsi valere fino a quando sussista parità di situazioni, e tale presupposto non si verifica per i preposti ad organi e per gli appartenenti a corpi che importano l'assoggettamento dei medesimi a quei particolari doveri ai quali é legato il conseguimento delle finalità prima menzionate.

Parimenti non decisivo deve ritenersi il richiamo all'art. 39 poiché, anche ad ammettere che la libertà di associazione di categoria per coloro il cui rapporto di lavoro non sia regolato dalla contrattazione collettiva trovi fondamento in detta norma, e non debba piuttosto farsi discendere dal principio consacrato nell'art. 18, e pur tenendo presente quanto la Corte ha statuito con le due sentenze n. 29 del 1960 e n. 141 del 1967, secondo cui la libertà di organizzazione sindacale trova il suo necessario corollario nella libertà di azione, non può senz'altro farsene discendere in ogni caso una sua indiscriminata pienezza di esercizio, una volta dimostrato, come si é fatto, che la libertà stessa, considerata in sé e nel sistema, non può non risultare limitata. Ed é chiaro che anche l'art. 81, lett. e, della legge delegata n. 3 del 1957, sullo statuto degli impiegati civili dello Stato, invocato dalla difesa di parte, deve essere interpretato alla stregua del criterio delineato. Naturalmente competerà poi al legislatore stabilire i mezzi di azione sindacale per la difesa degli interessi di categoria dei funzionari, per i quali il limite in parola fosse fatto valere.

Discende dalle precedenti considerazioni che per i soggetti non addetti alle menzionate funzioni essenziali debba riconoscersi pienezza di esercizio del diritto di sciopero, salva sempre la potestà del legislatore di regolarne le modalità.

3. - Il compito affidato alla Corte non può spingersi al di là della determinazione del criterio generale, qual'é desumibile dall'interpretazione sistematica dell'art. 40 della Costituzione. Compete al giudice di merito procedere alla applicazione del criterio stesso ai casi concreti, che dovrà effettuarsi in base alla valutazione di tutti gli elementi che, nelle singole situazioni, concorrono a far decidere circa l'appartenenza a categorie per le quali il riconoscimento del diritto all'astensione collettiva dal lavoro rischi di compromettere funzioni o servizi da considerare essenziali pel loro carattere di preminente interesse generale, ai sensi della Costituzione.

Non é esatto quanto asserito in qualcuna delle ordinanze, che cioè sfugga al potere del giudice la valutazione comparativa degli interessi, quale si rende necessaria per la risoluzione delle controversie in materia, poiché a valutazioni siffatte l'organo giudicante necessariamente deve procedere tutte le volte che la formulazione delle norme da applicare le richieda.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 330, primo e secondo comma, del Codice penale, limitatamente all'applicabilità allo sciopero economico che non comprometta funzioni o servizi pubblici essenziali, aventi caratteri di preminente interesse generale ai sensi della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 febbraio 1969.

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE 

 

Depositata in cancelleria il 17 marzo 1969.