ORDINANZA N. 3
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Luigi MAZZELLA Presidente
- Sabino CASSESE Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO
”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge
25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della
professione di avvocato), promosso dal Tribunale
di Nocera Inferiore, nel procedimento vertente tra R. C. ed altra e il
Ministero della giustizia, con ordinanza
del 24 marzo 2011 iscritta al n. 59 del registro ordinanze 2013 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale,
dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio
del 4 dicembre 2013 il Giudice relatore Luigi Mazzella.
Ritenuto che il Tribunale ordinario di
Nocera Inferiore – nel procedimento di reclamo proposto ai sensi dell’art. 669-terdecies del codice di procedura civile
da C.R. avverso l’ordinanza di rigetto del suo ricorso in via d’urgenza volto
ad ottenere, in via principale, la declaratoria di nullità e/o illegittimità
del provvedimento della pubblica amministrazione che gli aveva revocato
l’autorizzazione all’esercizio della professione forense, in subordine la
sospensione del medesimo provvedimento ed il contestuale riconoscimento della
provvisoria riviviscenza dell’atto autorizzativo all’esercizio della suddetta
professione – ha, con ordinanza depositata il 24 marzo 2011, iscritta al n. 59
del registro ordinanze dell’anno 2013, sollevato questioni di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione,
nonché al canone della ragionevolezza intrinseca riconducibile all’art. 3,
secondo comma, Cost., degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della
professione di avvocato);
che, ad avviso del collegio rimettente,
che richiama le argomentazioni esposte dalla Corte di cassazione, sezioni
unite civili, a fondamento di identico dubbio di legittimità costituzionale
della normativa in oggetto (è citata l’ordinanza n. 24689 del 6 dicembre 2010),
le disposizioni censurate violerebbero gli
artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., come pure il parametro della ragionevolezza
intrinseca di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., perché, non solo imporrebbero
un sacrificio irragionevolmente lesivo del sicuro e giustificato affidamento di
mantenere nel tempo lo stato di avvocati part-time
maturato da tutti i dipendenti pubblici i quali, come il ricorrente nel
giudizio a quo, si erano avvalsi da
diversi anni dell’opzione in tal senso prevista dalla legge 23 dicembre 1996,
n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), già reputata
conforme a Costituzione da questa Corte con sentenza n. 189 del
2001, ma addirittura sconvolgerebbero la consolidata situazione giuridica
sorta in capo a costoro in forza del regime previgente, avendo essi realizzato,
in una simile prospettiva, investimenti intellettuali ed economici finalizzati
all’avvio della nuova attività professionale e, correlativamente, affrontato
pregnanti mutamenti della propria impostazione di vita, al prezzo di
inevitabili rinunce a migliori prospettive di carriera nell’ambito della pubblica amministrazione. Con la conseguenza
della probabile lesione di tutta una serie di consolidate aspettative, nonché
di un legittimo affidamento nella certezza del diritto e nella sicurezza
giuridica, valore costituzionalmente protetto (peraltro in settori di peculiare
rilevanza costituzionale come quelli del lavoro e della libera iniziativa
economica), che le previste misure limitate nel tempo sarebbero palesemente
inidonee a salvaguardare;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri
per eccepire la manifesta infondatezza della questione.
Considerato che, in via preliminare, le questioni sollevate dal
Tribunale di Nocera Inferiore sono ammissibili, perché il collegio rimettente,
investito del reclamo avverso l’ordinanza di rigetto emessa in prime cure, ha
accolto la domanda del ricorrente di sospensione del provvedimento di revoca
dell’autorizzazione all’esercizio della professione forense (in concomitanza
con la prestazione di lavoro pubblico) proprio sulla base della ritenuta non
manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale della normativa
in oggetto e, quindi, ha sospeso il giudizio principale in attesa della
decisione di questa Corte;
che, di conseguenza, il giudice a quo non ha esaurito in via definitiva
il suo potere cautelare, essendosi implicitamente riservato di rivalutare il
provvedimento adottato in via d’urgenza all’esito del giudizio incidentale di
legittimità costituzionale, in coerenza con il principio secondo cui, ogni qual
volta il fumus boni iuris
sia ravvisato alla luce della ritenuta non manifesta infondatezza della
questione sollevata, la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato
è di carattere provvisorio, sino alla ripresa del giudizio cautelare dopo
l’incidente di legittimità costituzionale (in tal senso, specificamente, sentenza n. 236 del
2010; ordinanza
n. 25 del 2006);
che, nel merito, questa Corte, con la sentenza n. 166 del
2012, ha già dichiarato non fondate questioni sostanzialmente
sovrapponibili a quelle sollevate con l’ordinanza in esame e, segnatamente,
appunto quelle, proposte dalla Corte di cassazione - sezioni unite, alle quali
l’odierno rimettente ha fatto largamente rinvio;
che, in tale occasione, è stata,
innanzitutto, esclusa, nel solco della sentenza n. 390 del
2006 di questa stessa Corte, la denunciata violazione degli artt. 4 e 35
Cost., da un lato, dell’art. 41 Cost., dall’altro. Dei primi due, in quanto
essi, nel garantire il diritto al lavoro, ne affidano l’attuazione, quanto ai
tempi e ai modi, alla discrezionalità del legislatore, nella specie esercitata
in modo non irragionevole. Dell’ultimo, perché non viene qui in rilievo
un’attività economica, ma una modalità di espletamento del servizio presso enti
pubblici ai fini del soddisfacimento dell’interesse generale all’esecuzione
della prestazione di lavoro pubblico in termini rispettosi dell’imparzialità e
del buon andamento dell’amministrazione, nonché ad un corretto esercizio della
professione forense;
che, inoltre, sul punto nodale del dubbio di
legittimità ora riproposto dal giudice a
quo, si è evidenziato che «la normativa transitoria dettata dall’art. 2
della legge in oggetto […] soddisfa pienamente i requisiti di non
irragionevolezza della scelta normativa di carattere inderogabilmente ostativo
sottesa alla legge n. 339 del 2003. Scelta inevitabilmente destinata a produrre
effetti, proprio per la sua portata generale, anche sulle posizioni dei
dipendenti pubblici part-time
legittimamente trovatisi ad esercitare in concomitanza la professione di
avvocati. Essi, infatti, anziché cadere immediatamente sotto il divieto, hanno
potuto beneficiare di un termine di trentasei mesi per esprimere la decisione
dell’attività cui dedicarsi in futuro in via esclusiva (con diritto al tempo
pieno in caso di opzione per il mantenimento del rapporto d’impiego pubblico) e, nell’ipotesi di una prima manifestazione optativa per la professione forense, di un ulteriore
quinquennio per l’esercizio dello ius poenitendi, tale da garantire loro il diritto alla
riammissione in servizio a tempo pieno (entro tre mesi dalla richiesta) con il
solo limite della sospensione, nelle more, dell’anzianità»;
che, dunque, questa Corte ha ritenuto che
vi è stato tutto il tempo perché i dipendenti pubblici part-time già autorizzati (come il ricorrente nel giudizio a quo) all’esercizio della professione
forense potessero valutare, di fronte ad una interdizione oramai generalizzata
allo svolgimento contemporaneo delle due attività, presupposti e situazioni,
personali e familiari, per orientare la propria scelta nella direzione del
mantenimento del rapporto di lavoro pubblico piuttosto che in quella
dell’esercizio esclusivo della professione legale, con la disponibilità di uno spatium deliberandi
supplementare a beneficio dell’opzione per la più solida posizione lavorativa
alle dipendenze della pubblica amministrazione, in caso di preferenza
inizialmente manifestata per la più aleatoria attività libero-professionale;
che, conseguentemente, nelle conclusioni
della citata pronuncia si è sancito che «il descritto regime di tutela, lungi
dal tradursi in un regolamento irrazionale lesivo dell’affidamento maturato dai
titolari di situazioni sostanziali legittimamente sorte sotto l’impero della
normativa previgente, è da ritenere assolutamente adeguato a contemperare la
doverosa applicazione del divieto generalizzato reintrodotto dal legislatore
per l’avvenire (con effetto, altresì, sui rapporti di durata in corso) con le
esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti pubblici a tempo
parziale, già ammessi dalla legge dell’epoca all’esercizio della professione legale»,
anche perché, diversamente opinando, si sarebbe avuto il risultato, giudicato
certamente irragionevole, «di conservare “ad esaurimento” una riserva di
lavoratori pubblici part-time,
contemporaneamente avvocati, all’interno di un sistema radicalmente contrario
alla coesistenza delle due figure lavorative nella stessa persona» (sent. n. 166 del
2012, cit.);
che a tal proposito, onde prevenire
distorsioni come quella sopra paventata, si è ribadito il principio che
raccomanda di evitare diversità di trattamento diffuse e indeterminate nel
tempo, «non potendosi lasciare nell’ordinamento sine die una duplicità di discipline diverse e parallele per le
stesse situazioni» (sentenza n. 378 del
1994);
che, dopo la citata pronuncia di non
fondatezza, il quadro normativo di riferimento è rimasto sostanzialmente
immutato, perché l’incompatibilità dell’esercizio della professione forense con
l’impiego pubblico part-time non solo
non è stata minimamente scalfita dalla normativa sopravvenuta di cui al
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito
in legge, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148 (v., in particolare,
artt. 5 e 5 bis) e al correlativo decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto
2012, n. 137 (Regolamento recante
riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, dalla legge
14 settembre 2011, n. 148), ma è stata, anzi, rafforzata – con
l’espressa inconciliabilità «con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche
se con orario di lavoro limitato» – dall’art. 18, lettera d), della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina
dell’ordinamento della professione forense), come riconosciuto dalla
giurisprudenza di legittimità (v. Corte di cassazione - sezioni unite, n. 11833
del 16 maggio 2013);
che il giudice a quo non ha sollevato nuovi profili di censura, né prospettato
ragioni o argomenti diversi e ulteriori rispetto a quelli già sottoposti
all’esame di questa Corte e da essa valutati nella richiamata precedente
pronuncia di non fondatezza (sent. n. 166 del
2012, cit.);
che, pertanto, le argomentazioni poste a
base della testé citata pronunzia debbono essere integralmente confermate,
sicché le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale
ordinario di Nocera Inferiore vanno dichiarate, a questo punto, manifestamente
infondate (ex plurimis:
ordinanze n. 32
del 2013, n.
301 del 2011, nn. 261 e 153 del 2010, n. 356 del 2003
e n. 170 del
2002), non contrastando la normativa impugnata con alcuno dei parametri
costituzionali evocati.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della
legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di
legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003,
n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di
avvocato), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della
Costituzione, nonché al principio di ragionevolezza, dal Tribunale ordinario di
Nocera Inferiore, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2014.
F.to:
Luigi MAZZELLA,
Presidente e Redattore
Gabriella MELATTI,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 13 gennaio 2014.