Sentenza n. 197 del 2018

SENTENZA N. 197

ANNO 2018

 

Commento alla decisione di

 

Antonello Lo Calzo

Illeciti e sanzioni disciplinari del magistrato tra automatismi legislativi e recenti interventi della Corte costituzionale, in questa Rivista, Studi 2019/III, 747

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             

-      Giuliano                      AMATO                                                    

-      Silvana                        SCIARRA                                                 

-      Daria                           de PRETIS                                                 

-      Nicolò                         ZANON                                                    

-      Franco                        MODUGNO                                              

-      Augusto Antonio       BARBERA                                                

-      Giulio              PROSPERETTI                                                     

-      Giovanni                     AMOROSO                                               

-      Francesco                    VIGANÒ                                                   

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 12, n. 5 (recte: art. 12, comma 5), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», promossi dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con due ordinanze del 12 luglio 2017, iscritte ai numeri 158 e 159 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti l’atto di costituzione di L. F., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 3 luglio e nella camera di consiglio del 4 luglio 2018 il Giudice relatore Franco Modugno, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Francesco Viganò;

uditi l’avvocato Federico Tedeschini per L. F. e l’avvocato dello Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 12 luglio 2017 (r.o. n. 159 del 2017), la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale «dell’art. 12 n. 5» (recte: art. 12, comma 5) del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», «nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, lett. e)», del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006.

1.1.– Il giudice rimettente premette di procedere nei confronti di una magistrata, incolpata di un illecito disciplinare riconducibile alla ipotesi di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale prevede che costituisce illecito disciplinare al di fuori dell’esercizio delle funzioni, l’ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili pendenti presso l’ufficio giudiziario di appartenenza o presso altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d’appello nel quale esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai difensori di costoro, nonché ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti.

In particolare, alla magistrata incolpata, in servizio quale sostituto procuratore della Repubblica, è contestato di avere ottenuto da un imprenditore, che sapeva essere indagato presso il proprio ufficio di appartenenza per il delitto di bancarotta fraudolenta, vantaggi indiretti (consistenti nel conferimento al proprio coniuge di un contratto per un corrispettivo mensile di 100.000 euro e, comunque, remunerato con la dazione di un importo non inferiore a 180.000 euro) e diretti (costituiti da numerosi soggiorni in lussuose abitazioni, viaggi in aereo privato, una borsa del valore di 700 euro e una festa di compleanno del valore di 2.056 euro). La magistrata in questione, imputata in relazione ai medesimi fatti per il delitto di cui all’art. 317 cod. pen., è stata peraltro assolta in sede penale dalla relativa imputazione, non essendo stata ritenuta provata, in relazione ai vantaggi ottenuti, alcuna sua condotta costrittiva né meramente induttiva (in relazione alla possibile derubricazione nel delitto di cui all’art. 319-quater cod. pen.) nei confronti dell’imprenditore.

La sanzione disciplinare applicabile per tale ipotesi di illecito è, in via obbligatoria, quella della rimozione, a norma dell’art. 12, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006.

1.2.– Reputa il giudice disciplinare che l’obbligatorietà che caratterizza tale sanzione risulti in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto fondata su una presunzione assoluta, svincolata da qualsiasi apprezzamento di proporzionalità e di «indispensabile gradualità sanzionatoria», secondo quanto ripetutamente affermato da questa Corte nella propria giurisprudenza.

Sottolinea la Sezione rimettente di essere consapevole dell’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nello stabilire le condotte punibili e le sanzioni applicabili, ma ciò nei limiti della non manifesta irragionevolezza, derivante dalla giusta proporzione tra illecito commesso e sanzione applicabile.

Tuttavia – sottolinea l’ordinanza di rimessione – è proprio sul versante della compatibilità tra infrazione e prosecuzione del rapporto di impiego che la giurisprudenza costituzionale ha affermato che l’infrazione deve essere valutata senza alcun automatismo, graduando la sanzione in rapporto al caso concreto. Ciò in piena conformità, secondo la Sezione rimettente, con la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo la quale la scelta della sanzione da applicare deve essere effettuata non in astratto, ma in concreto, alla luce di tutte le circostanze del caso, specie là dove venga in considerazione la più grave sanzione della rimozione, la quale presuppone che l’illecito sia di tale gravità da far ritenere inadeguata qualsiasi altra sanzione in riferimento alla tutela dei valori che si intendono salvaguardare (in questo senso, Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze n. 23778 del 24 novembre 2010 e n. 15399 del 15 ottobre 2003).

A sostegno della propria prospettazione, la Sezione rimettente invoca inoltre la sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2015, che censurò l’automatismo della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio del magistrato nell’ipotesi di sua condanna per l’illecito disciplinare previsto dall’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006, ritenendo che tale meccanismo privasse irragionevolmente il giudice disciplinare di ogni potere discrezionale in relazione all’adeguatezza della sanzione accessoria alla consistenza e gravità delle svariate condotte riconducibili alla previsione normativa allora all’esame.

Per altro verso – prosegue la Sezione rimettente – l’irragionevolezza della obbligatoria applicazione della sanzione più grave risalterebbe ancor di più a causa della «genericità ed elasticità» che caratterizzano le ipotesi di agevolazione previste dall’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006.

È ben vero che questa Corte, nella sentenza n. 112 del 2014, ha ritenuto non fondata una questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 8, primo comma, lettera c), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), che prevede la destituzione di diritto dai ruoli della amministrazione della pubblica sicurezza in caso di applicazione di una misura di sicurezza di cui all’art. 215 del codice penale, sottolineando come le peculiarità connesse alle funzioni esercitate giustifichino una disciplina che valuti con particolare rigore la condotta degli appartenenti a quella amministrazione. Ma tali rilievi, secondo la Sezione rimettente, non potrebbero essere evocati come precedente contrario, in quanto, nel caso allora scrutinato, veniva in discorso un giudizio di pericolosità sociale, derivante dalla applicazione di una misura di sicurezza, ostativa alla permanenza del rapporto di impiego.

1.3.– Ulteriore aspetto di irragionevolezza dell’automatismo censurato sarebbe desumibile dalla diversa gravità dell’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006 rispetto alle altre ipotesi per le quali l’art. 12, comma 5, dello stesso decreto prevede la sanzione della rimozione, e cioè da un lato l’interdizione dai pubblici uffici in seguito a condanna penale, e dall’altro la condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore ad un anno, la cui esecuzione non sia stata sospesa ai sensi degli artt. 163 e 164 cod. pen., o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione condizionale ai sensi dell’art. 168 cod. pen. Entrambe tali ipotesi presuppongono infatti una condanna che accerta la commissione di reati, mentre le violazioni di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del decreto legislativo citato non presentano necessariamente rilievo penale.

1.4.– La disposizione censurata sarebbe, infine, irragionevole in quanto assoggetterebbe a trattamento deteriore l’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del decreto legislativo citato rispetto ad altre ipotesi caratterizzate da maggior disvalore dal punto di vista deontologico. La Sezione rimettente richiama in particolare quella prevista dall’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo medesimo, riguardante l’uso della qualità di magistrato per ottenere vantaggi ingiusti per sé o per altri, punita con la sanzione non inferiore alla censura, o alla perdita di anzianità se abituale e grave, ove viene in risalto uno sviamento della funzione di magistrato che non costituisce, invece, elemento costitutivo della fattispecie oggetto del giudizio a quo; nonché quella di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), per la quale è comminata la sanzione minima della perdita di anzianità, e che consiste nel frequentare persona sottoposta a procedimento penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato, o persona che a questi consti essere stata dichiarata delinquente abituale, professionale o per tendenza o aver subìto condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni o essere sottoposto ad una misura di prevenzione, ovvero nell’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone.

Tali disposizioni assurgono, secondo la Sezione rimettente, ad altrettanti tertia comparationis cui sarebbe ragionevole uniformare la sanzione dell’illecito disciplinare qui in discussione, fornendo «il dato, rinvenibile nel sistema legislativo, al quale fare riferimento […] per eliminare la manifesta irragionevolezza denunciata senza che il giudice delle leggi sovrapponga la propria discrezionalità a quella del legislatore».

1.5.– La questione prospettata, conclude la Sezione rimettente, sarebbe rilevante, in quanto l’automatismo che caratterizza la sanzione non consentirebbe al giudice disciplinare di apprezzare se la condotta del magistrato incolpato «abbia attinto la soglia della massima offensività, avuto riguardo al diverso livello di disvalore ipotizzabile in ragione del differente atteggiarsi dell’elemento soggettivo, tenuto anche conto del rapporto di amicizia tra i soggetti coinvolti, che, più che lo status di magistrato, potrebbe essere stato all’origine della vicenda, nonché dell’essere rivolta l’agevolazione definita indiretta nel capo di incolpazione (peraltro potenzialmente intesa a compensare un’attività professionale di valore non definito) non già alla magistrata incolpata, ma al coniuge della stessa (tra l’altro poi separatosi da lei)».

2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile per irrilevanza e, comunque, infondata la questione.

Reputa infatti l’Avvocatura che la Sezione rimettente avrebbe omesso di dimostrare che il fatto addebitato alla magistrata incolpata non fosse di tale gravità da meritare la massima sanzione. La carenza di tale apprezzamento nella ordinanza di rimessione renderebbe irrilevante la questione proposta.

Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, in quanto non risulterebbe né illogico né sproporzionato che il legislatore stabilisca l’applicazione della sanzione della rimozione «per una pluralità di condotte, unite tutte dalla violazione dei fondamentali principi di terzietà ed imparzialità che devono connotare l’esercizio delle funzioni di magistrato».

3.– Si è costituita in giudizio la magistrata incolpata, concludendo per la «irrilevanza, l’inammissibilità e l’infondatezza della questione di costituzionalità prospettata e per l’eventuale adozione di una pronuncia interpretativa di rigetto».

3.1.– Ritiene anzitutto la parte privata che la Sezione disciplinare rimettente avrebbe errato nella interpretazione della norma censurata, in quanto l’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, nel prevedere la sanzione della rimozione, condizionerebbe l’applicazione di tale sanzione alla ricorrenza di due distinti presupposti, da intendersi quali cumulativi: da un lato, una previa condanna in sede disciplinare per fatti di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del medesimo decreto legislativo; e, dall’altro, una condanna penale alla interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici, ovvero una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, o per la quale sia intervenuta revoca della sospensione condizionale. Condizioni cumulative, queste, insussistenti nella specie, essendo stata la magistrata incolpata assolta in sede penale per insussistenza del fatto, e non avendo la medesima sinora subìto sanzioni da parte del Consiglio superiore della magistratura per violazioni dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006.

Ad avviso della parte privata, la lettura restrittiva della disposizione denunciata sarebbe anzitutto suggerita dalla diversità dei tempi verbali «sia stato» ed «incorre» con le quali essa si riferisce, rispettivamente, alla condanna del Consiglio superiore della magistratura e a quella pronunciata dal giudice penale.

La parte privata rileva, altresì, che allorché il legislatore ha inteso prevedere fattispecie alterative di illecito disciplinare che danno luogo alla rimozione, lo ha fatto inserendo la disgiuntiva «o» (che per l’appunto separa la statuizione relativa alla «interdizione perpetua o temporanea» rispetto a quella relativa alla «condanna a pena detentiva»); mentre la menzione della condanna disciplinare per le violazioni di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006 è separata da una semplice virgola dalla menzione delle ipotesi della interdizione e della condanna a pena detentiva.

Tale lettura della norma censurata risulterebbe avvalorata anche dal raffronto, in termini di gravità, tra l’illecito disciplinare di cui alla citata lettera e) dell’art. 3 del d.lgs. n. 109 del 2006 e altri illeciti previsti dallo stesso articolo per i quali non è prevista la rimozione, quale l’illecito descritto nella lettera i), ove si evoca addirittura la strumentalizzazione della qualità di magistrato per condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste.

Nello stesso senso militerebbe, inoltre, anche la complessiva struttura del Capo I del d.lgs. n. 109 del 2006, posto che alla individuazione delle sanzioni tipizzate dall’art. 5 non corrispondono, con altrettanta precisione, le condotte descritte negli artt. 2, 3 e 4. In sostanza, il legislatore si sarebbe limitato a «declinare i profili di sostanziale gravità delle condotte rispetto al grado di importanza afflittiva delle misure contemplate, evidentemente riservando alla fondamentale ed imprescindibile "mediazione” del procedimento disciplinare la valutazione in concreto della determinazione punitiva da emettere», tenuto anche conto della notevole genericità che caratterizzerebbe le previsioni dettate dalle lettere a), b) ed e) del citato art. 3.

Tale interpretazione sarebbe, del resto, rispettosa dei principi di proporzionalità e adeguatezza, desumibili dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha affermato la legittimità della irrogazione automatica della sanzione disciplinare della destituzione solo nei casi in cui la sanzione penale risulti incompatibile con il mantenimento del rapporto di impiego o di servizio.

Nella specie, dunque, il Consiglio superiore della magistratura si sarebbe astenuto dal ricercare una interpretazione costituzionalmente compatibile della disposizione censurata, senza offrire adeguata motivazione circa le ragioni per le quali una siffatta interpretazione non era praticabile. Di qui la sollecitazione rivolta a questa Corte ad adottare una pronuncia interpretativa costituzionalmente orientata, la cui praticabilità sarebbe «sfuggita al giudice disciplinare remittente».

3.2.– Secondo la parte privata, il giudice a quo avrebbe inoltre omesso di valutare alcuni aspetti derivanti dal procedimento penale che ha riguardato la magistrata incolpata, e che renderebbero irrilevante la questione proposta. Nella sentenza di assoluzione pronunciata nei suoi confronti è stata infatti esclusa la sua responsabilità non solo per il delitto contestato di concussione di cui all’art. 317 cod. pen., ma anche la possibilità di riqualificare i fatti a lei addebitati ai sensi della meno grave ipotesi delittuosa di cui all’art. 319-quater cod. pen., la cui fattispecie astratta sarebbe «sostanzialmente speculare» a quella descritta dalla lettera e) dell’art. 3 del d.lgs. n. 109 del 2006, per la quale è stata mossa la contestazione disciplinare oggetto del procedimento a quo. Il che – conclude la difesa della parte privata – avrebbe dovuto indurre il giudice disciplinare a disporre l’immediata archiviazione del procedimento, stante la piena sovrapponibilità tra i fatti oggetto dal giudicato assolutorio e quelli contestati in sede disciplinare.

4.– La parte privata ha depositato, in data 11 giugno 2018, memoria nella quale insiste nelle conclusioni già rassegnate, sostanzialmente riproponendo gli argomenti già sviluppati nell’atto di costituzione.

5.– Questione identica nel petitum a quella riferita al punto 1) è stata sollevata dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con ordinanza del 12 luglio 2017 (r.o. n. 158 del 2017), nel corso di un giudizio disciplinare promosso nei confronti di un magistrato in relazione a vari illeciti disciplinari, uno dei quali riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006.

In particolare, al magistrato incolpato, in servizio presso una Procura della Repubblica, è contestato di avere ottenuto, da una persona che sapeva essere sottoposta dalla stessa Procura a procedimento penale per il delitto di associazione per delinquere, l’uso gratuito, per un arco temporale di circa due anni e mezzo, di un attico ammobiliato, il cui canone di locazione – pari a complessivi 32.000 euro – veniva corrisposto al proprietario dalla stessa persona imputata, tramite una società a quest’ultima riconducibile.

5.1.– Dopo aver riproposto tutti gli argomenti già esposti nella precedente ordinanza, la Sezione rimettente ribadisce anche in questo caso, in punto di rilevanza, che l’automatismo che caratterizza la sanzione della rimozione «non consente di apprezzare se la condotta dello stesso incolpato abbia attinto la soglia della massima offensività, avuto riguardo al diverso livello di disvalore ipotizzabile in ragione del differente atteggiarsi dell’elemento soggettivo, considerando altresì che l’incolpato, magistrato di prima nomina chiamato a svolgere le delicate funzioni in un importante Ufficio di Procura, aveva un consolidato rapporto di amicizia con il soggetto che gli aveva garantito le agevolazioni prima ancora di entrare in magistratura».

6.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, che ha rassegnato conclusioni identiche a quelle riassunte al punto 2).

7.– La parte privata non si è costituita.

Considerato in diritto

1.– Con due ordinanze di identico contenuto quanto ai profili che attengono al presente giudizio di costituzionalità, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, altrettante questioni di legittimità costituzionale «dell’art. 12 n. 5» (recte: art. 12, comma 5) del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», «nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, lett. e)», del medesimo decreto legislativo.

2.– Preliminarmente, deve essere disposta la riunione dei presenti giudizi, che propongono identiche questioni di legittimità costituzionale.

3.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce che la Sezione disciplinare rimettente non avrebbe sufficientemente motivato sulla rilevanza della questione, omettendo di chiarire per quali ragioni i fatti addebitati ai due magistrati incolpati risultassero, in concreto, non così gravi da meritare la massima sanzione disciplinare della rimozione.

L’eccezione è infondata.

Entrambe le ordinanze si peritano, infatti, di chiarire che la gravità dei fatti addebitati agli incolpati non consente di applicare nei loro confronti la previsione di cui all’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, che esclude la configurabilità dell’illecito disciplinare quando il fatto è di scarsa rilevanza; e aggiungono, non implausibilmente, che l’automatismo della sanzione prevista dal legislatore non consente al giudice disciplinare di apprezzare se la condotta dello stesso incolpato abbia in concreto attinto la soglia massima di offensività. Proprio l’automatismo legislativo nella previsione della sanzione, censurato dalla Sezione rimettente, impedisce in altre parole alla sezione stessa di procedere alla valutazione in concreto della gravità, oggettiva e soggettiva, dei fatti addebitati ai due incolpati; valutazione che, invece, ben potrebbe essere compiuta ove tale automatismo fosse rimosso da questa Corte, in accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale.

4.– La parte privata L. F. eccepisce a sua volta l’inammissibilità della questione prospettata, dal momento che la Sezione rimettente non avrebbe esperito alcun tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata. Segnatamente, il giudice a quo avrebbe omesso di considerare che, in base a una interpretazione letterale e sistematica dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, la sanzione della rimozione dovrebbe essere disposta soltanto in presenza di due requisiti cumulativi: da un lato, una previa condanna in sede disciplinare del magistrato per l’illecito di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del medesimo decreto; dall’altro, una sua successiva condanna in sede penale all’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici, ovvero una sua condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno, la cui esecuzione non sia stata sospesa, o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione condizionale.

L’eccezione è, parimenti, infondata.

Il dato testuale della disposizione censurata è, invero, ambiguo. A fornire qualche supporto all’interpretazione propugnata dalla parte privata non è tanto l’omesso uso della disgiuntiva «o» tra la menzione della condanna disciplinare, e quelle successive della condanna, in sede penale, alla interdizione dai pubblici uffici o a pena detentiva non sospesa. In effetti, in un’elencazione di tre distinte ipotesi alternative, è del tutto normale che le prime due ipotesi siano separate da una semplice virgola, e che soltanto la seconda e la terza siano separate dalla congiunzione disgiuntiva «o». Ciò che conferisce, almeno prima facie, plausibilità alla lettura della parte privata è, piuttosto, l’uso di due diversi tempi verbali – il congiuntivo passato «sia stato condannato» in relazione alla prima ipotesi, e l’indicativo presente «incorre» con riferimento alla seconda e alla terza –, che farebbe effettivamente pensare a una sorta di fattispecie di illecito a formazione complessa, in cui la massima sanzione della rimozione dovrebbe conseguire a una prima condanna in sede disciplinare, seguita da un’ulteriore condanna in sede penale per i medesimi fatti.

Una tale interpretazione è tuttavia insostenibile, per plurime ragioni.

Anzitutto, se la sanzione della rimozione fosse prevista – come sostiene la parte privata – soltanto in conseguenza di entrambe le condanne, in sede disciplinare prima e penale poi, la conseguenza paradossale sarebbe che, a fronte di una condotta di elevata gravità come quella disciplinata dall’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, ma in difetto di condanna penale per lo stesso fatto, non sarebbe prevista per il magistrato che abbia commesso l’illecito alcuna sanzione minima, potendo pertanto applicarsi nei suoi confronti anche un mero ammonimento.

D’altra parte, la lettura propugnata dalla parte privata – desumendo dall’uso dei tempi verbali da parte del legislatore una rigida scansione temporale tra previa condanna disciplinare e successiva condanna penale – non consentirebbe, assurdamente, di applicare la disposizione nell’ipotesi in cui la condanna penale preceda quella disciplinare, anziché intervenire in un momento posteriore, come nel caso cui si riferisce l’ordinanza n. 158 del 2017; e ciò a fronte della palese equivalenza di disvalore delle due ipotesi.

Ma soprattutto, sostenendo la natura cumulativa dei presupposti della condanna disciplinare e di quella penale ai fini della rimozione, la tesi della parte privata conduce all’illogica conseguenza che, a far scattare la sanzione della rimozione obbligatoria – prevista, nell’intero impianto del d.lgs. n. 109 del 2006, soltanto dalla disposizione qui censurata –, non sarebbe sufficiente che il magistrato incorra in una condanna penale che ne comporti l’interdizione dai pubblici uffici, ovvero in una condanna a pena detentiva non condizionalmente sospesa, occorrendo altresì che i fatti per i quali il magistrato sia stato penalmente condannato integrino anche l’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006. Conseguenza, questa, anch’essa palesemente assurda, posto che impedirebbe di ravvisare un’ipotesi di rimozione obbligatoria – ad esempio – nel caso in cui il magistrato venisse condannato per reati gravissimi, come l’omicidio volontario o la violenza sessuale, le cui rispettive fattispecie astratte tuttavia nulla hanno a che fare con quella dell’illecito disciplinare di cui è discorso.

Deve, pertanto, concludersi che il legislatore abbia inteso stabilire in ogni caso la rimozione obbligatoria del magistrato allorché sopravvenga nei suoi confronti una sentenza di condanna pronunciata in sede penale che ne comporti l’interdizione dai pubblici uffici (pena accessoria, questa, la cui esecuzione risulta all’evidenza incompatibile con l’esercizio delle funzioni giudiziarie per tutto il tempo in cui essa opera), ovvero una sentenza di condanna a pena detentiva non sospesa (sin dall’inizio, o a seguito di revoca della sospensione già concessa). A tali ipotesi il legislatore medesimo ha affiancato quella della condanna del magistrato per l’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, considerato evidentemente di speciale gravità rispetto alla generalità degli altri illeciti disciplinati dal decreto legislativo medesimo, e in ogni caso di gravità tale da giustificare l’obbligatorietà della rimozione del magistrato che se ne renda responsabile.

Che poi tale valutazione legislativa risulti ragionevole al metro dell’art. 3 Cost., e comunque proporzionata rispetto alla gravità dell’illecito – ciò che è contestato dalla parte privata – attiene evidentemente al merito della questione qui prospettata, e non già al dedotto profilo di inammissibilità per omesso esperimento di interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata.

5.– Sempre in via preliminare, la parte privata L. F. eccepisce che la Sezione rimettente avrebbe omesso di esplicitare, in punto di rilevanza, le ragioni della sussistenza degli estremi dell’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006 nei medesimi fatti storici che erano già stati oggetto di una pronuncia assolutoria in sede penale, nella quale – in particolare – era stata esclusa la ricorrenza non solo del delitto di concussione, ma anche di quello meno grave di induzione indebita a dare o promettere utilità, che a suo avviso avrebbe un ambito applicativo sostanzialmente coincidente con quello dell’illecito disciplinare in parola.

Anche tale eccezione è infondata.

L’assunto relativo alla pretesa sovrapponibilità tra l’ambito applicativo del delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità e l’illecito di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006 è, infatti, insostenibile, sol che si consideri che la fattispecie dell’illecito disciplinare non richiede – a differenza di quanto previsto dall’art. 319-quater del codice penale – alcuna condotta di abuso delle qualità o dei poteri, né pretende che sia il pubblico ufficiale ad avere "indotto” altri a dare o promettere denaro o altre utilità indebite. Ne consegue che tale illecito ben può configurarsi anche ove, come nel caso concreto oggetto del giudizio a quo, l’incolpato sia stato assolto in sede penale dall’accusa di induzione indebita.

6.– Nel merito, le questioni prospettate dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura non sono fondate.

In sintesi, le due questioni assumono un contrasto tra la disposizione censurata e l’art. 3 Cost. sotto tre distinti profili: a) un difetto di ragionevolezza intrinseca, connesso all’allegato difetto di proporzionalità della sanzione disciplinare massima prevista dall’ordinamento, in relazione all’automatismo della sua applicazione per tutte le ipotesi concrete riconducibili alla previsione di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006; b) una disparità di trattamento per così dire "interna”, derivante dall’equiparazione, compiuta dalla disposizione denunciata, fra tre distinte ipotesi connotate da disvalore assai diverso, ma accomunate dal legislatore sotto il profilo dell’idoneità a determinare l’automatica applicazione della sanzione della rimozione; c) una disparità di trattamento "esterna”, tra il trattamento riservato all’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006 e quello riservato ad altre ipotesi di illecito disciplinare previste dallo stesso decreto legislativo, e asseritamente più gravi (ma per le quali non è comminata la sanzione obbligatoria della rimozione).

Per comodità di trattazione, si procederà ad analizzare anzitutto gli allegati profili di disparità di trattamento, per riservare il vaglio conclusivo ai profili di irragionevolezza intrinseca.

7.– Prendendo le mosse dall’allegata disparità di trattamento "esterna” – valutata, dunque, in relazione ad altre ipotesi di illecito disciplinare delineate dal d.lgs. n. 109 del 2006 oggetto di un trattamento sanzionatorio più favorevole –, va esclusa l’idoneità dei tertia comparationis evocati dalla Sezione rimettente a porre in dubbio la legittimità della scelta sanzionatoria compiuta dal legislatore.

L’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006 è funzionale a tutelare il corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale contro il rischio di distorsioni causate dall’avere ricevuto il magistrato prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato stesso sa essere parti o indagati in procedimenti pendenti presso l’ufficio giudiziario di appartenenza o in altro ufficio del medesimo distretto giudiziario, ovvero – laddove tali prestiti e agevolazioni siano concessi «a condizioni di eccezionale favore» – da parti offese, testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti. Il legislatore vuole evitare, all’evidenza, che il magistrato possa sentirsi indotto a "restituire il favore” a chi gli abbia fornito benefici, attivandosi in prima persona, ovvero intervenendo su altri colleghi del medesimo distretto, a sostegno degli interessi di costui. Al tempo stesso, la legge intende tutelare l’immagine di imparzialità della funzione giudiziaria, e la connessa fiducia della società nel suo corretto svolgimento, che potrebbero essere gravemente compromesse laddove la notizia della ricezione dei prestiti o delle agevolazioni divenisse di comune dominio.

Quanto meno disomogeneo rispetto a tale ratio appare allora l’illecito disciplinare previsto dall’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo in parola, che è integrato dall’«uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri», e che la Sezione rimettente invoca quale primo tertium comparationis. Quest’ultimo illecito prescinde dalla posizione di parte, indagato, parte offesa o testimone del soggetto che elargisce al magistrato i vantaggi ingiusti; di talché l’illecito si presta ad essere applicato anche a condotte che, per quanto inappropriate e rilevanti sotto il profilo disciplinare, presentano un grado assai minore di disvalore, come la spendita (esplicita o implicita) della propria qualifica per ottenere sconti sui beni acquistati o prestazioni gratuite una tantum.

Parimenti connotato da un disvalore non comparabile con la disposizione censurata appare l’ulteriore tertium evocato dalla Sezione rimettente, rappresentato dall’illecito di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), del decreto legislativo medesimo, che è integrato da condotte come il «frequentare» o l’«intrattenere rapporti consapevoli di affari» con persone sottoposte a procedimento penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato, ovvero che abbiano subìto condanne superiori a una certa soglia di gravità, o che siano effettivamente state destinatarie di provvedimenti di prevenzione. L’illecito, per il quale l’art. 12, comma 2, lettera c), commina la sanzione disciplinare non inferiore alla perdita dell’anzianità, non presuppone infatti indefettibilmente l’ottenimento di specifici vantaggi o agevolazioni da parte del magistrato; di talché il disvalore di questo illecito è essenzialmente incentrato sul pregiudizio all’immagine della magistratura derivante dalla conoscenza presso il pubblico di tali rapporti, piuttosto che sul rischio reale di distorsioni dell’attività giurisdizionale derivanti dai rapporti medesimi, che caratterizza invece l’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006.

Non sussistono, dunque, i profili di disparità di trattamento della disciplina denunciata rispetto ai tertia comparationis evocati dalla Sezione rimettente.

8.– Una irragionevole disparità di trattamento non sussiste, peraltro, nemmeno sotto il profilo "interno”, e cioè tra le diverse ipotesi contemplate dalla medesima disposizione in questa sede censurata, per le quali si prevede in modo indifferenziato l’obbligatoria applicazione della sanzione della rimozione.

Al riguardo, non può non rilevarsi preliminarmente che, ogniqualvolta la legge preveda la sanzione massima applicabile in un dato settore di disciplina per una pluralità di fattispecie astratte, sarebbe irragionevole pretendere – sulla base del principio di eguaglianza – che tutte quelle fattispecie siano connotate da un disvalore tra loro esattamente comparabile. Mutatis mutandis, la stessa pena massima prevista dall’ordinamento penale – l’ergastolo – è stabilita oggi per una pluralità di fattispecie di reato disomogenee quanto a disvalore: la pena perpetua è, ad esempio, prevista per l’omicidio aggravato di una persona (artt. 576 e 577, primo comma, cod. pen.), così come per la strage che ha causato la morte di più persone (art. 422, primo comma, cod. pen.), la quale è evidentemente ipotesi delittuosa più grave, non foss’altro che in ragione del maggior numero di vittime.

Essenziale e sufficiente a garantire il rispetto del principio di eguaglianza è, in tali ipotesi, che anche la fattispecie di illecito meno grave tra quelle che comportano l’applicazione della sanzione massima prevista dai diversi rami dell’ordinamento, isolatamente considerata, sia pur sempre connotata da un grado di disvalore tale da rendere (sotto il profilo "intrinseco”) non manifestamente sproporzionata la comminatoria della sanzione massima. A prescindere, dunque, dalla sua eventuale minore gravità rispetto alle altre fattispecie accomunate dalla medesima sanzione massima.

Inconferente rispetto alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost. si rivela, dunque, l’affermazione che le ipotesi di condanna del magistrato all’interdizione dai pubblici uffici pronunciata in sede penale e di condanna a pena detentiva non sospesa (sin dall’inizio o per effetto di revoca della sospensione condizionale) sarebbero più gravi rispetto all’ipotesi in cui il magistrato sia stato ritenuto responsabile del mero illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, senza aver commesso alcun reato. Il problema è, piuttosto, quello di stabilire se la previsione dell’automatica rimozione prevista anche per quest’ultima ipotesi sia compatibile o mano con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della sua manifesta irragionevolezza intrinseca al metro del principio di proporzione, al quale è necessario a questo punto volgere l’attenzione.

9.– Il profilo di manifesta irragionevolezza intrinseca sottoposto a questa Corte dalla Sezione rimettente concerne non tanto una ipotetica sproporzione della sanzione rispetto a tutti i casi suscettibili di essere ricondotti alla fattispecie di illecito di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, quanto piuttosto l’automatismo di tale sanzione, che non consentirebbe al giudice disciplinare di graduare la risposta sanzionatoria in relazione alla concreta gravità dei molteplici casi di specie suscettibili di essere ricondotti sotto l’astratta previsione normativa.

Nemmeno questa censura deve, tuttavia, ritenersi fondata.

In materia di sanzioni disciplinari, sono invero numerose le sentenze di questa Corte che hanno ritenuto illegittime, per contrasto con l’art. 3 Cost., disposizioni che comportavano l’automatica destituzione del pubblico dipendente in conseguenza della sua condanna in sede penale per determinati reati (così, ex multis, sentenze n. 268 del 2016, n. 363 del 1996, n. 197 del 1993 e n. 16 del 1991). Tali pronunce riposano essenzialmente sul presupposto secondo cui il principio di eguaglianza-ragionevolezza esige, in via generale, che sia conservata all’organo disciplinare una valutazione discrezionale sulla proporzionale graduazione della sanzione disciplinare nel caso concreto (così, in particolare, la citata sentenza n. 268 del 2016). Il principio non è, peraltro, senza eccezione, come dimostra la sentenza n. 112 del 2014, con la quale non è stata ritenuta illegittima, per gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, la destituzione di diritto quale conseguenza automatica dell’applicazione di una misura di sicurezza personale.

La questione ora all’esame non concerne, tuttavia, un automatismo legato al sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati reati, bensì un diverso automatismo insito nella previsione di un’unica sanzione fissa (la rimozione) per chi sia ritenuto responsabile dal giudice disciplinare di un preciso illecito, anch’esso di natura meramente disciplinare (nel caso in esame, quello di cui all’art. 3, comma 1, lettera e, del d.lgs. n. 109 del 2006).

In una recente pronuncia, questa Corte ha ritenuto legittimo l’automatismo legale consistente nel divieto di riabilitazione del notaio già destinatario di un provvedimento di destituzione, adottato – quest’ultimo – all’esito di un ponderato e discrezionale apprezzamento dell’organo disciplinare, impugnabile in sede giurisdizionale, e a sua volta determinato dalla sua condanna per gravi reati connessi all’esercizio della sua professione, come il falso, la corruzione, il furto, l’appropriazione indebita, il peculato, la truffa e la calunnia. In quella circostanza, la Corte ha evidenziato come una sanzione così drastica quale l’esclusione perpetua dall’esercizio della professione dovesse purtuttavia ritenersi «necessaria per preservare l’integrità della funzione notarile, che sarebbe compromessa ove i consociati potessero anche solo dubitare dell’affidabilità di chi è preposto a certificarne gli atti con valore di pubblica fede»; e ha ritenuto, pertanto, che la scelta legislativa superasse il test di non manifesta irragionevolezza imposto dall’art. 3 Cost., anche alla luce della presunzione che le gravi condotte sanzionate con la destituzione «abbiano definitivamente negato al notaio, per quanto riabilitato, quel particolare ed elevato grado di fiducia che i consociati debbono poter incondizionatamente riporre in una figura destinata a garantire la sicurezza dei traffici giuridici, a propria volta preminente interesse dello Stato di diritto» (sentenza n. 234 del 2015).

Considerazioni analoghe debbono essere spese, a fortiori, per quanto concerne la sanzione che in questa sede viene in considerazione, destinata a essere applicata ai magistrati, ai quali è affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato, e che per tale ragione sono tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, secondo quanto prescritto dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto.

Ora, non v’è dubbio che l’ottenimento di «prestiti» o di «agevolazioni», che per qualità e quantità non possano definirsi di scarsa rilevanza, da parte di persona che il magistrato sa essere parte, indagata, parte offesa, testimone o comunque coinvolta in un procedimento pendente presso il proprio ufficio o presso altro ufficio del distretto, costituisca condotta che crea, sul piano oggettivo, il pericolo di distorsione dell’attività giurisdizionale in favore del soggetto che tali prestiti o agevolazioni ha corrisposto; e costituisca altresì condotta che in ogni caso determina – ove la notizia relativa venga a conoscenza del pubblico – un significativo e pernicioso indebolimento della fiducia dei consociati nell’indipendenza e imparzialità dello stesso ordine giudiziario.

Ritiene allora questa Corte che non possa essere ritenuta manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di colpire indefettibilmente con la sanzione della rimozione la totalità delle condotte rientranti nell’alveo applicativo dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, caratterizzate peraltro da una piena consapevolezza del magistrato sulle qualità dei propri "benefattori”, da provarsi compiutamente nell’ambito del procedimento disciplinare, e al netto comunque delle vicende di scarsa rilevanza, alle quali risulta applicabile la causa esimente prevista dall’art. 3-bis del medesimo decreto legislativo.

Rispetto, infatti, all’obiettivo legittimo di restaurare la fiducia dei consociati nell’indipendenza, correttezza e imparzialità del sistema giudiziario, compromessa o anche solo messa in pericolo dalla condotta del magistrato, la scelta legislativa oggi all’esame non appare censurabile né sotto il profilo della sua idoneità a conseguire un tale obiettivo, apparendo plausibile che una reazione ferma contro l’illecito disciplinare possa effettivamente contribuire all’obiettivo delineato; né sotto il profilo della sua necessità rispetto all’obiettivo medesimo, non essendo affatto scontato che esso possa essere conseguito mediante una sanzione più mite, e che comunque non determini la definitiva cessazione dall’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Né, infine, la scelta del legislatore appare censurabile sotto l’ulteriore profilo della proporzionalità in senso stretto della sanzione: quest’ultima – in nome della tutela di un interesse essenziale per lo Stato di diritto – interferisce, certo, in maniera assai gravosa con i diritti fondamentali del soggetto che ne è colpito, ma lascia altresì a quest’ultimo la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale.

10.– La presente decisione non è in contrasto con il precedente invocato dalla Sezione rimettente, rappresentato dalla recente sentenza n. 170 del 2015, nella quale questa Corte ha censurato l’obbligatorietà della sanzione disciplinare accessoria del trasferimento presso altra sede o altro ufficio quando ricorre una delle violazioni stabilite dall’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006, che sanziona il magistrato il quale, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona, abbia arrecato ingiusto danno o indebito vantaggio a una delle parti.

L’illecito disciplinare che in quell’occasione era stato oggetto di esame da parte di questa Corte abbraccia, infatti, condotte di natura eterogenea, e connotate ictu oculi da gradi di disvalore fortemente differenziati, anche soltanto dal punto di vista dell’elemento soggettivo (risultando sanzionabili a quel titolo anche condotte caratterizzate da mera imperizia o trascuratezza, che sono invece a priori escluse dall’ambito applicativo dell’illecito disciplinare di cui in questa sede è discorso, il quale richiede invece la prova della positiva consapevolezza da parte del magistrato delle qualità soggettive della persona da cui egli riceva prestiti o agevolazioni).

11.– Né, infine, la presente decisione intende porre in discussione la costante giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 50 del 1980 e, più di recente, sentenze n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012) che considera, in linea di principio, incompatibili con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. gli automatismi sanzionatori nell’ambito del diritto penale.

Benché le sanzioni disciplinari attengano in senso lato al diritto sanzionatorio-punitivo, e proprio per tale ragione attraggano su di sé alcune delle garanzie che la Costituzione e le carte internazionali dei diritti riservano alla pena, esse conservano tuttavia una propria specificità, anche dal punto di vista del loro statuto costituzionale, non essendo – ad esempio – soggette al principio della necessaria funzione rieducativa della pena, che questa Corte ha sempre ritenuto essere connotato esclusivo delle pene in senso stretto (nel senso dell’inapplicabilità di tale principio alle sanzioni amministrative, sentenza n. 281 del 2013 e ordinanza n. 169 del 2013).

Tale specificità comporta dunque che alcune almeno delle garanzie che, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, circondano la pena in senso stretto non si applicano, o si applicano con un maggior grado di flessibilità, alla sfera delle sanzioni disciplinari. Oltre che a logiche punitive e deterrenti comuni alle pene, tali sanzioni possono legittimamente rispondere, quanto meno nei casi concernenti pubblici funzionari cui sono affidati compiti essenziali a garanzia dello Stato di diritto, anche alla finalità di assicurare la definitiva cessazione dal servizio di persone dimostratesi non idonee, o non più idonee, all’assolvimento dei propri doveri. E ciò anche sulla base di automatismi sanzionatori, come quello incorporato nella disposizione ora scrutinata, i quali potranno eccezionalmente superare il vaglio di non manifesta irragionevolezza proprio e soltanto in quanto funzionali all’applicazione di una mera sanzione disciplinare, ma che resteranno invece, in linea di principio, inaccettabili nell’ambito delle pene in senso stretto, dove le esigenze di rigorosa individualizzazione del trattamento sanzionatorio si impongono in maniera assai più stringente, anche in considerazione della ben più drammatica incidenza della pena sui diritti fondamentali della persona.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2018.