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LARA TRUCCO

 

LA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE

 

(Ordinanza n. 369 del 2006)

 

(in corso di pubblicazione sulla Giurisprudenza Italiana - UTET)

 

 

1. I fatti all'origine della questione e le tesi in campo.

 

Una coppia di coniugi con problemi di sterilità si rivolge ad un ospedale specializzato chiedendo di ricorrere alla fecondazione in vitro per poter avere dei figli. Invero non era la prima volta che i due consorti si rivolgevano a questo tipo di tecnica medica: tuttavia in precedenza la donna aveva interrotto la gravidanza per motivi terapeutici, dopo che i medici avevano appurato che il feto era affetto da anemia mediterranea («beta-talassemia»). Dopo circa un anno di cure l'aspirante madre decide di ritentare la gravidanza: tuttavia, temendo il ripetersi dell’esperienza passata, d'accordo con il marito ed il proprio ginecologo, domanda che venga effettuata la diagnosi preimpianto, per accertare la presenza o meno della patologia negli embrioni ed evitarne eventualmente l'impianto in utero.

Anche dopo la generazione degli embrioni, la coppia rimane ferma nella volontà di non consentirne l'impianto fin tanto che non fosse stato reso noto il risultato diagnostico dell’esame preimpianto, venendosi tuttavia a scontrare col rifiuto dei medici dell’ospedale di eseguire questo tipo di diagnosi.

I coniugi decidono allora d'intraprendere le vie legali per vedersi riconosciuto già in sede cautelare il diritto alla diagnosi preimpianto, mentre in attesa di una qualche risoluzione della situazione gli embrioni vengono congelati («crioconservati»).

Il giudice civile adìto dalla coppia, con l'ordinanza del 16 luglio 2005, n. 574 [1], solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 della l. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) [2], all'origine della decisione in commento, «nella parte in cui fa divieto di ottenere, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, la diagnosi preimpianto sull’embrione ai fini dell'accertamento di eventuali patologie» [3].

Tale disposto, contenuto nel capo VI della legge n. 40/2004 (rubricato «sperimentazione sugli embrioni umani»), pur vietando in linea di principio «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano» (1° comma), consente tuttavia in via eccezionale la ricerca clinica e sperimentale, «qualora non siano disponibili metodologie alternative» e «a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso» (2° comma). Anche il comma successivo (3° comma), pur vietando tutta una serie di “attività”, tra cui «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell'embrione o del gamete ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche» (lett. b)), consente in via eccezionale «gli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche».

Nella fattispecie, si è trattato dunque di stabilire se tali previsioni normative permettessero o meno la diagnosi preimpianto. Sul punto le principali, contrapposte, posizioni – favorevole e contraria – sono state assunte, rispettivamente, dal pubblico ministero (oltre che, naturalmente, da parte attrice) da un lato, secondo cui la disposizione può essere interpretata nel senso di permettere l’espletamento di questo tipo di esame, e dal medico dall’altro, per il quale invece l’interpretazione “corrente” della legge non lascerebbe ai sanitari alcun margine di manovra.

Come emerge dall'ordinanza di rimessione, per sostenere i rispettivi punti di vista le parti hanno chiamato in campo le principali tesi portate avanti dalla giurisprudenza e dalla dottrina.

In particolare, a favore dell’impostazione restrittiva, si trovano una serie di argomentazioni di ordine letterale, teleologico e sistematico. Così, deporrebbe a favore dell'esclusione della possibilità della diagnosi preimpianto la formulazione letterale del disposto e l’interpretazione della legge alla luce degli scopi dalla stessa perseguiti [4] e dei suoi criteri ispiratori «dai quali emerge la preoccupazione di restringere entro limiti rigorosi la ricerca scienti­fica sugli embrioni, in via generale vietata salvo le eccezioni previste dalla legge, nonché l’intento di garantire in tale ottica la massima tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione».

Ulteriori elementi a conforto di tale approccio vengono poi tratti dalla disciplina complessiva della pro­cedura di procreazione medicalmente assistita disegnata dalla legge, laddove si prevede la revocabilità del con­senso solo fino alla fecondazione dell’ovulo, il divieto di creazione di embrioni in numero superiore a quello necessario per un unico impianto — obbligatorio quindi per tutti gli embrioni — ed ancora, il divieto in via generale dì crioconservazione e di soppressione di embrioni [5].

Sempre in quest'ottica, specifica attenzione è rivolta poi verso l’art. 14, 3° comma, che consente la crioconser­vazione degli embrioni qualora il trasferimento degli stessi «non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna» ma soltanto se essa non è «prevedibile al momento della fecondazione». Per di più, tale norma col precisare che la crioconservazione può essere mantenuta «fino alla data del trasferimento, da realiz­zare non appena possibile», farebbe riferimento ad ostacoli patologici all’impianto di natura meramente transi­toria e non “definitiva”, come potrebbe essere nel caso di specie, escludendolo con ciò stesso dalle ipotesi consentite dalla legge.

A quest'ordine di argomentazioni l’impostazione “estensiva” replica, innanzitutto, sul piano esegetico che il tenore letterale dell'art. 13 della legge n. 40/2004 non sarebbe ostativo ad un'interpretazione favorevole alla ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche: anzi, da questo punto di vista, sarebbe questa una delle poche interpretazioni del disposto compatibile con i principi costituzionali in materia di tutela della salute.

Sempre in quest'ottica, è stato osservato come, consistendo, l'analisi preimpianto, essenzialmente nella verifica dello stato di salute dell’embrione, essa non solo non rientrerebbe tra le attività di sperimentazione certamente vietate ai sensi del comma 1 dell’art. 13 – profilo che del resto non è messo in discussione nemmeno nel caso di specie –, ma sarebbe anzi riconducibile all'ipotesi prevista dal secondo comma del medesimo disposto, che consente la ricerca clinica su ciascun embrione umano «a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche» (e, per questa strada, esso rientrerebbe altresì tra le eccezioni previste dal comma 3 lettera b) del medesimo disposto). Ciò che, per altro verso, si porrebbe in linea con quanto enunciato dalla stessa rubrica del capo VI, che reca «Misure di tutela dell'embrione».

In un'ottica ancora più autonoma, la diagnosi preimpianto è stata considerata come un’«operazione a contenuto neutro rispetto a qualunque successivo intervento sull’embrione medesimo», con la conse­guenza che per essa, a differenza delle attività di ricerca e sperimentazione, non sussisterebbe limite alcuno.

Per quanto riguarda poi la lettura congiunta con altre norme della legge, è stato osservato come, nei casi come quello in esame, entrerebbe in gioco – piuttosto che il comma 3 – , il comma 5 dell’art. 14 della legge n. 40/2004, che riconosce ai componenti della coppia che ha avuto accesso alla procrea­zione medicalmente assistita il diritto di essere informati, a loro richiesta, «sullo stato di salute di embrioni prodotti e da trasferire nell'utero». Anzi, proprio alla luce del riconoscimento legislativo di tale facoltà, i fautori di questo tipo di approccio rivendicano la presenza di un vero e proprio obbligo della struttura sanitaria di praticare la diagnosi preimpianto in una prospettiva di solo beneficio per i soggetti legittimati che la richiedono.

Stando a quanto emerge dall’ordinanza di rimessione, prassi (medica) e giurisprudenza [6] seguirebbero prevalentemente il primo degli approcci visti, quello restrittivo [7].

In particolare, l'operazione ermeneutica che è stata compiuta è stata quella di affermare la lettura congiunta della dizione «finalità terapeutiche e diagnostiche», contenuta, come abbiamo visto, in più punti del testo, radicando con ciò l'idea che non possa esservi finalità diagnostica disgiunta da possibilità terapeutica, ovvero che la finalità diagnostica debba essere – e non possa non essere – strumentale al successivo intervento terapeutico, che a sua volta deve presentare una qualche probabilità di riuscita.

In quest'ottica dunque, se la finalità diagnostica è fine a se stessa, nel senso di “limitarsi” a rendere nota la presenza di eventuali patologie senza essere supportata da nessuna tecnica idonea a rimediare all’anomalia riscontrata, viene considerata vietata dalla legge e non può essere espletata dal medico.

Facendo proprio questo tipo di approccio, il T.A.R. del Lazio nella sentenza del 5 maggio 2005, n. 3452 [8] (confermata successivamente dalle pronunce n. 4046 e 4047 del 23 maggio 2005 [9]), è giunto ad affermare non solo che l'ipotesi di diagnosi preimpianto invasiva concernente le sole qualità genetiche dell'embrione non rientra nei casi consentiti dalla legge, ma che finirebbe per ricadere nel divieto di selezione a scopo eugenetico, pur trattandosi di un caso di eugenetica negativa, volta cioè a far sì che non nascano persone portatrici di malattie ereditarie e non a perseguire scopi di miglioramento della specie umana.

Non stupisce dunque che in tale pronuncia, il tribunale amministrativo abbia fatto salve le «linee-guida» di cui all’art. 7 della legge n. 40/2004 (D.M. della Salute del 21 luglio 2004) [10], tra le altre nella parte in cui dispongono che «ogni indagine relativa alla salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art. 14 comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale», il che è quanto dire che l'analisi deve limitarsi al riscontro di quanto si vede al microscopio, senza poter prelevare frammenti di materiale genetico da analizzare successivamente [11].

Come si vede, è possibile ritenere che tale norma abbia finito per integrare e precisare parte del contenuto della legge 40/04, consolidandone al contempo quell’interpretazione “restrittiva” di cui si diceva.

In quest’ottica, in riferimento al caso in commento, ciò porta a ritenere che il divieto di analisi preimpianto sarà destinato a durare almeno fino a quando nella pratica medica non verranno messe a punto terapie geniche idonee ad incidere sullo stato di salute dell’embrione malato permettendo, con un certo margine di probabilità, di curarlo, mentre fino a quando ciò non sarà possibile l’analisi preimpianto dovrà limitarsi ad essere di tipo “osservazionale”.

Su queste premesse, si può discutere su “quanto”, innanzi alla domanda dei due coniugi, il giudice sia stato “libero” di scegliere se conformarsi agli orientamenti prevalenti o discostarsene [12], ciò che nel caso di specie avrebbe significato interpretare “estensivamente” le norme della legge n. 40/04, ovvero, come visto, “disgiuntamente” la congiunzione “e” contenuta nel testo.

Ora, se avesse deciso di intraprendere quest’ultima strada il tribunale di Cagliari avrebbe potuto in primo luogo seguire la prospettazione del pubblico ministero che aveva concluso perché il giudice, disapplicata la disciplina secondaria, ordinasse, in accoglimento del ricorso, l’esecuzione della diagnosi preimpianto sull’embrione «alla stregua di parametri di rischio compatibili, secondo la scienza medica, con la salute e lo sviluppo dell’embrione» stesso.

In alternativa, seguendo invece quanto indicato dalla parte ricorrente, avrebbe potuto tentare la via dell'interpretazione adeguatrice, nel senso di affermare una posizione rivendicata come “obbligata” alla luce del principio costituzionale del diritto alla salute, favorevole alla praticabilità della diagnosi preimpianto riscontrata l’eventualità che dalla sua mancata esecuzione potesse derivare una seria minaccia per la salute fisica o psichica dei soggetti in gioco.

Invece, come anticipato, il Tribunale di Cagliari ha finito per optare per una diversa strada ancora, presentata anch’essa, peraltro, in via subordinata, dalle parti ricorrenti, ritenendo di non poter definire il procedimento cautelare indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge n. 40/2004 [13].

Più precisamente, nell'ordinanza di rimessione il giudice ha prospettato la violazione degli artt. 2 e 32 della Costituzione sotto il profilo, da un lato, del rischio di danni biologici dell'embrione dovuti al periodo di crioconservazione (in seguito al rifiuto d'impianto da parte della donna) e, dall'altro, di minaccia per la salute della donna derivante dall'impossibilità di accertare lo “stato” dell'embrione. L’art. 3 della Carta costituzionale è stato invece chiamato in campo per la ingiustificata disparità di trattamento che la legge introdurrebbe tra la posizione dei genitori ai quali è riconosciuto il diritto all'informazione sulla salute del feto nel corso della gravidanza attraverso l’amniocentesi e quella della coppia nella fase della procreazione assistita che precede l'impianto a cui invece analoga conoscenza non è accordata.

 

 

2. La questione di costituzionalità: a) i profili processuali.

 

Sotto il profilo processuale può anzitutto osservarsi come, secondo una costante giurisprudenza, nel caso in esame la Corte abbia dichiarato l’inammissibilità degli interventi spiegati in giudizio dal Comitato per la tutela della salute della donna, dal Forum delle Associazioni familiari e dall'Associazione “Movimento per la Vita Italiano”, (cfr. l’ordinanza letta all'udienza del 24 ottobre 2006), comunque, parti non costituite nel giudizio a quo, non ritenendo tali associazioni titolari di un interesse qualificato né, d’altro canto, reputando che la definizione della questione potesse incidere su una qualche loro situazione sostanziale [14].

Su di un diverso versante, la Corte non ha mancato di rilevare, seppur del tutto incidentalmente, la circostanza per cui la questione di costituzionalità è stata sollevata in sede cautelare, lasciando trasparire qualche dubbio sul giudizio così instaurato con l’affermare di voler «prescindere dall’irreversibilità degli effetti del provvedimento richiesto in sede cautelare».

La Corte invece non accenna nemmeno ad un diverso profilo, relativo al possibile pregiudizio che agli embrioni sarebbe potuto derivare dal fatto stesso di essere congelati, e dunque della sussistenza della minaccia di un pregiudizio grave ed irreparabile ai sensi dell’art. 700 c.p.c. [15] Tuttavia si può osservare come – non sappiamo quanto, in ciò condizionata dalla particolare situazione – nelle fasi finali del giudizio, la Corte abbia proceduto in tempi strettissimi, discutendo la causa in udienza pubblica e decidendola lo stesso giorno (il 24 ottobre 2006) e depositando le motivazioni a circa due settimane di distanza (il 9 novembre 2006).

Più in generale ci limitiamo quanto meno a richiamare alcuni problemi di ordine teorico che il fatto stesso di sollevare un incidente di costituzionalità in sede cautelare pone, non solo in riferimento all’annosa questione della facoltà del giudice ordinario di sospendere l’esecuzione dell’atto legislativo impugnato [16] ma, con più specifica attenzione al caso in commento, alla possibilità dello stesso giudice ordinario di attuare la tutela giurisdizionale preventiva a fine cautelare di un diritto, il cui riconoscimento ed eventuale pregiudizio finirebbero secondo parte della dottrina per dipendere e discendere dalla decisione stessa del giudice delle leggi, essendo condizionati dalla dichiarazione d’incostituzionalità che, da questo punto di vista, avrebbe dunque effetti “costitutivi” del diritto in questione.

Come si vede, assumendo quest'ottica, in riferimento al caso in oggetto si dovrebbe conseguentemente concludere per la mancanza d’incidenza della norma nella soluzione del giudizio a quo, dal momento che la norma medesima – e con essa il diritto rivendicato all’analisi preimpianto – risulterebbe “mancare” fino alla pronuncia d’incostituzionalità della Corte.

Tuttavia, secondo una diversa impostazione, in questi casi la pronuncia della Corte non avrebbe valore “costitutivo”, ma piuttosto “dichiarativo”, limitandosi a “accertare” per così dire, l'esistenza ab initio della norma in oggetto, ovvero la sua vigenza da quando esiste l’atto in cui è incorporata, con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo della “rilevanza” dell’incidente di costituzionalità.

Sempre in punto di “rilevanza”, resta da chiedersi non solo dell’idoneità della norma stessa, in ogni caso, a recare un qualche pregiudizio (essendo il pericolo per la salute e della donna e dell’embrione, ipotizzato) ma, più radicalmente ancora, assumendo una certa impostazione, ad essere applicata nel giudizio a quo. Mentre da un diverso punto di vista ancora, è stato rilevato come l’eventuale accoglimento dell’eccezione d’incostituzionalità dell’art. 13, rappresentando il petitum avrebbe finito per rendere di fatto inutile il provvedimento d’urgenza, “dissolvendo” per così dire il carattere d’incidentalità della questione proposta.

Per concludere sugli aspetti processuali, degna di essere quanto meno rilevata è la presenza di un giudice relatore diverso dal redattore: ciò che può essere visto alla luce della particolare “delicatezza” dei profili che la decisione affronta, e conseguentemente della maggiore facilità con cui possono essere venuti a crearsi punti di vista diversi e contrapposti in seno alla Corte, non solo in merito alla decisione finale ma anche, verosimilmente, rispetto al modo di argomentarne il contenuto.

 

 

3. Segue: b) i profili sostanziali.

 

Venendo ad esaminare la questione di fondo della decisione, è possibile preliminarmente osservare come la Corte, nelle parte “decisoria” dell'ordinanza, prenda in considerazione solo del tutto incidentalmente uno dei profili più delicati della situazione alla luce dei valori chiamati in campo, vale a dire, il rischio «di inutilizzabilità (dell'embrione) a causa della diagnosi preimpianto» che, stando a quanto riferito dal giudice a quo, si aggirerebbe statisticamente intorno all’uno per cento. Ciò che significherebbe che la percentuale di rischio di analisi preimpianto è inferiore a quella del rischio di aborto nelle diagnosi prenatali. Tuttavia, la Corte, preferisce “prescindere” dal sindacare «l'adeguatezza di quanto dedotto a conforto dell'asserita inconsistenza» di tale rischio, omettendo conseguentemente di svolgere il proprio sindacato sulla ragionevolezza della diversa opportunità di conoscenza data ai genitori, rispettivamente, nella fase della procreazione assistita precedente l'impianto e nel corso della gravidanza.

D’altro canto, la Corte non considera nemmeno quanto prospettato dall’Avvocatura dello Stato in merito al fatto che la talassemia sarebbe attualmente suscettibile di trattamenti farmacologici e che il trapianto di midollo osseo consentirebbe di raggiungere la guarigione definitiva dopo la nascita.

Più in generale, nell’ordinanza in commento, la Corte non entra nel merito delle questioni sollevate (quindi non solo, come detto, in riferimento all’art. 3 Cost. ma nemmeno agli artt. 2 e 32 Cost.), optando per una decisione processuale di manifesta inammissibilità, col censurare quella che considera un’«evidente contraddizione» in cui il Tribunale sarebbe incorso «nel sollevare una questione volta alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una specifica disposizione (il divieto di sottoporre l'embrione, prima dell'impianto, a diagnosi per l'accertamento di eventuali patologie), che, secondo l'impostazione della stessa ordinanza di rimessione, sarebbe però desumibile anche da altri articoli della stessa legge, non impugnati», nonché dall'interpretazione dell'intero testo legislativo «alla luce dei suoi criteri ispiratori».

Tali battute finali, col mettere in luce il carattere “unitario” della legge, “amalgamato” e “strutturato”, nel suo insieme, dai suoi criteri ispiratori, lasciano trasparire la consapevolezza della Corte che l'eventuale pronuncia di incostituzionalità del singolo disposto avrebbe potuto finire per trascinare con sé, in via consequenziale [17], come una sorta di “effetto domino”, non solo altri disposti della stessa legge ma più drasticamente l'intero testo legislativo.

Eventualità che la Corte, nel caso di specie, non avrebbe potuto che prodigarsi per scongiurare, considerata la sua giurisprudenza più recente in cui si è adoperata per garantire la vigenza della legge n. 40/2004, dichiarando inammissibile il quesito referendario che aveva ad oggetto l'intero testo di legge, col considerare la legge n. 40/2004 «costituzionalmente necessaria», in quanto «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore» e dunque da annoverarsi tra le leggi «a contenuto costituzionalmente vincolato» (sentenza n. 45 del 2005 [18]) [19].

La Corte sarebbe forse potuta giungere a conclusioni simili, affermando la manifesta inammissibilità della questione per non avere, il giudice, nella sostanza, dato vita ad un’“interpretazione adeguatrice” del disposto [20]. Il che sarebbe stato tanto più possibile laddove si convenga nel ritenere che la breve vigenza della legge n. 40/2004 non abbia ancora consentito il formarsi di “diritto vivente” in materia.

Ancora, la Corte avrebbe potuto più linearmente dichiarare la questione sottopostale tout court infondata. Il fatto che essa abbia optato per una soluzione diversa, mentre, da un lato, porta a riflettere sulla portata dell’“impegno” d’interpretazione adeguatrice del giudice a quo [21], dall’altro, può forse essere spia della volontà della Corte di evitare di sancire “formalmente”, in via definitiva, la mancanza di punti di attrito tra l'interpretazione “corrente” della legge e le norme costituzionali.

Da questo punto di vista, se si conviene nel ritenere che la via della dichiarazione d’infondatezza della questione sarebbe stata una soluzione più tranchante rispetto alla decisione adottata, si deve anche essere d’accordo sul fatto che, trincerandosi dietro un sostanziale non liquet, la Corte ha finito per lasciare impregiudicata la questione, rinviando altrove e ad altri soggetti il delicato compito di affrontare il problema.

Si può pertanto dire che, in questo momento, si è nella pressoché identica situazione giuridica in cui ci si trovava prima che venisse sospeso il giudizio a quo.

Spetterà al Tribunale di Cagliari (ancora) in sede cautelare, prendere una decisione, alla luce, è auspicabile, prima che dei “criteri” ispiratori della legge, dei valori costituzionali, evidenziati dalla più luminosa giurisprudenza costituzionale [22], che, invero, paiono essere rimasti finora sullo sfondo in attesa che venissero risolte questioni interpretative e processuali. A meno che lo stesso giudice non decida, com’è nelle sue possibilità, di risollevare la questione impugnando l’intero impianto normativo (e non solo l'art. 13 della legge n. 40 del 2004): eventualità rispetto alla quale, tuttavia, alla luce di quanto si è visto, sembrerebbero essere piuttosto esigue le probabilità di successo a fronte invece della consistente possibilità del ripetersi di una decisione processuale.

Nella “sostanza”, se bene intendiamo, la questione “etica” ha una portata “radicale”, trattandosi in fondo di stabilire fino a dove possa spingersi la corsa della conoscenza, ed in particolare se possa arrivare anche là dove, in un dato momento storico, non c’è possibilità di cura.

A tale problema si accompagna poi la considerazione per cui col progredire delle biotecnologie sarà sempre più facile e probabile “scoprire” patologie genetiche sicché si potrebbe giungere al punto in cui nessuno potrebbe più essere disposto ad alcun impianto. D’altro canto, si mette in luce come soltanto la conoscenza di determinate anomalie dia impulso alla ricerca e renda in fondo possibile predisporre le relative cure [23].

Sullo sfondo, si trova l’interrogativo se di vera e propria rivendicazione del diritto «ad avere dei figli certamente sani» si tratti o non piuttosto del diritto «a non avere dei figli certamente malati» [24].

Limitando lo sguardo al caso in commento, se il giudice deciderà di entrare “nel merito” della controversia, sarà chiamato a bilanciare l’interesse a scongiurare ogni possibile rischio di pregiudizio per la salute di madre ed embrione (in riferimento a determinate patologie) e la possibile compromissione del diritto alla vita di quest’ultimo.

A latere, tra le altre, si pongono sin d’ora le questioni relative sia alla situazione in cui potrebbe venirsi a trovare la madre – laddove dovesse consentire l’impianto prescindendo dalla diagnosi –, se decidesse di continuare a “provare”– ed eventualmente ad abortire – “alla cieca”, nella speranza di ricevere un embrione non malato [25]; sia al problema che potrebbe presentarsi se, viceversa, una volta consentita l’analisi preimpianto, si dovesse accertare che tutti (e tre) gli embrioni che la legge consente di produrre presentano la malattia; sia, ancora, al destino degli embrioni qualora non venissero impiantati in utero [26].



[1] Sull’ordinanza in questione vedi Banchetti, Procreazione medicalmente assistita, diagnosi preimpianto e (fantasmi dell') eugenetica, in Giur. It., 2006, 1169 e segg.

[2] Per un primo commento della legge n. 40/2004 cfr., AA.VV., Procreazione assistita (commento alla legge 19 febbraio 2004, n. 40), a cura di P. Stanzione e G. Sciancalepore, Milano, 2004 e M. Dogliotti e A. Figone, Procreazione assistita. Fonti, orientamenti, linee di tendenza. Il commento alla legge 19 febbraio 2004, n. 40, Milano 2004.

[3] In generale sulle tecniche di procreazione assistita, v. Flamigni, La procreazione assistita, Bologna 2002, 30 e segg.

[4] Cfr. Trib. Catania, 3 maggio 2004, in Giur. It., 2004, 2089 (ed ivi in senso critico, Caggia, 2094).

[5] Al proposito, Trib. Roma, 23 febbraio 2005 (in Foro It., 2005, I, 881) ha esteso il divieto anche agli ovociti fecondati.

[6] In particolare cfr. Trib. Catania, 3 maggio 2004, cit., 2088 e segg.

[7] Similmente a quanto accadrebbe in Austria, Germania e, per certi versi, in Svizzera (cfr. Camera dei Deputati, Materiali di legislazione comparata, La procreazione medicalmente assistita (aggiornamento), n. 107, 2005, 14-15; più in generale, per un'analisi comparata in materia si veda La fecondazione assistita nel diritto comparato, a cura di Casonato e Frosini, Torino 2006).

[8]  T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 5 maggio 2005, n. 3452, in Foro Amm. T.A.R., 2005, 1579 e segg.

[9] T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 18 maggio 2005, n. 4046-7, in Foro Amm., T.A.R., 2005, 1591. Per un primo commento alle sentenze del T.A.R. Lazio citate vedi Rago, La legge sulla fecondazione medicalmente assistita ha aperto la possibilità per le coppie sterili di avere un figlio. Progresso scientifico e questioni giuridiche. Tutela dell'embrione, tra libertà di ricerca scientifica e diritto alla salute della donna: tre interessanti pronunce del T.A.R. Lazio, in Rass. Avv. Stato, 2005, 172 e segg.

[10] I profili più problematici delle “linee-guida” (con particolare riguardo al riparto di competenze tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V), sono evidenziati da Celotto, E le competenze regionali?, in Giustizia amministrativa, 2004, 393-4.

[11] Se, poi, dovessero riscontrarsi «gravi anomalie irreversibili dello sviluppo dell’embrione” il sanitario dovrà informare la coppia che, secondo parte della dottrina (cfr. Stanzione e Sciancalepore in Famiglia, 2004, 1530-1) «potrà opporsi all’incoercibile trasferimento in utero dell’embrione, consentendo – così – che l’embrione medesimo continui il suo itinerario nella coltura in vitro sino all’estinzione».

[12] Una rassegna della giurisprudenza in materia precedente all’entrata in vigore della legge n. 40/2004 è svolta da Cassano, Novità giurisprudenziali in materia di procreazione medicalmente assistita, in Vita notar., 1999, 1042 e segg.

[13] Al proposito, in precedenza aveva sostenuto l’opportunità, in casi del genere, di sollevare la questione di costituzionalità T.E. Frosini (In materia di fecondazione assistita il giudice deve sollevare la questione di costituzionalità, in Giust. Amm., 2004, 2, 392.

[14] Sul tema, cfr., per tutti, Ruggeri e Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2004, 194 e Malfatti-Panizza-Romboli, Giustizia costituzionale, 2003, 120.

[15] Sul punto si deve osservare come l’Avvocatura dello Stato nella memoria difensiva avesse sostenuto che dal momento che gli embrioni rispetto ai quali si richiedeva l’analisi preimpianto erano stati oggetto di procedimento di conservazione «i tempi di svolgimento del giudizio di merito non avrebbero potuto influire in modo pregiudizievole su una pretesa situazione giuridica meritevole di tutela» giustificando così «non solo il ricordo al procedimento d’urgenza» «ma anche l’esercizio del potere del giudice cautelare di sollevare una questione di costituzionalità». Tuttavia parte della giurisprudenza, segue un orientamento diverso avvertendo come anche se le più moderne tecniche elaborate dalla scienza medica consentono ormai la crioconservazione di embrioni per periodi di tempo praticamente illimitati, tuttavia resterebbe «altamente probabile che la percentuale di successo dell’intervento (così intendendosi il «trasferimento» dalla provetta di crioconservazione all’utero della madre) diminuisca progressivamente col trascorrere del tempo». In tale prospettiva l’intervento anticipatorio consentito dall’art. 700 c.p.c. risulterebbe quindi giustificato, considerato che, anche la «mera procrastinazione» dell’esercizio di diritti personalissimi, «configurerebbe una lesione insuscettibile di adeguata riparazione» (così Trib. Palermo, 8 gennaio 1999, in Nuova Giur. Comm., 1999, 221 e segg.). Al proposito, ci limitiamo a segnalare come, successivamente, si fosse proceduto in via cautelare, tra gli altri, nei giudizi definiti dal Trib. Bologna (9 maggio 2000, ivi 2001, 475 e segg.) e dal Trib. Catania (3 maggio 2004, cit., 2088 e segg ).

[16] Su cui si vedano per tutti Pace, Sulla sospensione cautelare dell’esecuzione delle leggi autoapplicative impugnate per incostituzionalità, in AA.VV., Studi in memoria di C. Esposito, Padova, 1972, II, 121 segg. e Spadaro, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli, 1990, 134-137 e 270-273.

[18] Corte cost., 28 gennaio 2005, n. 45, in Giur. It., 2005, 2017 e segg. Analogamente, con riferimento alla legge n. 194 del 1978 in tema di aborto, Corte cost. 10 febbraio 1997, n. 35, su cui Ruotolo, Aborto e bilanciamento tra valori: giudizio sull'ammissibilità del referendum o giudizio (anticipato) di legittimità costituzionale?, in Giurisprudenza Italiana , 1997, 347 ss.

[19] Diversa posizione è invece stata assunta da autorevole dottrina, la quale ha evidenziato che il fatto che una legge sia riconosciuta come «legge costituzionalmente necessaria», non per questo la rende «costituzionalmente legittima in toto» (cfr. Modugno, La fecondazione assistita alla luce dei principi e della giurisprudenza costituzionale, in Rass. parlam., 2005, 379).

[20] Anche se secondo una diversa interpretazione dottrinale «i riferimenti ai “criteri ispiratori della legge” contenuti nell’ordinanza di rimessione, che secondo il giudice delle leggi si sarebbero tradotti in asserzioni contraddittorie rispetto all’impugnazione del solo art. 13 della legge n. 40, sarebbero visibilmente funzionali alla dimostrazione dell’impossibilità di operare un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione di cui si denunciava l’illegittimità» (cfr. Morelli, Quando la Corte decide di non decidere. Mancato ricorso all’illegittimità consequenziale e selezione discrezionale dei casi, cit.).

[21] Sul tema, da ultimo, v. Sorrenti, L'interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006.

[22] Su cui, per tutti, v. Modugno, La fecondazione assistita, cit., 396 e segg.

[23] Per la disamina dei profili maggiormente problematici della legge n. 40/2004, si vedano Ferraro, Profili della disciplina sulla fecondazione medicalmente assistita, Dir. Famiglia, 2005, I, 250 e segg.; Veronesi, La legge sulla procreazione assistita alla prova dei giudici e della Corte costituzionale, in Quad.  cost., 2004, 3, 523 e segg.; Ferrando, La nuova legge in materia di procreazione medicalmente assistita: perplessità e critiche, in Corriere giur., 2004, 810 e segg.

[24] Cfr. sul punto Trib. Catania, 3 maggio 2004, cit. 2092 e, sotto diverso profilo, Cass, sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488, in Giur. It., 2005, 2068 e segg.

[25] Mentre invece parte della dottrina si domanda (ammettendo peraltro un certo grado di provocazione), quid iuris «nell’ipotesi in cui il bambino nato con malformazioni faccia valere, anche nei confronti dei propri genitori, il proprio diritto a non esistere piuttosto che ad esistere in condizioni di disabilità», considerando in particolare, certa giurisprudenza americana sul c.d. «danno da procreazione» (si veda al proposito Corte Suprema del New Jersey, caso Barman v. Allan, 404 A 2d 380 N.J., 421) che pure pare non condivisa dalla più recente giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass., sez. III, 29 luglio 2004, cit.).

[26] Si deve osservare come quest’eventualità non sussisterebbe nemmeno per chi ritiene che la legge n. 40/2004 sancisca un vero e proprio «obbligo giuridico di procedere alla procreazione medicalmente assistita», essendo conseguentemente ammissibile la domanda «per l’esecuzione in forma specifica di quell’obbligo», che peraltro non costituirebbe «un “trattamento sanitario obbligatorio” per il semplice fatto che l’aspirante madre è posta (…) nelle condizioni di scegliere liberamente e consapevolmente se sottoporsi o no alle tecniche di procreazione medicalmente assistita» (così Trib. Catania, 3 maggio 2004, cit. 2450). Un diverso orientamento è stato seguito, invece, per esempio, dal Trib. Bologna, 26 giugno 2000 (in Corr. giur., 2001, 1221 e segg.) secondo cui il consenso originariamente prestato al procedimento di fecondazione assistita omologa potrebbe essere revocato da entrambe le parti fino al momento del trasferimento degli embrioni nell'utero materno. Sul punto ha avuto modo da ultimo anche di pronunciarsi la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nella decisione del 7 marzo 2006 resa nel caso Evans c. Royaume-Uni (n. 6339/05) evidenziando, tra l’altro, che «il n’existe pas de consensus international sur la question de savoir jusqu’à quel moment le consentement à l’utilisation de gamètes peut être révoqué» (punto 68).