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Antonio Ruggeri

Presentazione del Seminario del Gruppo di Pisa

Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi*

 

S’inaugura oggi un nuovo modo di riflettere assieme su temi di giustizia costituzionale rispetto ai precedenti del Gruppo di Pisa, che prende la forma di un seminario in progress: all’incontro di oggi, infatti, dedicato alle “zone d’ombra” della giustizia costituzionale con riguardo ai giudizi sulle leggi, seguirà quello del 13 ottobre prossimo, che si terrà a Modena, relativamente agli altri giudizi.

La ragione è presto chiarita: l’estensione del campo oggetto di studio, con la complessità degli ordini tematici allo stesso facenti capo e la varietà dei profili bisognosi di essere riguardati, ha imposto questa soluzione. In una stagione caratterizzata da innumeri manifestazioni celebrative del primo mezzo secolo di vita della Corte costituzionale in Italia, il Gruppo di Pisa ha ritenuto di dover avviare al proprio interno un confronto a largo raggio e, quanto più possibile, approfondito sugli elementi di debolezza o, come che sia, d’inadeguatezza del nostro sistema di giustizia costituzionale, così come resisi palesi attraverso la maturazione di esperienze processuali ormai nondimeno sufficientemente definite nelle loro linee portanti e maggiormente espressive.

“Zone d’ombra”, s’è detto, e non pure “zone franche”, secondo un’etichetta, come si sa, da anni circolante e particolarmente diffusa. L’una espressione, infatti, non nega ma anzi al suo interno comprende la seconda, allo stesso tempo superandola: volendosi, cioè, riferire anche ai casi in cui il giudizio della Corte ha ugualmente modo di spiegarsi, pur lasciando per l’uno o per l’altro aspetto comunque insoddisfatte o, come che sia, non pienamente appagate talune aspettative di giustizia costituzionale (per una loro densa, esigente accezione).

Forse, ciascuno dei “tipi” di giudizio sulle leggi avrebbe meritato una sede a se stante e, di sicuro, un approfondimento di analisi maggiore di quello che qui, a motivo del ristretto lasso temporale a disposizione, potrà aversi. La consapevolezza, tuttavia, delle mutue implicazioni che si hanno tra l’una e l’altra sede o modalità di giudizio ha portato alla scelta che s’è fatta, sopra succintamente indicata, volta a non separare ciò che è di per sé unito e, pertanto, meritevole di unitaria considerazione (ancora meglio avrebbe poi potuto farsi trattando in un solo incontro tutti i giudizi, sulle leggi e non, in ragione dei rimandi che gli uni e gli altri si fanno, pur nella loro irripetibile, specifica conformazione; ma, s’è pensato che porre un ragionevole lasso di tempo tra l’una e l’altra occasione di riflessione avrebbe potuto per molti aspetti giovare alla maturazione di quest’ultima e ad una serena valutazione dei suoi esiti ricostruttivi).

D’altronde, delle ricadute che, a seconda del modo con cui prendono corpo talune esperienze processuali, possono aversi su altre esperienze alle prime contigue si è avuta tangibile conferma dalla “svolta” segnata dalla riforma del Titolo V che – come è stato, ancora da ultimo, rilevato nella Conferenza stampa del Presidente A. Marini (e già in molti altri commenti) – ha, almeno al presente, “convertito” la Corte da giudice dei diritti, per il tramite della soluzione di controversie sorte in occasione dell’applicazione giudiziale di leggi sospette d’incostituzionalità, in arbitro dei conflitti (anche, e in primo luogo, legislativi) tra Stato e Regioni. Nella Conferenza suddetta si manifesta l’avviso che si tratta di un momentaneo squilibrio, dovuto all’assestamento richiesto dalla corposa innovazione costituzionale del 2001; è, tuttavia, da temere che la opacità del quadro costituzionale ridisegnato dalla riforma e, forse più ancora, la mobilità degli elementi che lo compongono, che esibiscono un’accresciuta disponibilità a farsi variamente “impressionare” dall’esperienza, possano portare la tendenza in atto ad ulteriormente consolidarsi, sì da rendersene quindi assai problematico lo sradicamento dal terreno su cui alligna e cresce il diritto costituzionale vivente.

Sta di fatto che, oggi più di ieri, discorrere dei giudizi proposti in via d’eccezione in modo separato da quelli in via d’azione (e, naturalmente, viceversa) sarebbe palesemente parziale e complessivamente forzato, a motivo di quella ricaduta di effetti di talune vicende processuali, di cui si diceva, da una parte e dall’altra, per il rilievo ad esse secondo occasione conferito dalla giurisprudenza costituzionale.

Di sicuro, oggi pure si tornerà a discutere di questioni attorno alle quali la dottrina da tempo s’interroga, con varietà di orientamenti manifestati e di soluzioni proposte, nei quali non soltanto si rispecchiano – com’è naturale che sia – le personali opzioni e tendenze metodico-teoriche di ciascuno studioso ma si rendono, almeno in parte, palesi le molteplici sfaccettature esibite dalle singole esperienze di giustizia costituzionale verso ciascuna delle quali, in maggiore o minore misura, si fa attrarre l’attenzione da parte dei commentatori.

La circostanza, ad es., secondo cui le pronunzie d’inammissibilità (manifesta e non) siano col tempo cresciute non esclusivamente (e, forse, neppure principalmente) si deve – come, invece, è ancora da ultimo, segnalato dal discorso alla stampa del Presidente Marini – alla mancata o, come che sia, ad una insufficiente conoscenza dei meccanismi processuali da parte delle autorità remittenti, che dunque, per l’uno o per l’altro verso, “sbagliano” a rivolgersi alla Corte, laddove potrebbero da sole chiudere la partita. Certo, gli sbagli (o gli abbagli…), alle volte anche clamorosi, ci sono; ma non è, appunto, questa la sola evenienza possibile, ove si consideri che in non pochi casi l’adozione di una pronunzia in limine litis si deve, in realtà, ad una precisa opzione di merito maturata presso la Consulta, che avrebbe potuto, volendo, rivestirsi di forme diverse, restando nondimeno invariato il “bilanciamento” degli interessi in campo. Ed è ormai provato che una stessa soluzione viene non di rado ad esser sorretta e – come dire? – veicolata da tecniche decisorie diverse (persino contrapposte), non già (e non sempre) in ragione dei casi, obiettivamente considerati, vale a dire per gli elementi normativi e fattuali che li connotano e che presentano l’attitudine a farsi rivedere con caratteri immutati nel corso del tempo, esprimendo pertanto una naturale vocazione alla loro “universalizzazione”, bensì secondo occasione, vale a dire in ragione di congiunturali interessi (anche di “contesto” politico) davanti ai quali la Consulta non riesce a restare insensibile.

Altre volte, poi, l’inammissibilità evidenzia una carenza del sistema, quale che ne sia la causa, che obbliga il giudice costituzionale alla resa.

Qui occorre distinguere, dal momento che la carenza stessa può essere di ordine positivo, richiedendo pertanto di essere colmata ad opera di una nuova “razionalizzazione” normativa (quali che ne siano il piano al quale essa può aversi e le forme di cui ha bisogno di rivestirsi: costituzionali, legislative, regolamentari, ecc.), ma potrebbe pure essere di origine giurisprudenziale, essendo dunque sufficiente a rimuoverla l’impianto di un nuovo “diritto vivente”, alla cui formazione giudici comuni e Corte sono, con tipicità di ruoli, chiamati a concorrere. Una rimozione che, in questo secondo caso, potrebbe risultare ancora più gravosa e difficoltosa che nel primo, sol che si consideri che alle volte è meno disagevole innovare ad un diritto scritto, peraltro sottoposto a non infrequenti mutamenti, piuttosto che ad un diritto non scritto, specie se consuetudinario, quale quello riscontrabile sul piano dell’interpretazione-applicazione delle regole sul processo, la gran parte delle quali – al di là di alcune perduranti oscillazioni – appare ormai talmente radicata nell’esperienza da essere appunto praticamente irremovibile.

Pur godendo di larghi e convinti consensi, per il considerevole apporto dato alla crescita e diffusione dei principi-valori fondanti l’ordine repubblicano, il nostro sistema di giustizia costituzionale presenta, praticamente in ogni sua parte, accanto a molte luci non poche né poco estese “zone d’ombra”: alcune sono considerate tali per pressoché unanime riconoscimento (anche qui si è, dunque, in presenza di una consuetudine culturale, idonea peraltro, per la sua parte, ad alimentare il “diritto vivente”); altre invece sono – come si sa – assai discusse, già a riguardo della loro stessa esistenza ovvero dei rimedi prospettabili al fine di far riflettere al loro interno almeno un po’ della luce restante.

Nulla, ovviamente, posso ora dire a riguardo sia delle une che delle altre; è sufficiente, tuttavia, il riscontro del dato in sé a dare un senso al nostro incontro di oggi ed a quello che gli farà seguito. Quel che è certo è che si vorrebbe una giustizia costituzionale ancora più ferma (o meno oscillante…), penetrante persino negli angoli più reconditi dell’ordinamento e dell’esperienza costituzionale, e – soprattutto – giusta.

Per questa ragione, molti di noi auspicano un ancora più esteso riconoscimento della qualità di giudice a quo rispetto a quello avutosi ad opera di una sensibile (ma, forse, pure poco coraggiosa) giurisprudenza, cui nondimeno va il merito di aver dilatato gli spazi, oggettivamente angusti, segnati dalla formula dell’art. 23, l. n. 87 del ’53 (tra le figure al riguardo maggiormente discusse le autorità amministrative indipendenti o, quanto meno, alcune di esse che, per funzioni e posizione, parrebbero risultare assai contigue alle autorità propriamente giurisdizionali). Un allargamento che, forse, di necessità passa attraverso un’approfondita revisione teorica delle nozioni di “giudice” e di “giudizio”, rispetto a talune loro particolarmente accreditate ma ormai troppo risalenti e complessivamente invecchiate configurazioni: una revisione per la quale la stessa giurisprudenza, pur con alcune non rimosse incertezze ed esitazioni, ha offerto spunti interessanti, che meriterebbero di essere opportunamente ripresi e coltivati. Non è, nondimeno, chi non veda come l’ampliamento della cerchia degli organi abilitati a rivolgersi alla Corte richieda di esser fatto con molta prudenza ed accortezza, dovendosi pur sempre, scrupolosamente salvaguardare il bene indisponibile della funzionalità dei meccanismi processuali, venendo meno la quale la stessa rigidità della Costituzione finirebbe col trovarsi sotto stress, fino ad esser gravemente, irreparabilmente pregiudicata.

La questione, che torna a riproporsi in più luoghi ed occasioni, è assai complessa e, per un certo verso, parrebbe avvolgersi in se stessa: chiudendo le porte di accesso alla Corte ad alcune autorità si metterebbe a rischio la rigidità, alcune leggi riuscendo in tal modo a sottrarsi al sindacato della Corte (o, comunque, rendendosi lo svolgimento di quest’ultimo assai disagevole); aprendo però le porte stesse in modo non oculato, la rigidità verserebbe, nuovamente, in pericolo, per il sovraffollamento delle istanze pervenibili alla Consulta, con evidente pregiudizio – come s’è detto – per la funzionalità dell’organo giudicante.

Allo stesso modo, sono da tempo patrocinati un moderato allargamento ed un sensibile svecchiamento della dinamica processuale, con particolare riguardo ai giudizi sulle leggi (per gli altri giudizi, come si sa, si sono registrate talune apprezzabili, ancorché incompiute, novità), specie attraverso la estensione del contraddittorio (essa pure, naturalmente, subordinata a rigorose condizioni e sottoposta a strette verifiche nei singoli casi). Si fanno, poi, ad oggi attendere alcune novità, anch’esse da tempo sollecitate a formarsi ma fin qui rimaste non attuate, riguardanti i “termini” delle questioni: forse, in maggior misura l’oggetto rispetto al parametro, perdurando talune chiusure della giurisprudenza francamente inspiegabili e, comunque, oggi più di ieri con maggiori difficoltà argomentabili (ad es., in merito al mancato riconoscimento del “valore di legge” di certi tipi di regolamento e, in genere, di talune fonti di autonomia, malgrado la riforma del Titolo V abbia ad esse conferito esplicito, peculiare rilievo: penso, ora, soprattutto ai regolamenti “delegati” dallo Stato alle Regioni, a norma del VI c. dell’art. 117). È inoltre da verificare in che modo taluni “tipi” di oggetto possano interagire sulle modalità di giudizio: questione che si fa particolarmente complessa in relazione a quelle leggi (o atti ad esse equiparati) che, per ragioni varie (di natura o di tempo o, più in genere, di contesto), possono considerarsi soggette ad uno scrutinio stretto di costituzionalità, persino tale da portare al ribaltamento della presunzione di validità giudicata idonea ad assistere le leggi (ma: gli atti giuridici in genere). La qual cosa può, a mia opinione, esser predicata con riguardo a leggi eccezionali e di emergenza e, forse pure, a leggi che in genere si discostino dallo standard per esse stabilito dalla Carta e che ne identifica lo statuto teorico (ad es., le leggi personali, ove si consideri l’attributo della generalità quale carattere naturale, ancorché non necessario, degli atti produttivi di norme). Ciò che, poi, in ragione delle mutue implicazioni che si intrattengono tra oggetto e parametro, testimonia come possa farsi un “uso” complessivamente diverso, ora più ed ora meno intenso e penetrante, sia dell’oggetto che del parametro e, per ciò pure, delle tecniche con cui l’uno è posto al confronto dell’altro e giudicato (a partire dalla tecnica della ragionevolezza, per una sua particolarmente densa, assiologicamente connotata accezione: tecnica – checché se ne dica da parte di taluno – idonea ad essere declinata al plurale ed a manifestarsi pertanto in forme diverse in ragione dei casi, non già dunque a farsi rivedere nel tempo con costanza di caratteri).

La questione dei “termini” è figlia di altre e più generali questioni, dalle notevoli ascendenze ed implicazioni teoriche, alle quali non mi è qui consentito neppure accennare. È tuttavia chiaro il legame di immediata derivazione che si intrattiene tra l’una e le altre, come pure tra queste ultime inter se. E non posso qui trattenermi dal rilevare che la rigidità e fermezza di alcune prese di posizione del giudice delle leggi avrebbero forse potuto essere, almeno in parte, ammorbidite qualora la prospettiva metodica e gli schemi d’inquadramento adottati fossero stati sensibilmente diversi.

Faccio solo un esempio al riguardo, al fine di dare un minimo di concretezza al discorso ora svolto. Se la Corte avesse fatto propria la proposta ricostruttiva che vuole obiettivamente circoscritti l’oggetto del giudizio e la cerchia dei diretti destinatari delle pronunzie della Corte, in applicazione di una prospettiva relativistica di sistemazione delle esperienze di giustizia costituzionale nella quale da tempo mi riconosco, la questione dell’estensione del contraddittorio, nei giudizi in via d’eccezione come pure in quelli in via principale, avrebbe potuto esser in larga misura sdrammatizzata, una volta assodato che solo alcuni soggetti (e non altri) sono direttamente e specificamente riguardati dal caso pendente davanti alla Corte (e, perciò, dai suoi possibili esiti), siccome ricadenti nella medesima situazione normativa – come a me piace chiamarla – in cui stanno attore e convenuto. Di rovescio, stabilito che il verdetto della Consulta può toccare nella medesima misura e nel medesimo tempo altri soggetti (magari assai numerosi e persino tutti coloro che compongono una stessa categoria di persone) oltre le “parti” in causa (ad es., laddove sia impugnata per iniziativa di una o più Regioni una legge-quadro statale), diventa arduo chiudere le porte di accesso al giudizio anche ad essi (alle altre Regioni, dunque; ma, con l’estensione dell’area materiale degli interventi regionali e con la sovrapposizione delle competenze “trasversali” dello Stato, l’ipotesi che i “conflitti legislativi” tocchino altresì soggetti diversi da Stato e Regioni è da mettere seriamente in conto, malgrado le resistenze al riguardo, come si sa, manifestate in giurisprudenza).

È interessante notare come alcune questioni, quale quella, cui si è appena accennato, dell’apertura del contraddittorio a terzi, pur diversificandosi nelle loro peculiari forme espressive a seconda dei “tipi” di giudizio di costituzionalità, abbiano una base comune, a motivo del carattere teorico-generale delle radici dalle quali si tengono ed alimentano. Ed è altresì interessante notare come talune innovazioni fatte o progettate in rapporto al quadro originario (e mi riferisco ora sia alla riforma del Titolo V che alla “controriforma”, come a me piace chiamarla, posta in essere a fine anno scorso, sulla quale pende, come si sa, un’iniziativa referendaria dall’esito – checché se ne dica da parte di alcuni inguaribili ottimisti – nient’affatto scontato), anziché colmare talune iniziali carenze, abbiano addirittura finito con l’accrescerle o, come che sia, col rimarcarle.

La vicenda suona, per certi aspetti, persino paradossale. La conoscenza via via maturata di taluni difetti dei meccanismi di giustizia costituzionale, ignorati ed imprevedibili al tempo della confezione di questi ultimi, avrebbe dovuto portare a sia pur parziali aggiustamenti degli ingranaggi stessi, non già al loro ulteriore logoramento.

Non intendo ora, per deliberato proposito, soffermarmi sulla “riforma della riforma” sub iudice, in merito alla quale non conosco una sola voce che si sia espressa senza sollevare pur parziali ma penetranti e argomentate riserve o critiche a riguardo di questa o quella sua parte o previsione. Per ciò che qui specificamente interessa, è diffusamente paventato, come si sa, il rischio che la Consulta e i suoi giudizi possano risultarne eccessivamente, irragionevolmente caricati di valenza politica, a motivo della nuova composizione della Corte, dell’ancora più confusa spartizione di materie e funzioni tra Stato e Regioni, nonché del modo contorto con cui è stato pensato e del modo largamente approssimativo e farraginoso con cui è stato ristrutturato il procedimento legislativo in ambito statale, di cui una sola cosa si sa con assoluta, incrollabile certezza: che, appunto, cresceranno le occasioni di conflitto tra le Camere, con effetti ad oggi imprevedibili, sicuramente comunque dannosi. Né a parare l’alea della loro “giurisdizionalizzazione” (che, nondimeno, se ammessa e riscontrata in forme eccessive, recherebbe non poco nocumento alla funzionalità della Corte) soccorre il disposto di cui al nuovo ultimo comma dell’art. 70, che vuole in ogni sede insindacabili le soluzioni date sul punto della competenza, siccome probabilmente affetto da incostituzionalità (in rapporto al principio fondamentale della supremazia della Costituzione: un autentico prius logico ed assiologico dell’ordinamento costituzionale delle fonti).

Restando, dunque, al diritto costituzionale in atto vigente, è singolare che l’intento coltivato dall’autore della riforma del 2001 e volto ad una sensibile valorizzazione dell’autonomia su basi territoriali (specie di quella regionale), anche nelle sue proiezioni processuali, si sia rivoltato contro se stesso, perlomeno in talune realizzazioni ad oggi avutesi per il tramite delle esperienze di giustizia costituzionale.

Certo, le novità non sono mancate; ed alcune di esse hanno avuto fiato attraverso la bocca della Consulta. E, tuttavia, la vicenda, riguardata nel suo complesso, sembra svolgersi e prendere forma sotto il segno di una soffocante continuità, tanto più insopportabile quanto più abilmente mascherata e, in buona sostanza, deviante dal solco costituzionale: con l’aggravante che, volendo il nuovo quadro costituzionale portare ancora più in alto rispetto al passato la condizione delle autonomie, lo scarto tra le ambizioni del modello e le sue esigue, deludenti realizzazioni appare maggiormente vistoso e, con esso, vieppiù evidenti talune non rimosse carenze negli ingranaggi della giustizia costituzionale.

La circostanza, ad es., che poco sia, in buona sostanza, cambiato in ordine alla effettiva spartizione dei campi materiali (quanto pesa la potestà “residuale” e quale ne è la capacità di distinguersi, in “orizzontale” ed in “verticale”, dalle potestà restanti?) e nulla sia cambiato sul fronte dei vizi delle leggi, rispettivamente, denunziabili da Stato e Regioni ovvero in ordine alla partecipazione dei terzi (magari di altri enti territoriali…) alla dinamica processuale: ebbene, tutto questo (ed altro ancora), oggi più di ieri, sembra negativamente contrassegnare le esperienze processuali in parola, proprio in ragione del fatto che la riforma ha mirato ad ulteriormente promuovere la condizione delle autonomie (che, poi, quest’intento si sia mal tradotto sul piano della formulazione degli enunciati, che a sua volta denunzia al proprio interno non poche discordanze, incertezze, oscurità di dettato, è un altro discorso, che s’è già fatto in molte sedi e che non può tuttavia essere qui nuovamente ripreso).

Quel che importa notare è che, in tal modo, la forbice tra il piano delle previsioni costituzionali di ordine sostantivo ed il piano delle esperienze processuali, già visibilmente aperta nel dettato originario della Carta, si allarga ulteriormente con la riforma del 2001, mostrando la complessiva inadeguatezza delle seconde a stare al passo delle prime ed anzi ad allinearsi ad esse, assecondandone il verso, pur nei limiti obiettivi di rendimento dei meccanismi processuali in atto esistenti.

Di più non posso ora dire ed anzi mi scuso per aver sottratto fin troppo tempo alla discussione. Chiudo esprimendo, unitamente ai ringraziamenti particolarmente sentiti, non di circostanza, agli amici e colleghi genovesi per lo sforzo prodotto nell’organizzazione del seminario e per la calorosa ospitalità riservataci, non già l’auspicio ma la certezza che anche questo nostro incontro sarà animato e ricco di indicazioni, al pari degli altri che l’hanno preceduto. Ne dà sicura garanzia la provata esperienza dei relatori, di cui è nota la sensibilità per i temi della giustizia costituzionale ed il contributo già ripetutamente dato alla soluzione di talune tra le più aggrovigliate questioni ad essi afferenti, nonché la serietà e l’impegno nella ricerca già dimostrati dai giovani studiosi cui è stato rivolto l’invito a svolgere alcuni mirati interventi su profili di cruciale rilievo, dei quali sono sicuro che ugualmente, in ragguardevole misura, si gioverà il nostro dibattito.

 



*Genova, 10 marzo 2006.