Sentenza n. 277 del 2014

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SENTENZA N. 277

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                  Presidente

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                 Giudice

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                       ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promossi dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con ordinanze del 20 gennaio e del 17 marzo 2014, iscritte ai nn. 114 e 115 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 novembre 2014 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto

1.− Nel corso di un giudizio, promosso da un cittadino extracomunitario avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di attesa occupazione – adottato dalla competente autorità amministrativa in ragione del fatto che nei confronti dell’interessato, era stata emessa, ex art. 444 del codice di procedura penale, sentenza di condanna per il reato di cui agli artt. 81 del codice penale e 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, con ordinanza emessa il 20 gennaio 2014 (iscritta al n. 114 del registro ordinanze del 2014), ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui fanno derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno del cittadino extracomunitario dalla pronuncia, nei suoi confronti, di una sentenza di condanna per uno dei reati per i quali l’art. 381 del cod. proc. pen. prevede l’arresto facoltativo in flagranza, senza consentire che la pubblica amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato».

Riportati i motivi di impugnazione, in particolare il rimettente reputa siano da escludere, nel caso di specie, il rilievo e la significatività tanto dei legami personali palesati dal ricorrente che, in assenza di un dimostrato e stabile rapporto affettivo ed in assenza di figli, non può avvalersi della pur “rafforzata” tutela di cui alla seconda parte dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 (come dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 202 del 2013), quanto del sopravvenuto reperimento di un’occupazione lavorativa che non può costituire elemento “nuovo” astrattamente previsto nella prima parte del citato art. 5, comma 5, come idoneo a cancellare di per sé gli effetti della riportata sentenza penale di condanna. Né, peraltro, il rimettente ritiene di aderire alla interpretazione estensiva della norma censurata seguita da alcuni giudici amministrativi di primo grado che, nonostante la diversità dei contesti normativi, hanno applicato “analogicamente” alle disposizioni in esame gli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 172 del 2012, riguardante i criteri di regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari.

Poiché, dunque, il ricorso andrebbe rigettato, ed affermata per questo la rilevanza della questione di costituzionalità, il cui accoglimento farebbe venire meno il meccanismo di automaticità tra condanna e diniego del rinnovo del permesso di soggiorno, il rimettente sottolinea, innanzitutto, come le norme censurate siano lesive dell’evocato parametro nella parte in cui riconnettono automaticamente il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno alla condanna penale (compresa quella adottata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.) anche per reati per i quali è previsto l’arresto facoltativo in flagranza, ex art. 381 cod. proc. pen.; con la conseguenza di porre legislativamente, per i pari effetti “espulsivi”, sull’identico piano di disvalore dette condanne con quelle riportate per reati più gravi, in cui l’arresto in flagranza è previsto come obbligatorio ex art. 380 cod. proc. pen., senza al contempo attribuire alla pubblica amministrazione l’onere di valutare in concreto la pericolosità sociale del cittadino extracomunitario, con riguardo ad una sua condizione complessiva, che non si esaurisca direttamente nel dato penale, ma innesti quest’ultimo su altre circostanze “compensative”, quali la condotta successiva, la situazione familiare e l’inserimento ed apprezzamento sociale.

Analizzate le ragioni che, nei fatti, hanno determinato il giudice penale a ritenere di lieve entità il fatto-reato ascritto al ricorrente ed a condannarlo alla pena de qua (con la concessione delle attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena), il TRGA di Trento osserva che, quanto alla normativa impugnata ed alle conseguenze “espulsive” per il cittadino extracomunitario, il legislatore non prevede alcuna differenziazione, in materia di “reati inerenti gli stupefacenti”, fra le sentenze di condanna penale pronunciate in forza dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, e quelle inflitte “per fatti di lieve entità” in applicazione del quinto comma della stessa norma; nonché fra i reati che rendono obbligatorio l’arresto in flagranza e quelli che ne ammettono la mera facoltatività in presenza dei previsti presupposti. E che, pertanto, il testo unico sull’immigrazione, senza ragionevole giustificazione, assoggetta allo stesso trattamento figure di reato non solo oggettivamente e soggettivamente diverse, ma anche caratterizzate, internamente, da una ben differente qualificazione e graduazione giuridica. La quale deve ritenersi, a propria volta, non casuale ma riflesso di una ponderata scelta legislativa inerente la valutazione della distinta gravità e pericolosità dei fatti, che (come riconosciuta dallo stesso diritto vivente) si pone in contraddizione (vulnerando così i principi di uguaglianza e ragionevolezza) con la censurata scelta normativa di escludere che la Pubblica amministrazione, chiamata a valutare e delibare l’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, possa a propria volta tener conto di quella stessa e graduata scala di riferimento.

Il rimettente – richiamata la giurisprudenza costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, che, in materia di regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, afferma che la ampia discrezionalità attribuita al legislatore trova il suo limite nella manifesta irragionevolezza e mancata proporzionalità delle scelte (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 2004; nonché Dalia contro Francia, sentenza 19 febbraio 1998; Maslov contro Austria, sentenza 23 giugno 2008) – rileva che anche l’automatismo espulsivo, riflesso della pur riconosciuta discrezionalità legislativa, è destinato ad incontrare i limiti segnati dai precetti costituzionali, per essere in armonia con l’art. 3 Cost., occorrendo dunque che esso sia conforme a criteri di intrinseca ragionevolezza secondo l’id quod plerumque accidit (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011; n. 265 e n. 139 del 2010).

Pertanto, pur non ignorando che, con sentenza n. 148 del 2008, la Corte ha dichiarato non fondata una analoga questione di legittimità costituzionale delle stesse disposizioni in esame, il Collegio sottolinea come sia venuta progressivamente ad affermarsi, in generale, una tutela “rafforzata” dello “statuto” del soggetto extracomunitario, che ha portato (appunto con le sentenze n. 202 del 2013  e n. 172 del 2012) ad un significativo approfondimento in ordine alla valenza delle presunzioni assolute e generalizzate fissate dal legislatore in tema di pericolosità, delimitando e contenendo detto automatismo in termini di ragionevolezza costituzionale, e coordinando le norme dettate dal legislatore in materia di immigrazione con l’inquadramento e le differenziazioni stabilite dal legislatore in materia penale. Secondo il rimettente, infatti, i principi stabiliti nella citata sentenza n. 172 del 2012 appaiono riferibili anche alle norme che regolano il rinnovo del permesso di soggiorno, nella parte in cui queste prevedono il diniego automatico in mera presenza di condanne penali riportate dal cittadino extracomunitario anche per reati esclusi dal novero di quelli per i quali (art. 380 cod. proc. pen.) il legislatore prescrive l’arresto obbligatorio.

2.− Nel corso di altro analogo giudizio, promosso da un cittadino extracomunitario avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo – ugualmente adottato dalla competente autorità amministrativa in ragione del fatto che il ricorrente aveva subito anch’esso, a seguito di patteggiamento, una condanna per il delitto di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 – il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, con ordinanza emessa il 17 marzo 2014 (iscritta al n. 115 del registro ordinanze del 2014), con motivazioni pressoché identiche, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., la medesima questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, «nella parte in cui fanno derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno del cittadino extracomunitario dalla pronuncia, nei suoi confronti, di una sentenza di condanna per uno dei reati per i quali l’art. 381 del cod. proc. pen. prevede l’arresto facoltativo in flagranza, senza consentire che la pubblica amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato».

3.− In entrambi i giudizi, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che (con identiche argomentazioni) ha concluso per la inammissibilità e per l’infondatezza della sollevata questione.

In particolare, la difesa dello Stato sottolinea che la Corte, con sentenza n. 148 del 2008 (richiamata dallo stesso rimettente), ha già dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale esattamente dello stesso combinato disposto dell’art. 4, comma 3, e dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 (allora sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 97 della Costituzione), ritenendo come non sia irragionevole condizionare l’ingresso e la permanenza dello straniero nel territorio nazionale alla circostanza della mancata commissione di reati di non scarso rilievo; ed evidenziando che «in tale ordine di idee, la condanna per un delitto punito con la pena detentiva, la cui configurazione è diretta a tutelare beni giuridici di rilevante valore sociale – quali sono le fattispecie incriminate ivi prese in considerazione dalla normativa censurata – non può, di per sé, essere considerata circostanza ininfluente ai fini di cui trattasi, al punto di far ritenere manifestamente irragionevole la disciplina legislativa che siffatta condanna assume come circostanza ostativa all’accettazione dello straniero nel territorio dello Stato».

Inoltre, l’Avvocatura rileva che tale linea interpretativa non è stata mutata dalle successive pronunce (ed in particolare dalla sentenza n. 172 del 2012), che anzi ne hanno espressamente riaffermato la portata.

Considerato in diritto

1.− Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, con due ordinanze di contenuto pressoché identico, censura gli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui fanno derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno del cittadino extracomunitario dalla pronuncia, nei suoi confronti, di una sentenza di condanna per uno dei reati per i quali l’art. 381 del cod. proc. pen. prevede l’arresto facoltativo in flagranza, senza consentire che la pubblica amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato».

In particolare l’art. 4, comma 3, prevede quanto segue: «Ferme restando le disposizioni di cui all’articolo 3, comma 4, l’Italia, in armonia con gli obblighi assunti con l’adesione a specifici accordi internazionali, consentirà l’ingresso nel proprio territorio allo straniero che dimostri di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno e, fatta eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel Paese di provenienza. I mezzi di sussistenza sono definiti con apposita direttiva emanata dal Ministro dell’interno, sulla base dei criteri indicati nel documento di programmazione di cui all’articolo 3, comma 1. Non è ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi tali requisiti o che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone o che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l’ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale. Lo straniero per il quale è richiesto il ricongiungimento familiare, ai sensi dell’articolo 29, non è ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone».

A sua volta, l’art. 5, comma 5, dispone che: «Il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 22, comma 9, e sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili. Nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell’articolo 29, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale».

Secondo il rimettente, il combinato disposto di tali norme si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento, giacché le stesse riconnettono automaticamente il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno alla condanna penale, compresa quella adottata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. (nella specie per violazione dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante il «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza») anche per reati per i quali è previsto l’arresto facoltativo in flagranza, ex art. 381 cod. proc. pen.; così ponendo legislativamente, per i pari effetti “espulsivi”, sull’identico piano di disvalore dette condanne con quelle riportate per reati più gravi, in cui l’arresto in flagranza è previsto come obbligatorio ex art. 380 cod. proc. pen.

Per il giudice a quo, la conseguente esclusione per la Pubblica amministrazione del potere di valutare in concreto la pericolosità sociale del cittadino extracomunitario – con riguardo ad una sua condizione complessiva, che non si esaurisca direttamente nel dato penale, ma innesti quest’ultimo su altre circostanze “compensative” (quali la condotta successiva, la situazione familiare e l’inserimento ed apprezzamento sociale) – contraddice la progressiva affermazione, fatta da questa Corte nelle sentenze n. 202 del 2013 e n. 172 del 2012, di una tutela “rafforzata” dello “statuto” del soggetto extracomunitario, che ha portato ad un significativo approfondimento della valenza delle presunzioni assolute e generalizzate fissate dal legislatore in tema di pericolosità, attraverso la delimitazione ed il contenimento di detto automatismo in termini di ragionevolezza costituzionale.

2.− Le due ordinanze di rimessione sollevano (con le stesse motivazioni) identiche questioni, e pertanto i relativi giudizi di legittimità costituzionale vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3.− Le questioni sono inammissibili.

3.1.− Per porre rimedio al lamentato vulnus che le norme censurate arrecherebbero agli evocati princípi di uguaglianza e ragionevolezza, il Collegio rimettente  ha mutuato pedissequamente la sua formulazione da quella accolta nella sentenza n. 172 del 2012, la quale rispondeva alla diversa esigenza di ricondurre a costituzionalità una specifica disciplina della emersione dei lavoratori extracomunitari (di cui all’art. 1-ter, comma 13, lettera c, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, recante «Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini»), escludente dalla regolarizzazione coloro i quali risultassero «condannati, anche con sentenza non definitiva […], per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381» del codice di procedura penale. Il Collegio chiede, pertanto, che questa Corte dichiari l’illegittimità costituzionale delle norme medesime, «nella parte in cui fanno derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno del cittadino extracomunitario dalla pronuncia, nei suoi confronti, di una sentenza di condanna per uno dei reati per i quali l’art. 381 del cod. proc. pen. prevede l’arresto facoltativo in flagranza, senza consentire che la pubblica amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato».

3.2.− Formulato in questi termini ed in riferimento all’oggetto del presente giudizio di costituzionalità, il petitum risulta connotato da un rilevante tasso di manipolatività.

La richiesta pronuncia additiva risulta, invero, espressamente diretta ad una auspicata e radicale innovazione dell’attuale sistema identificativo delle fattispecie ostative alla concessione o al rinnovo del permesso di soggiorno a seguito di condanna penale del richiedente. In sostituzione di quello censurato (strutturato dal legislatore sulla duplice individuazione, da un lato, dei «reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale»; e, dall’altro, dei «reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite») il rimettente chiede a questa Corte l’introduzione di tutt’altro criterio, che darebbe esclusivo rilievo alla condanna del soggetto solo per uno dei reati per i quali l’art. 381 cod. proc. pen. prevede l’arresto facoltativo in flagranza, con ciò eliminando qualunque possibile autonoma incidenza ostativa alla condanna per le singole fattispecie delittuose nominate dal censurato art. 4, comma 3 (tra cui, appunto, la categoria dei «reati inerenti gli stupefacenti»).

3.3.− Nel delineare le condizioni ostative collegate al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno in dipendenza di condanne penali (anche non definitive, a differenza di quanto domanda il giudice a quo il quale, enunciando il petitum in termini di “condanna” parrebbe evocare, invece, secondo l’ordinario lessico normativo, una condanna irrevocabile), la scelta del legislatore è stata quella di dar vita ad un sistema “bipartito” basato sulla enucleazione di due criteri concorrenti di natura composita. Il primo, di tipo misto, riferito ai casi per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza; disciplina, quest’ultima, che, a sua volta, risulta costruita (art. 380, commi 1 e 2, cod. proc. pen.) su base in parte “quantitativa”, raccordata, cioè, alla pena prevista dalla legge, e, in parte, qualitativa, ragguagliata, quindi, alla specificità dei titoli di reato. L’altro paradigma, del tutto peculiare, riferito non già ad una rassegna quantitativa, basata sulla pena, né ad una indicazione qualitativa fondata su specifiche fattispecie delittuose, ma calibrato in funzione di “tipologie” di reati, individuati ratione materiae e raggruppati, per così dire, all’interno di complessi normativi delineati solo attraverso il richiamo ai relativi “settori di criminalità”.

La disamina delle “materie” evocate dalla normativa in questione (che riflette anche specifici impegni internazionali derivanti da convenzioni o trattati o normativa di rango comunitario) dimostra come sia evidente l’intendimento del legislatore di assumere a paradigma ostativo non certo la gravità del fatto, in sé e per sé considerata, quanto – e soprattutto – la specifica natura del reato, riposando la sua scelta su una esigenza di conformazione agli impegni di “inibitoria” di traffici riguardanti determinati settori reputati maggiormente sensibili.

Ne deriva, quindi, che la introduzione di un modello di tipo esclusivamente “quantitativo”, fondato, cioè, sulla gravità in concreto del fatto e sulla sanzione applicabile (così come pretenderebbe il giudice a quo) si tradurrebbe, non tanto in una pura e semplice deroga all’automatismo, come pur si insiste nelle ordinanze di rimessione, quanto nella creazione di un “sistema” del tutto nuovo – diverso e alternativo – rispetto a quello prefigurato dal legislatore. La “addizione”, infatti,  che il rimettente sollecita non si circoscriverebbe neppure al “caso” a lui devoluto, ma prevederebbe per tutti i reati una soglia di divieto di automatismo ove la pena sancita sia iscrivibile nella forbice edittale prevista dall’art. 381 cod. proc. pen. per i casi di arresto facoltativo in flagranza.

3.4.− Poiché, dunque, il petitum formulato si connota per un cospicuo tasso di manipolatività, derivante anche dalla «natura creativa» e «non costituzionalmente obbligata» della soluzione evocata (sentenze n. 241, n. 81 e n. 30 del 2014; ordinanza n. 190 del 2013) – tanto più vertendosi in materia di regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, rispetto alla conformazione della quale è stata riconosciuta ampia discrezionalità del legislatore (sentenze n. 202 del 2013, n. 172 del 2012, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994) –, le questioni devono essere dichiarate inammissibili.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevate – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, con le due ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 dicembre 2014.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 dicembre 2014.