Sentenza n. 120 del 1963
 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 120

ANNO 1963

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma, della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, promossi con cinque ordinanze emesse il 5 luglio 1962 dal Pretore di Genova nei procedimenti penali a carico, rispettivamente, di Dani Gino, Mazzi Ermanno, Mazzarella Millo, Marcialis Giuseppe e Speroni Garibaldino, iscritte ai nn. 145, 146, 147, 148 e 149 del Registro ordinanze 1962 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 259 del 13 ottobre 1962.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione in giudizio di Dani Gino, Mazzi Ermanno, Mazzarella Millo, Marcialis Giuseppe e Speroni Garibaldino;

udita nell'udienza pubblica del 24 aprile 1963 la relazione del Giudice Antonio Manca;

uditi gli avvocati Arturo Carlo Jemolo e Luigi Arnaboldi, per le parti private, e il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di procedimenti penali a carico dei signori Gino Dani, Ermanno Mazzi, Millo Mazzarella, Giuseppe Marcialis e Garibaldino Speroni, il Pretore di Genova, con cinque separate ordinanze del 5 luglio 1962, ha sollevato la questione della legittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma, della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, per contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 39, quarto comma, della Costituzione. Detta legge concerne il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego di mano d'opera negli appalti di opere e di servizi.

Dispone nell'art. 3, primo comma, che gli imprenditori che appaltano opere e servizi da eseguirsi nell'interno delle aziende, con organizzazione e gestione propria dell'appaltatore, sono tenuti in solido con quest'ultimo a corrispondere ai lavoratori dal medesimo dipendenti un trattamento minimo normativo non inferiore a quello spettante ai lavoratori dipendenti dalle aziende appaltanti.

Il secondo comma, ora denunciato, stabilisce che la stessa disciplina si applica agli appalti concessi dalle imprese che esercitano un pubblico servizio per le attività di esazione, installazione e lettura di contatori, manutenzione di reti di distribuzione e di trasporto, allacciamenti, costruzione di colonne montanti, impianti di apparecchi, reti a bassa tensione ed attività similari.

Nell'art. 6 é contenuta la sanzione penale (ammenda) per l'inosservanza delle disposizioni dell'art. 3.

Il Pretore ha ritenuto la questione rilevante per la definizione del processo e non manifestamente infondata.

In riferimento al secondo comma dell'art. 25 della Costituzione osserva che, nella disposizione impugnata, la frase "o attività similari" deferirebbe al guidice la individuazione del fatto-reato in via di analogia, in contrasto col carattere tassativo del precetto penale, desumibile implicitamente dalla citata norma costituzionale.

Aggiunge, d'altra parte, che, nel caso attuale, non troverebbero applicazione i principi enunciati nella sentenza di questa Corte n. 27 del 1961, in relazione all'art. 121 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773. Ciò perché, in questo articolo, la frase "e mestieri analoghi" si riporterebbe a fattispecie omogenee, tali da fornire all'interprete precise direttive per la determinazione del fatto punibile, mentre, nella disposizione denunciata, le indicazioni esemplificative avrebbero carattere eterogeneo, e darebbero luogo ad un ampliamento e ad un'integrazione della norma penale da parte del giudice.

Riguardo alla violazione dell'art. 39 della Costituzione, il Pretore, riportandosi all'opinione che, in tale articolo, sia contenuta una riserva normativa a favore dei sindacati, osserva che il secondo comma dell'art. 3 della legge del 1960 avrebbe, in sostanza, esteso un contratto collettivo concernente i rapporti di lavoro con l'impresa appaltante (telefonici) ai rapporti di lavoro dei dipendenti della ditta appaltatrice; rapporti regolati da diverso contratto collettivo (metalmeccanici) o non regolati da alcun contratto del genere.

Dopo espletato le prescritte formalità concernenti le notificazioni o comunicazioni, le ordinanze sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale del 13 ottobre 1962, n. 259.

In questa sede si sono costituite tutte le parti private, rappresentate dagli avvocati Arturo Carlo Jemolo, Vittore Martinelli e Luigi Arnaboldi. É pure intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato.

Le osservazioni contenute nell'ordinanza di rimessione sono condivise dalla difesa delle parti private. La quale, per quanto attiene all'art. 39, pone anche in rilievo gli inconvenienti pratici ai quali darebbe luogo l'applicazione della disposizione impugnata, non soltanto in relazione alla differenza inerente al contenuto ed al modo di corresponsione della retribuzione e del trattamento normativo, ma soprattutto per quanto attiene alla sperequazione di trattamento fra gli stessi operai dell'impresa appaltatrice, nel caso in cui alcuni prestassero la loro opera nell'interesse delle imprese prevedute dal secondo comma dell'art. 3, ed altri per conto di appaltatori diversi. A parte, si aggiunge, la difficoltà di poter individuare quale possa ritenersi trattamento minimo normativo più favorevole.

Conclude, quindi, per la illegittimità costituzionale della disposizione impugnata.

Nelle memorie depositate l'11 aprile 1963, nell'interesse del sig. Ermanno Mazzi e del sig. Giuseppe Marcialis, si riconosce che, in seguito alla sentenza di questa Corte n. 106 del 1962, deve ritenersi superata la tesi di una riserva normativa, o convenzionale, a favore dei sindacati. La difesa delle parti private rileva tuttavia che la illegittimità della disposizione impugnata troverebbe conferma anche nei principi enunciati nella predetta sentenza. E ciò perché violerebbe la libertà sindacale dell'autonomia collettiva professionale, creando, in sostanza, situazioni anche più gravi di quelle prevedute dalla legge del 14 luglio 1959, n. 741. Con questa legge, infatti, sono stati convertiti in norme legislative i contratti collettivi, ma riferentisi ciascuno alla stessa categoria, mentre la disposizione dell'art. 3, in discussione, imporrebbe di applicare soltanto in parte, e a una determinata categoria di lavoratori, contratti collettivi riguardanti una categoria diversa. D'altra parte anche se, in relazione a quanto ritenuto nella precedente decisione, il legislatore ordinario potesse intervenire nella disciplina dei rapporti di lavoro, in deroga anche ai contratti collettivi, ciò potrebbe ammettersi qualora questi non soddisfacessero bisogni elementari del lavoratore, sempre peraltro in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, ma non già in relazione al fatto contingente che il lavoratore presti la sua opera per conto di uno, o di un'altro tipo, di impresa appaltante. A parte il considerare, si aggiunge, che la legge del 1959 in tanto é stata ritenuta costituzionalmente legittima, in quanto contenente disposizioni di carattere transitorio ed eccezionale, mentre quella impugnata avrebbe invece carattere permanente.

L'Avvocatura dello Stato, nelle deduzioni depositate il 10 agosto 1962 e nelle memorie depositate il 10 aprile 1963, a sostegno della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, osserva, riguardo al dedotto contrasto con l'art. 25, che, dal primo comma di questo articolo, non sarebbe implicitamente desumibile il principio, stabilito nell'art. 1 del Codice penale, circa la necessità di un'espressa e tassativa indicazione legislativa del fatto punibile; e che comunque, anche nella specie, troverebbero applicazione i principi già enunciati nella sentenza di questa Corte, ricordata nell'ordinanza. Il riferimento alle "attività similari", infatti, non autorizzerebbe una nuova configurazione di reato, ma soltanto la individuazione del fatto in via di interpretazione, se la frase si collega non già alle esemplificazioni legislative considerate nel loro complesso, bensì a ciascuna delle dette indicazioni.

La formulazione legislativa, quindi, non darebbe adito all'applicazione per analogia della norma penale.

L'Avvocatura ritiene, inoltre, che non sussista neppure contrasto tra la norma impugnata e l'art. 39 della Costituzione.

Muovendo dal presupposto che non sussiste alcuna riserva normativa a favore dei sindacati, ma semmai a favore di quelli registrati, tuttora inesistenti, osserva:

1) che la disposizione del secondo comma dell'art. 3 non importa l'applicazione del contratto collettivo della categoria concernente l'impresa appaltante ai lavoratori delle imprese appaltatrici, ma soltanto l'estensione a questi del minimo trattamento stabilito per i dipendenti dall'impresa appaltante, se e in quanto questo sia più favorevole; senza che necessariamente tale trattamento sia preveduto da un contratto collettivo;

2) che la disposizione impugnata costituirebbe attuazione del principio inderogabile stabilito dall'art. 36 della Costituzione, circa il diritto alla retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato. Tale diritto, secondo la difesa dello Stato, sarebbe eluso qualora il lavoro stesso non fosse considerato come collegato con l'organizzazione produttiva, nell'ambito della quale viene prestato, come nel caso dell'appalto di opere che rientrano nell'attività produttiva dell'impresa appaltante.

Si aggiunge che, se anche sussistesse, in linea di principio, una riserva normativa a favore dei sindacati, non si potrebbe mai impedire al legislatore ordinario di intervenire, in via suppletiva, quando non funzionino le associazioni sindacali.

Alle tesi sostenute dall'Avvocatura la difesa delle parti private, insistendo nelle tesi già prospettate, obietta:

1) che l'art. 36 riguarderebbe semmai la sola retribuzione e non anche il trattamento normativo;

2) che comunque non sarebbe invocabile nella specie, nella quale si tratterebbe della qualificazione di un lavoro riportata alla disciplina della produzione propria dell'impresa appaltante, anziché, come necessario, a quella dell'impresa appaltatrice.

Circa il contrasto con l'art. 25, nelle predette memorie prodotte dalla difesa privata, si insiste nella tesi già dedotta, asserendo che nell'art. 25 non sarebbe espressamente enunciato il principio della tassatività della norma penale, perché si tratterebbe di un principio fondamentale generalmente ammesso; e che, dato il modo con cui é formulato il secondo comma dell'art. 3, non sarebbe possibile un'attività semplicemente interpretativa, in base ad elementi già contenuti nella disposizione. Questa, quindi, consentirebbe un apprezzamento discrezionale che importerebbe sostanzialmente la creazione della norma da parte del giudice.

 

Considerato in diritto

 

1. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, é stata proposta in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 39, quarto comma, della Costituzione.

Per quanto riguarda il preteso contrasto con l'art. 25 della Costituzione, ritiene la Corte che l'impugnato art. 3 non attribuisce al giudice un potere di ampliare per analogia il precetto penalmente sanzionato. Non é, infatti, esatto che nella formulazione di tale articolo si abbia una eterogeneità di indicazioni esemplificative, per cui manchi un preciso criterio di identificazione delle attività similari a quelle espressamente menzionate.

Gli elementi, invece, che secondo l'art. 3, individuano la fattispecie e segnano i limiti di applicazione della norma sono dati, non dalla natura dell'attività, tecnica o amministrativa, dell'azienda appaltatrice, ma dall'esistenza di un rapporto di appalto e dal fatto che l'attività dell'impresa appaltatrice si svolge nell'interno dell'azienda dell'impresa appaltante o in connessione col servizio pubblico da questa esercitato: rientra cioé nel ciclo di produzione e di svolgimento del servizio pubblico. Stabilire quando, in concreto, ciò si verifichi, anche al di fuori delle enunciazioni indicative contenute nel secondo comma dell'art. 3, é opera - come in altri casi questa Corte ha avuto occasione di precisare (

sentenza n. 27 del 1961) - di interpretazione e non di applicazione analogica.

La questione di legittimità costituzionale, prospettata in riferimento all'art. 25 della Costituzione, deve pertanto ritenersi infondata.

2. - Ugualmente infondata essa si presenta in riferimento all'art. 39, quarto comma, della Costituzione.

Va in proposito considerato che l'art. 3 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, si inquadra in quel sistema di garanzie che la stessa legge ha voluto instaurare, per impedire l'elusione delle norme protettive del lavoro attraverso l'intermediazione (il cosiddetto "marchantage du travail", colpito anche dalle legislazioni straniere).

A tale scopo la legge ha, in primo luogo, vietato l'appalto e il subappalto che abbia per oggetto "mere prestazioni di lavoro"(art. 1); in secondo luogo, per il caso di appalto di opere e servizi "da eseguirsi nell'interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell'appaltatore", ha stabilito che l'imprenditore appaltante é tenuto, in solido con l'appaltatore, ad assicurare inderogabilmente ai dipendenti da quest'ultimo un trattamento minimo retributivo e un trattamento normativo non inferiori a quelli spettanti ai propri dipendenti. La stessa disciplina si applica, secondo la norma, agli appalti concessi da imprese che esercitano un pubblico servizio, per le attività che sono strumentalmente collegate con l'esercizio di questo, o che addirittura consistono nell'esplicazione, in parte, dello stesso servizio (installazione e lettura di contatori ed esazione di canoni; manutenzione di reti di distribuzione e di trasporto; allacciamenti; costruzione di colonne montanti; impianti di apparecchi; reti a bassa tensione).

Si é voluto in tal modo assicurare l'uniformità di un trattamento minimo ai lavoratori dipendenti dall'impresa appaltante e dall'impresa appaltatrice, in quei casi in cui l'attività di quest'ultima si svolge nell'interno della prima, o ha una funzione collegata con l'attività dell'azienda appaltante, nel processo produttivo di un medesimo pubblico servizio: situazione, questa, che giustifica la parificazione dei trattamenti minimi, per evitare le frodi alle norme protettive del lavoro, a cui, com'é noto e com'é posto in luce nei lavori preparatori della legge in esame, si presta il sistema dell'appalto di servizi interni o collegati.

3. - La descritta disciplina legislativa non contrasta, a giudizio della Corte, con l'art. 39 della Costituzione.

La questione di legittimità costituzionale, originariamente prospettata sotto il riflesso della violazione di una riserva normativa istituita da tale articolo, non ha fondamento. La Corte ha già avuto occasione di dichiarare che tale riserva, nel nostro ordinamento, non sussiste (

sentenza n. 106 del 1962), e del resto le stesse parti, nel corso del giudizio, hanno abbandonato questa tesi.

Ma una violazione del quarto comma dell'art. 39 della Costituzione non sussiste neanche sotto il riflesso che l'art. 3 impugnato avrebbe alterato i limiti di efficacia propri del contratto collettivo.

Va considerato in proposito che oggetto della norma impugnata é il rapporto individuale di lavoro, non la disciplina collettiva di esso. L'art. 3 della legge 23 ottobre 1960, infatti, prevede l'ipotesi di un rapporto di lavoro alle dipendenze di un'impresa appaltatrice, che abbia per oggetto prestazioni che si svolgono nell'interno dell'impresa appaltante e che sono connesse allo svolgimento del servizio pubblico da questa gestito. Per tale ipotesi il detto articolo stabilisce l'obbligo solidale dell'impresa committente e dell'impresa appaltatrice di assicurare ai dipendenti da quest'ultima un trattamento retributivo, normativo, previdenziale e assistenziale non inferiore a quello di cui fruiscono i dipendenti dell'impresa committente.

É irrilevante, rispetto a quest'obbligo, che detto trattamento derivi dalla legge, da un contratto collettivo o da un contratto individuale: quello che la legge stabilisce é che il trattamento dei dipendenti dell'impresa appaltatrice non sia inferiore al trattamento dei dipendenti dell'impresa appaltante, prescindendo sia dalla situazione sindacale dell'impresa committente, sia dall'esistenza di un contratto collettivo dei rapporti di lavoro che a questa fanno capo.

Allo stato attuale della legislazione in materia sindacale possono aversi, infatti, le situazioni più varie. La impresa committente può non essere iscritta ad alcuna associazione sindacale, e non essere, quindi, vincolata da alcun contratto collettivo; può essere iscritta, ma fare ai propri dipendenti condizioni più favorevoli di quelle stabilite dal contratto collettivo; può essere soggetta a un contratto collettivo aziendale.

Ma tutto ciò é indifferente rispetto all'applicazione della legge, per la quale il paradigma che si deve tenere presente, per stabilire il trattamento minimo dei dipendenti dall'appaltatore, é il trattamento di cui fruiscono i dipendenti dell'impresa appaltante, quale che sia la sua fonte.

L'espressione della legge: trattamenti non inferiori "a quelli spettanti ai lavoratori" dipendenti dall'impresa appaltante, non può essere intesa come se dicesse: spettanti in base a un contratto collettivo. Leggere in tal modo l'art. 3 vorrebbe dire non soltanto aggiungere alla norma un elemento da essa non posto, ma negarle gran parte del suo significato e delle sue possibilità di applicazione, giacché, allo stato attuale del nostro ordinamento giuridico (nel quale la legge é stata emanata ed é chiamata ad operare), il trattamento del lavoratore può non derivare da un contratto collettivo (per mancanza di iscrizione sindacale sua e dell'impresa, per mancanza di contratto collettivo ecc.).

Analoghe considerazioni vanno fatte riguardo alla situazione sindacale dell'appaltatore e dei suoi dipendenti.

Poiché anche questi (appaltatori e dipendenti) possono non essere iscritti ad alcuna associazione sindacale, l'effetto dell'art. 3 non é necessariamente la sostituzione di un trattamento minimo previsto da un contratto collettivo (qualora sia tale quello dell'impresa appaltante) a un trattamento minimo previsto da un altro contratto collettivo (quello dell'appaltatore). L'effetto della legge può essere proprio di attribuire un diritto a un trattamento minimo a lavoratori che non fruiscono di alcuna tutela sindacale; anzi essa tende sopra tutto ad ovviare alla gravità di simili situazioni.

4. - Dalle esposte considerazioni discende che il sistema previsto dall'art. 39, quarto comma, della Costituzione non é violato dalla norma impugnata, in quanto quest'ultima non dispone l'estensione del contratto collettivo oltre i limiti del precetto costituzionale, ma stabilisce soltanto l'osservanza di un minimo di trattamento. Tale trattamento prevale sul trattamento meno favorevole, anche se derivante da un contratto collettivo, per il principio, fondamentale nel nostro ordinamento, della prevalenza della norma di legge imperativa sulla norma di un contratto collettivo (art. 7 delle disposizioni sulla legge in generale). La legge potrebbe, in ipotesi, stabilire essa stessa delle condizioni generali regolatrici di determinati rapporti di lavoro, non essendo ciò precluso - come si é detto - da alcuna riserva normativa sindacale; per la stessa ragione, é ugualmente legittimo che essa stabilisca, al fine di assicurare la tutela del lavoro voluta dalla Costituzione (art. 35), l'obbligatorietà di determinati trattamenti minimi individuati ob relationem: con riferimento, cioé, a una disciplina concreta di rapporti di lavoro aziendali, indipendentemente dall'essere o no fondata su un contratto collettivo.

Nella specie, l'obbligatorietà per l'appaltatore, verso i propri dipendenti, del trattamento più favorevole di cui fruiscono i dipendenti dell'impresa committente, e la conseguente eventuale prevalenza delle condizioni regolatrici dei rapporti dell'azienda committente su quelle meno favorevoli del rapporto dell'appaltatore coi propri dipendenti, é diretta ad attuare i precetti costituzionali dell'art. 36 e dell'art. 38 della Costituzione. A parte le ragioni innanzi esposte, sarebbe palesemente incongruo, e contrario a ogni criterio di interpretazione sistematica, che l'attuazione dell'art. 39 potesse contrastare con l'attuazione di quei precetti (artt. 36 e 38) che sono espressione di principi fondamentali della Costituzione (art. 1, 3, 4, ecc.).

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, recante norme sul divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 39, quarto comma, della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1963.

GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE

ANTONIO MANCA, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 9 luglio 1963.