Sentenza n. 113 del 1968
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SENTENZA N. 113

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 28, secondo comma, n. 5, del Codice penale, e 91 della legge 10 agosto 1950, n. 648, recante "riordinamento delle disposizioni sulle pensioni di guerra", promossi con due ordinanze in data 16 dicembre 1966 emesse, rispettivamente, dalla prima e dalla quinta sezione giurisdizionale per le pensioni di guerra della Corte dei conti sui ricorsi di Scalise Pasquale e di Barlozzo Carlo, iscritte al n. 115 del Registro ordinanze 1967 e al n. 9 del Registro ordinanze 1968 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 177 del 15 luglio 1967 e n. 50 del 24 febbraio 1968.

Udita nella camera di consiglio del 12 giugno 1968 la relazione del Giudice Costantino Mortati.

 

Ritenuto in fatto

 

Nei giudizi relativi ai ricorsi con i quali tali Scalise Pasquale e Barlozzo Carlo avevano impugnato i decreti del Ministero del tesoro reiettivi, per sopravvenuta indegnità, delle loro domande intese ad ottenere l'attribuzione della pensione di guerra, la prima e la quinta sezione giurisdizionale per le pensioni di guerra della Corte dei conti, con due ordinanze pronunciate lo stesso giorno 16 dicembre 1966, hanno proposto questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, secondo comma, n. 5, del Codice penale e 91 della legge 10 agosto 1950, n. 648, che stabiliscono appunto la perdita della pensione di guerra da parte di chi, posteriormente al suo conseguimento, abbia subito condanna che importi l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, o sia stato condannato a pena superiore ai tre anni in base ai Codici penali militari che renda il condannato indegno di appartenere alle forze armate.

Nell'ordinanza della prima sezione, dato atto che la sentenza n. 3 del 1966 di questa Corte non riguarda l'ipotesi delle pensioni di guerra, poiché queste non derivano da un rapporto di lavoro, si osserva che anche tali pensioni adempiono peraltro molto spesso alla funzione di assicurare il mantenimento del pensionato, specie nei casi di invalidità totale, e che il diniego di questo mezzo di sostentamento nell'ipotesi in cui l'invalido abbia riportato determinate condanne sembra determinare una ingiustificata diseguaglianza di trattamento fra invalidi incensurati ed invalidi condannati.

Posto che anche chi ha commesso reati ha diritto a vivere, viene pure in rilievo l'art. 27 della Costituzione, perché le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non si rieduca la persona cui si tolgono i mezzi di sussistenza, favorendosi invece la commissione di nuovi delitti.

L'ordinanza richiama, infine, l'art. 38 della Costituzione Che afferma indiscriminatamente il diritto all'assistenza per i Cittadini bisognosi, ai quali tale diritto é garantito senza particolari qualificazioni di status professionale.

La quinta sezione, rilevata anch'essa l'inapplicabilità della sentenza n. 3 del 1966 alle pensioni di guerra, si diffonde a ricercare il fondamento della concessione delle pensioni stesse ritenendo che il loro conferimento non riveste carattere assistenziale, ma dà vita ad un vero diritto soggettivo, anche se si concreta in un indennizzo, anziché in un risarcimento, derivando da un'attività non colposa dello Stato. Se le pensioni in parola vogliono dare un ristoro per le menomazioni del fisico della persona rimasta minorata in conseguenza di fatti bellici, risulta rispetto a ciò irrilevante il fatto che questa sia o non incensurata; mentre il diniego della pensione potrebbe quindi risolversi nel diniego dei mezzi necessari per vivere, contemplati nell'art. 38 della Costituzione.

Ambedue le sezioni ritengono pertanto la questione rilevante e non manifestamente infondata, la prima, con riferimento agli artt. 3, 27 e 38 della Costituzione, la quinta, a quanto sembra, al solo articolo 38. Ambedue le ordinanze sono state regolarmente notificate, comunicate e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 177 del 15 luglio 1967 e n. 50 del 24 febbraio 1968, ma nessuno si é costituito né é intervenuto avanti la Corte. Conseguentemente questa ha deciso in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 26 della legge n. 87 del 1953.

 

Considerato in diritto

 

1 - Poiché le due ordinanze riguardano analoghe questioni, deve disporsi la riunione dei giudizi e la decisione con unica sentenza.

2. - Preliminarmente si presenta l'esame dell'influenza sulle presenti cause della legge 18 marzo 1968, n. 313, sul riordinamento della legislazione pensionistica di guerra, sopravvenuta dopo l'emanazione delle ordinanze, il cui art. 102, innovando alle disposizioni di legge in esse denunciate, ha limitato la perdita del diritto alla pensione di guerra solo ai casi di condanna a pena superiore a tre anni pronunciata in base ai Codici penali militari, che renda il condannato indegno di appartenere alle forze armate, eliminando così le altre ipotesi di perdita che l'art. 91 della legge del 1950 faceva derivare da qualsiasi condanna cui conseguisse l'interdizione perpetua ai pubblici uffici; ipotesi quest'ultima che appunto ricorre nella specie, dato che tanto lo Scalise quanto il Barlozzo hanno riportato condanne per reati di carattere non militare. Le nuove disposizioni non sono tuttavia applicabili a costoro, oltre che per effetto della statuizione dell'art. 116, primo comma, della legge stessa che limita l'applicabilità delle sue norme più favorevoli dal 16 gennaio 1968, anche in virtù dei principi, non ricorrendo le condizioni poste dal terzo comma dell'art. 2 del Codice penale che dispone la retroattività delle leggi penali più favorevoli al reo (fra le quali sono da comprendere anche quelle che sanciscono pene accessorie, e fra queste la perdita del diritto a pensione, costituente uno degli effetti dell'interdizione perpetua ai pubblici uffici) ma solo nell'ipotesi che non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, come invece nella specie é accaduto. La questione investe solo l'art. 91, 1 comma, ultima parte.

3. - La Corte dei conti, nella prima delle due ordinanze, ha sollevato il dubbio se le norme denunciate contrastino con l'art. 27 della Costituzione, nel senso di pregiudicare il fine rieducativo assegnato alla pena. Questa Corte si é pronunciata sull'interpretazione dell'articolo predetto in più occasioni, ed in modo particolare con la sentenza n. 12 del 1966, nella quale ha affermato che la pena pecuniaria non contrasta di per sé con la funzione rieducatrice (e ciò anche quando, come risulta dalla precedente sentenza n. 67 del 1963, la pena stessa sia prevista in misura fissa), e ritiene il dovere riaffermare la precedente interpretazione.

4. - Ugualmente infondata deve ritenersi la censura fatta derivare dall'allegata violazione dell'art. 38 della Costituzione. Può osservarsi come a siffatta violazione viene, in certo senso, a ricollegarsi anche quella dell'art. 27 prima considerata, dato il particolare aspetto sotto il quale la ordinanza l'hanno prospettata, quando hanno fatto derivare il pregiudizio recato alla funzione rieducativa della pena dalle difficoltà economiche conseguenti alla perdita del diritto a pensione. A dimostrare però come anche l'art. 38 non risulti violato basta osservare che, a differenza di quanto avviene per le pensioni assegnate in dipendenza di rapporti di lavoro, che rivestono appunto indole previdenziale, quelle di guerra hanno diverso fondamento, prescindendo sia dalla situazione lavorativa di chi sia stato colpito da danno alla persona in conseguenza di evento bellico, e sia dallo stato di bisogno di cui egli venga a trovarsi. Sicché, risultando i due trattamenti fra loro indipendenti e, nei congrui casi e ricorrendone i presupposti, cumulabili, non può ritenersi che la perdita del diritto alla pensione di guerra prevista dalle norme denunciate possa compromettere l'altro diritto all'assistenza ed alla previdenza sociale.

5. - Fondata, invece, deve ritenersi la dedotta violazione dell'art. 3 quando si confrontino le norme denunciate con la situazione che si é venuta a determinare nella disciplina delle pensioni ordinarie, in conseguenza delle sentenze di questa Corte n. 3 del 1966, e 78 del 1967 e, con effetti più generali, della legge n. 424 del 1966, caratterizzata dall'esclusione di qualsiasi influenza sul conferimento e sul mantenimento dei trattamenti di quiescenza a favore dei pubblici dipendenti dalle condanne ad essi inflitte, quale che sia il reato che le ha determinate, anche il più gravemente lesivo dei supremi interessi dello Stato.

É vero che, come si é prima rilevato, diverso é il presupposto che sostiene le due specie di concessioni, e che quelle effettuate in dipendenza di eventi bellici, non essendo collegate a vincoli discendenti da un preesistente rapporto di servizio consentono una più ampia discrezionalità del legislatore, cui rimane affidata, insieme alla decisione di indennizzare, facendone gravare l'onere sull'intera collettività nazionale, in applicazione di un principio solidaristico, i colpiti nell'integrità fisica a causa di eventi bellici, quella di determinare i limiti quantitativi dell'indennizzo, nonché le condizioni e le modalità per la sua attribuzione.

Dal che deriva che nessun ostacolo di principio é invocabile che inibisca al legislatore di disporre la cessazione del diritto alla pensione pel sopravvenire di cause di indegnità connesse a reati, non potendosi a ciò opporre il carattere di diritto quesito alla pretesa discendente dall'avvenuta concessione, dato che questa era stata conferita sotto la predetta condizione risolutiva. Tuttavia la disciplina in materia non può sottrarsi all'osservanza del principio di eguaglianza, ed al sindacato sulla medesima, nei limiti in cui esso é consentito al giudice della legittimità.

Ora ragioni di gravi perplessità non possono non sorgere sulla ragionevolezza della diversità di trattamento che si viene a determinare fra i militari di carriera e quelli non professionali per il fatto che i primi, in quanto forniti di pensione privilegiata ordinaria, in funzione di pensione di guerra (ex art. 37 legge n. 313 del 1968) conservino il relativo diritto dopo la condanna a reati, pur se tali da importare degradazione o destituzione, mentre i secondi, in dipendenza degli stessi fatti o di fatti delittuosi assai meno gravi, ne vengono privati.

Ancora più incongrua appare la disarmonia che viene a verificarsi, nell'attuale sistema, nei riguardi della stessa categoria dei militari non di carriera, poiché, mentre fa discendere la revoca della pensione di guerra per sopravvenuta indegnità del beneficiario, conserva poi quella privilegiata ordinaria di cui sia fornito colui al quale siano applicate sanzioni penali analoghe a quelle addebitabili all'altro.

Anche se si dovessero ritenere non decisive le precedenti considerazioni, tali sono invece da valutare altre deducibili dalla diversità delle norme in esame rispetto a quelle sul risarcimento dei danni di guerra, di cui alla legge 26 ottobre 1940, n. 1543; risarcimento al quale é da riconoscere lo stesso carattere di indennizzo proprio delle pensioni. L'art. 4 di questa legge sancisce la pena accessoria dell'esclusione del risarcimento medesimo in determinati casi di condanna, ma questi sono contenuti in una misura più limitata rispetto a quella prevista per le pensioni, riguardando non tutti i reati che importino l'interdizione perpetua dai pubblici uffici bensì solo (oltre ad alcuni reati militari) i reati contro la personalità dello Stato e la pubblica amministrazione. E non sembra giustificabile la minore severità nei confronti di chi ha subito, per la stessa causa di guerra, danni alle cose rispetto a chi sia stato leso nell'integrità fisica.

Altro motivo a suffragio della fondatezza dell'allegata violazione dell'art. 3 si deduce dal citato art. 102 della legge del 1968, che sembra esprimere la convinzione dello stesso legislatore circa la mancanza di un solido fondamento giuridico a sostegno del mantenimento della sanzione della perdita di un diritto che si radica nel particolare sacrifizio dell'integrità fisica subito a causa del servizio reso nella difesa della Patria, o comunque per effetto di eventi straordinari provocati dalla guerra.

6. - Queste stesse considerazioni inducono la Corte a dichiarare, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale anche dell'art. 102 della legge 18 marzo 1968, n. 313, sul riordinamento della legislazione pensionistica di guerra, ed inoltre la prima parte del primo comma, nonché il secondo, il terzo ed il quarto comma dell'art. 91 della predetta legge 10 agosto 1950, n. 648.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale:

1) dell'art. 28, secondo comma n. 5, del Codice penale, per quanto attiene alle pensioni di guerra;

2) dell'art. 91 della legge 10 agosto 1950, n. 648, sul riordinamento delle disposizioni sulle pensioni di guerra;

3) dell'art. 102 della legge 18 marzo 1968, n. 313, sul riordinamento della legislazione pensionistica di guerra.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1968.

 

 

Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI

 

 

Depositata in cancelleria il 19 luglio 1968.