SENTENZA N. 224
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
-
- Luigi MAZZELLA Giudice
-
-
-
-
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 16 della
legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori
usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione,
di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di
lavoro), promosso dal Tribunale ordinario di Forlì nel procedimento vertente
tra F.N. ed altri e il Comune di Forlì ed altro, con ordinanza del 27 giugno
2012 iscritta al n. 14 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2013 il Giudice
relatore Luigi Mazzella.
Ritenuto in
fatto
1. – Il Tribunale di Forlì, in funzione di giudice
del lavoro, con ordinanza del 27 giugno 2012, iscritta al n. 14 del registro
ordinanze dell’anno
1.1. – Riferisce il giudice rimettente di avere
riunito tre cause concernenti il controverso diritto di cinque ricorrenti alla
conservazione del rapporto di lavoro part-time
che le pubbliche amministrazioni convenute (Ministero di giustizia e Comune di
Forlì) avevano sottoposto a rivalutazione in forza dell’art. 16
della legge n. 183 del
1.2. – Osserva il rimettente, innanzitutto, che la
questione è rilevante, perché concerne precisamente il «titolo» in forza del
quale gli enti hanno agito: laddove la norma fosse ritenuta
costituzionalmente illegittima, infatti, essa non potrebbe incidere sulla
regolamentazione del rapporto, come invece pretendono il Ministero ed il Comune
resistenti; la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo
pieno (ovvero la sua modifica ampliativa della durata della prestazione
lavorativa) è avvenuta, infatti, contro il volere delle ricorrenti e
precisamente in forza della disposizione sopra ricordata, sicché la valutazione
di legittimità della pretesa datoriale presupporrebbe necessariamente la
validità della norma dalla medesima applicata.
1.3. – Ad avviso del giudice a quo, la questione non è neppure manifestamente infondata.
Ai sensi della clausola 5,
punto 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, allegato alla
direttiva del Consiglio delle Comunità europee 97/81 del 15 dicembre 1997, «il
rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno
a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo
valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere,
conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a
licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità
di funzionamento dello stabilimento considerato». Ma che si possa procedere a
licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare
da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato, non parrebbe
sterilizzare il pregiudizio della conversione autoritativa del rapporto.
Dissente sotto questo
aspetto il rimettente da quell’indirizzo della giurisprudenza di merito che ha
riconosciuto la compatibilità della norma interna sul presupposto che «la
disposizione va […] intesa nel senso che qualora vi siano esigenze
organizzative o tecniche o produttive che impongano la trasformazione del
rapporto da tempo parziale a tempo pieno o viceversa, il datore, a fronte del
rifiuto del lavoratore a dette trasformazioni, potrebbe procedere al licenziamento
per ragioni risultanti da «necessità di funzionamento dello stabilimento»
(assimilabili alla nozione di giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge 15 luglio 1966, n.
604, recante «Norme sui licenziamenti individuali»). Con la conseguenza che se poi
il lavoratore non acconsentisse alla trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno e ciò integrasse un
giustificato motivo oggettivo, si esporrebbe al rischio di esser licenziato. E
ciò, con il conforto della migliore dottrina, che interpreta l’art. 5 del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61 (Attuazione della direttiva 97/81/CE relativa all’accordo-quadro sul lavoro a
tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES) – là dove ha
recepito la norma comunitaria prescrivendo che «il rifiuto di un lavoratore di
trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo
parziale, o il proprio rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo
pieno, non costituisce giustificato motivo di licenziamento» – nel senso che
«vieta il licenziamento motivato di per sé (cioè, esclusivamente) dal rifiuto
della trasformazione, ferma rimanendo la possibilità di pervenire ad un valido
recesso in presenza di elementi che lo giustifichino per ragioni diverse,
rispetto alle quali l'elemento della prestazione a tempo parziale rileva solo
di riflesso» (è citata, in proposito, l’ordinanza del Tribunale di Trieste, 29
settembre
Altra sarebbe, però, la valenza giuridica del
rifiuto del lavoratore, ad avviso del rimettente, a seconda che lo si consideri espressione di una facoltà del dipendente
ovvero una sua inosservanza di disposizioni datoriali. Prima dell’emanazione
della norma in esame, infatti, il lavoratore bene avrebbe potuto
rifiutare una prestazione full-time,
esponendosi virtualmente al rischio di un licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, il quale avrebbe dovuto, però, presentare i requisiti di legittimità
di questo tipo di recesso. Oggi, invece, soggiunge il giudice a quo, alla luce della predetta norma,
se ritenuta legittima, il rifiuto del lavoratore sarebbe di per sé illegittimo,
poiché inottemperante alla richiesta datoriale, e
giustificherebbe il recesso datoriale per inadempimento, integrando però, di
fatto, precisamente le condizioni vietate dalla norma comunitaria (recepita
nell’ordinamento interno con il d.lgs. n. 61 del
La norma confliggerebbe, quindi, con l’art. 10
Cost., nella parte in cui impegna lo Stato ad
uniformarsi al diritto internazionale, con l’art. 35, terzo comma, Cost.,
laddove si sancisce la promozione degli accordi internazionali intesi a
regolare i diritti del lavoro, con l’art. 117 Cost., che impone il rispetto dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Né la natura transitoria della disposizione –
valorizzata da altra giurisprudenza di merito (in particolare del Tribunale di
Bologna) – apparirebbe idonea a superare il vizio sopra ipotizzato, in mancanza
di un riferimento normativo che consenta di sacrificare, per la transitorietà
della norma, la permanenza dei suoi effetti in danno dei diritti dalla medesima
violati.
Neppure rileverebbe, nella valutazione della norma
incidente sul diritto in esame, la diversa genesi di esso, sorto non già a
seguito di contrattazione inter privatos, bensì sulla base di
una disposizione di legge secondo cui «La trasformazione del rapporto di lavoro
da tempo pieno a tempo parziale avviene automaticamente entro sessanta giorni
dalla domanda, nella quale è indicata l'eventuale attività di lavoro
subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere» (art. 1, comma 558,
della legge 23 dicembre 1996, n. 662, recante «Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica»), potendosi affermare che in entrambi i casi il diritto
deve ritenersi acquisito al patrimonio del soggetto.
Tanto meno concorrenti ragioni di contenimento della spesa pubblica, pur
invocabili a maggior ragione a seguito della costituzionalizzazione del
principio del pareggio di bilancio, potrebbero prevalere sulla sistematica
dell’ordinamento, per la possibilità che per il raggiungimento dei medesimi
fini, vengano adottati strumenti diversi, come, rispetto al caso di specie, il
recesso per giustificato motivo oggettivo. Peraltro, proprio la predicata
«coerenza con l’ordinamento dellʼUnione europea» dovrebbe essere intesa,
nel complesso delle norme della Carta e in difetto di ulteriori
specificazioni, in un’accezione ampia, nel senso che l’equilibrio dei bilanci e
la sostenibilità del debito pubblico siano assicurati in una complessiva
armonizzazione con l’ordinamento dell’Unione europea, oltre i confini meramente
economici suggeriti dalla terminologia della norma espressiva del principio
anzidetto.
Il rimettente non ignora che esigenze contingenti
possano indurre a scelte normative di carattere temporaneo ed eccezionale, ma
reputa estranea alle competenze del giudice ordinario «una valutazione tanto
pregnante delle priorità politico-sociali ed economiche che sottostanno alla
normazione».
Né ritiene di poter ovviare alla contraddizione
rilevata «in base al generale principio secondo il quale il giudice nazionale
deve disapplicare la norma interna, qualora sia incompatibile col diritto
comunitario, anche se contenuto in una direttiva rimasta inattuata» (Corte di cassazione, sezione lavoro, 14 ottobre 2004, n.
20275): non si tratterebbe, infatti, nella specie di disapplicare la norma per
far rivivere quella comunitaria, poiché questʼultima attiene al diverso
aspetto della diretta correlazione tra recesso datoriale e rifiuto del
lavoratore di trasformare il proprio rapporto, mentre nel caso di specie
l’effetto sarebbe solo indiretto e mediato dalla previa soggezione del
lavoratore alla «nuova valutazione» dei provvedimenti di concessione della
trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già
adottati.
Quanto poi alla possibile incompatibilità della
norma a suo tempo istitutiva del diritto potestativo ora in discussione con il
principio generale del buon andamento della pubblica amministrazione, opina il
giudice a quo che solo la previa
declaratoria di illegittimità costituzionale di questa
disposizione potesse consentire di regolamentare il rapporto di lavoro con le
modalità autoritative dell’art. 16 della legge n. 183 del 2010.
2. – Con atto depositato il 4 marzo 2013 è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per la
declaratoria d’irrilevanza o, in subordine, d’infondatezza della prospettata
questione di legittimità costituzionale dell’art. 16
della legge n. 183 del
2.1. – In ordine all’eccepita
irrilevanza, la difesa dello Stato sintetizza la questione sollevata dal
Tribunale di Forlì nel timore che l’introduzione della norma censurata
comporti, in violazione dei principi sanciti dalla suddetta direttiva europea,
la possibilità per il datore di lavoro pubblico di recedere dal rapporto di
lavoro sulla sola base del rifiuto del lavoratore di aderire alla
trasformazione del rapporto da part-time a full-time.
L’oggetto dei giudizi (riuniti) a quibus, tuttavia, è esclusivamente l’esercizio da parte
delle pubbliche amministrazioni della facoltà di sottoporre a nuova valutazione
i rapporti, mentre nessun provvedimento di licenziamento risulterebbe
in concreto essere stato adottato.
Soltanto nel caso che si vertesse in ipotesi di
licenziamento, osserva la difesa dello Stato, la questione potrebbe essere
ritenuta rilevante, mentre, trovandocisi semplicemente nella fase di «nuova
valutazione» prevista dal citato art. 16, il timore
del licenziamento deriverebbe soltanto dallʼinterpretazione che il
rimettente vuole dare della norma; sarebbe, cioè, solo eventuale e non attuale.
E tra una interpretazione conforme alla Costituzione
ed una contraria, il giudice sarebbe tenuto a dare la prevalenza alla prima.
2.2. – L’Avvocatura generale dello Stato sottolinea, inoltre, la singolarità del riferimento all’art.
35, terzo comma, Cost. (secondo cui la Repubblica «promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali
intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro»), perché l’Unione europea non è un'organizzazione
internazionale diretta alla regolamentazione o affermazione del diritto del
lavoro. L’unico collegamento della norma sospettata con l’art. 35 Cost.
starebbe nel fatto che entrambi possano essere genericamente considerati come
riguardanti il diritto del lavoro, ma il collegamento sarebbe,
appunto, cosi generico che non si potrebbe configurare una violazione del
secondo per via della prima.
2.3. – In ogni caso, secondo la difesa dello Stato,
la questione non è fondata, perché la disciplina contenuta nel citato art. 16 non violerebbe alcuna delle norme costituzionali indicate
dal giudice rimettente e, tanto meno, l’art. 5, comma 2, dell’accordo quadro
allegato alla direttiva 97/81/CE.
2.3.1. – Il giudice a quo sarebbe, anzitutto, incorso in un
grave errore di diritto censurando la norma in questione per contrasto con
l’art. 10 Cost.
E ciò, in quanto l’art. 10 Cost. non si
riferisce al diritto internazionale tout court, bensì alle norme del
diritto internazionale generalmente riconosciute, mentre in questa sede non
verrebbe in rilievo una norma di diritto internazionale consuetudinario, ma una
direttiva, tra l’altro già debitamente recepita nell’ordinamento interno.
2.3.2. – Sarebbe, inoltre, palesemente infondato il
riferimento all’art. 5, punto 2, dell’accordo quadro
allegato alla direttiva 97/81/CE e all’art. 117 Cost., in base ad un
ragionamento più sistemico che, diversamente da quanto sostenuto dal giudice a
quo, dovrebbe condurre a
ritenere prevalente, in unʼottica di bilanciamento, l’interesse al
contenimento della spesa pubblica.
Innanzitutto, perché dopo l’inserimento del
principio del pareggio di bilancio in Costituzione tale valore è protetto
direttamente da essa, mentre il diritto alla conservazione del rapporto di
lavoro part-time è protetto
indirettamente dall’art. 117 Cost., in quanto obbligo
derivante dall’ordinamento comunitario. Il che potrebbe, già di per sé, far
supporre una superiorità del primo interesse nei confronti del secondo.
In secondo luogo, perché entrambi gli obblighi in
questione, e cioè quello della conservazione del rapporto part-time e quello del pareggio di bilancio, derivano da impegni
comunitari (salvo il fatto già menzionato della costituzionalizzazione del
secondo, ulteriormente deponente, come detto, a favore della sua preminenza),
per cui sarebbe utile cercare di ponderare i due valori dal punto di vista
dell’ordinamento europeo. In tale ottica, sostiene la difesa dello Stato,
essendo l’Unione europea soprattutto unione economica e monetaria che deriva
gran parte dei propri fondi da risorse erogate dai fondi degli Stati membri, il
pareggio di bilancio di essi non potrebbe che risultare
incomparabilmente prevalente rispetto alla tutela del lavoro part-time. Tanto è vero che il mancato
rispetto degli obblighi di bilancio, soprattutto da parte di Paesi importanti dentro
l’Unione come l’Italia, potrebbe portare all’uscita dalla moneta unica e
addirittura allo scioglimento dell’ordinamento dell’Unione. Dunque, nella prospettiva di un’analisi comparativa dei probabili
effetti economici del mancato rispetto dell’uno o dell’altro obbligo da parte
dell’Italia, la conclusione sarebbe che sono potenzialmente molto più pesanti
quelli derivanti dal mancato rispetto degli obblighi di bilancio.
Rileva, infine, la difesa dello Stato che la tutela
del lavoro part-time non mira a proteggere questo tipo di contratto come
tale, essendo, invece, diretta alla tutela del lavoro intesa come maggiore
occupazione. E chiosa che «siccome in nessun caso, le analisi teoriche possono
prescindere dal contesto storico di riferimento,
considerare la possibilità di poter lavorare di più come un disvalore e
addirittura come incostituzionale risulta alquanto singolare».
Considerato
in diritto
1. – Il Tribunale ordinario di Forlì
dubita, in relazione agli artt. 10, 35, terzo comma, e
117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale
dell’art. 16 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia
di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e
permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per lʼimpiego, di
incentivi allʼoccupazione, di apprendistato, di occupazione femminile,
nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro
pubblico e di controversie di lavoro), che consente alle amministrazioni
pubbliche, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della
medesima legge, di rivalutare, nel rispetto dei principi di correttezza e buona
fede, i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di
lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati nel regime previgente alla
novella di cui all’art. 73 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della
finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
Nel
regime precedente alla riforma del 2008, l’art. 1,
comma 558, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica), riconosceva ai lavoratori pubblici un vero e proprio diritto
potestativo alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale. L’amministrazione non poteva rifiutarlo se non in caso di conflitto di interessi con la specifica attività di servizio del
dipendente e, pur in presenza di grave pregiudizio alla funzionalità
dell’organizzazione, poteva solo differirlo per un periodo massimo semestrale,
giammai negarlo.
Successivamente, l’art. 73 del decreto-legge n. 112 del
2008, modificando il citato art. 1, comma 558, della legge n. 662 del 1996,
concedeva alla pubblica amministrazione la facoltà di valutare entro sessanta
giorni dalla domanda di part-time se
accoglierla o meno e, segnatamente, di ricusare la
trasformazione in tal senso del rapporto, non solo nel caso in cui l’attività
lavorativa (ulteriore) di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto
di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente, ma
anche tutte le volte che la trasformazione determini, in relazione alle
mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, un
pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa.
Ѐ, quindi, intervenuto l’art. 16 della legge n. 183 del 2010, che prevede la rivalutazione
ad iniziativa delle pubbliche amministrazioni dei rapporti di lavoro già
trasformati da full-time a part-time
alla stregua del disposto originario dell’art. 1, comma 558, della legge n. 662
del 1996.
In particolare, il giudice a quo sospetta la norma in questione d’illegittimità per contrasto
con il divieto di licenziamento del lavoratore che rifiuti la trasformazione
del rapporto, divieto sancito dalla clausola 5, punto
2, dell’accordo quadro 6 giugno 1997 allegato alla direttiva del Consiglio delle
Comunità europee 97/81 del 15 dicembre 1997 (Direttiva del Consiglio relativa
all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dallʼ'UNICE, dal CEEP e dalla CES), attuata
in Italia con il decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61 (Attuazione della direttiva 97/81/CE relativa all’accordo-quadro sul lavoro a
tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES), che ha
recepito detta specifica clausola sub
art. 5, comma 1.
Ad avviso del giudice rimettente, infatti,
l’anzidetta clausola dev’essere intesa nel senso che la trasformazione del
rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno (o
viceversa) non può mai avvenire senza il consenso del lavoratore. Donde l’inosservanza di essa da parte della disposizione interna
censurata, che ciò consentirebbe, invece, anche contro la sua volontà.
2. – Preliminarmente, dev’essere rigettata
l’eccezione d’inammissibilità proposta dalla difesa dello Stato sul presupposto
che la questione in esame sarebbe prematura ed
ipotetica. E ciò perché a suo dire sollevata sulla base della dedotta
incompatibilità della norma censurata con l’anzidetta disposizione della
direttiva che prevede l’illegittimità di un licenziamento, occasionato dal
rifiuto dei lavoratori di passare al full-time, allo stato soltanto eventuale ed
estraneo alla materia dei giudizi a quibus.
A ben vedere, invece, la disposizione europea che
vieta il licenziamento per il mero rifiuto della trasformazione del rapporto
opposto dal lavoratore è invocata dal rimettente solo
per dimostrare che tale trasformazione non possa essere attuata
unilateralmente, ma con il consenso necessario del lavoratore stesso. Con la
conseguenza che nell’ottica del giudice a quo una norma come quella in oggetto, permettendo
al datore di lavoro pubblico d’imporre alla controparte l’orario pieno,
sarebbe, già di per sé, contraria alla ratio
sottesa alla regola di derivazione comunitaria.
2.1. – Quanto, poi, alla pertinenza dei parametri
costituzionali richiamati, è pur vero che gli artt. 10 e 35,
terzo comma, Cost. isolatamente considerati, non si attagliano alla
dedotta violazione di una direttiva comunitaria. Il primo, perché si riferisce
alle norme di carattere consuetudinario (ordinanza n. 364
del 1989) e non è utilizzabile per le norme internazionali convenzionali
diverse da quelle di cui al secondo comma (sentenza n. 284 del
2007, punto n. 2 del Considerato in
diritto). Il secondo, perché la Comunità e l’Unione europea non sono riconducibili al novero delle organizzazioni
internazionali tout court, tanto meno
di quelle specificamente dirette all’affermazione o alla regolazione dei
diritti del lavoro.
Nondimeno, nella prospettazione del rimettente –
che, come visto, è tutta imperniata sulla lesione del principio della
modificazione consensuale del part-time
desunto dalla clausola 5, punto 2, della direttiva
97/81/CE – essi fanno corpo con il dedotto contrasto con l’art. 117, primo
comma, Cost. di cui sarebbe espressione la violazione della normativa europea
costituente il nucleo unificante della questione proposta dal Tribunale di
Forlì.
2.2. – Sotto altro profilo, la questione in esame è
ammissibile, perché il rimettente, ancorché stringatamente, ha
motivato circa l’impossibilità di disapplicare l’art. 16 della legge n.
183 del 2010, ancorché a suo parere in contrasto con una direttiva comunitaria
evidentemente non munita di efficacia diretta, ma ciò non significa che la
norma interna censurata «sia immune dal controllo di conformità al diritto
comunitario, che spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice può
sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione
dell’art. 11 ed oggi anche dell’art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 170 del
1984, n. 317
del 1986, n.
284 del 2007)» (sentenza n. 28 del
2010).
3. – Nel merito, la questione non è fondata.
3.1. – L’art. 16 della
legge n. 183 del 2010 riguarda la posizione dei dipendenti pubblici che avevano
ottenuto di passare da full-time a part-time ai sensi del dettato
originario dell’art. 1, comma 558, della legge n. 662 del 1996. Con tale
disposizione, infatti, si riconosceva in capo ai lavoratori un diritto
potestativo in tal senso. La norma censurata allinea la posizione predetta, con
una cautela che vuole limitato nel tempo l’intervento,
con quella dei lavoratori a tempo pieno aspiranti ad un rapporto a tempo parziale
alla stregua delle nuove regole introdotte dall’art. 73 del decreto-legge n.
112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 dello stesso
anno. In base a quest’ultima disposizione, infatti, il
soddisfacimento delle richieste di part-time
avanzate dai lavoratori pubblici non è più automatico, come in passato, ma è
subordinato alla mancanza di pregiudizio (verificata di volta in volta) per il
buon andamento dell’organizzazione.
La disposizione censurata consente, dunque, alle pubbliche
amministrazioni di rinnovare la valutazione – ancorché nel termine circoscritto
di centottanta giorni dalla data della sua entrata in vigore e, beninteso, nel
rispetto dei principi di correttezza e buona fede – dei “vecchi” provvedimenti
di concessione della trasformazione dei rapporti di lavoro da
tempo pieno a tempo parziale: quelli, cioè, obbligatoriamente adottati
prima della riforma del 2008 per effetto della soggezione del datore di lavoro
pubblico al diritto potestativo attribuito ai lavoratori dalla disciplina
previgente. In forza del censurato art. 16, la
riconferma di tali provvedimenti può essere negata nell’arco temporale di un
semestre. Solo, però, quando questi siano tali da arrecare alla funzionalità
dell’amministrazione un pregiudizio analogo a quello che preclude la
trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo
parziale secondo le nuove disposizioni. Quindi, non a caso,
dichiaratamente «in sede di prima applicazione» delle stesse. E ciò,
anche per ampliare le possibilità di accoglimento delle istanze
di trasformazione presentate dopo l’entrata in vigore della novella. Invero
esse sarebbero state maggiormente ridotte se le amministrazioni pubbliche non
avessero potuto mai più in alcun modo ricondurre al tempo pieno quei rapporti che,
sotto l’impero della normativa antecedente, erano state
vincolate a trasformare in part-time.
A ulteriore giustificazione
della maggiore rigidità dell’accesso al part-time
dei dipendenti pubblici full-time, rilevano, inoltre, gli
effetti sulla gestione dei vincoli di assunzione di nuovo personale. Vincoli
all’origine tanto della nuova disciplina più rigorosa sulla concessione del
regime ad orario ridotto, quanto di quella transitoria
in questione sui rapporti già in precedenza divenuti a tempo parziale su mera
richiesta dei dipendenti.
3.2. – La clausola 5, punto
2, dell’accordo quadro 6 giugno 1997 allegato alla direttiva 97/81/CE, prevede
che il rifiuto di un lavoratore di
essere trasferito da un lavoro a tempo pieno a uno a tempo parziale,
o viceversa, non deve, in quanto tale, costituire motivo valido per il
licenziamento (e tale precetto ha trovato attuazione nel diritto interno con
l’art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000). Tuttavia, la stessa disposizione
comunitaria precisa subito dopo che, in tale evenienza, il licenziamento è,
comunque, ammesso (conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle
prassi nazionali) per altre ragioni, segnatamente per quelle che possono risultare da «necessità di funzionamento dello stabilimento»
(assimilabili al giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della legge 15
luglio 1966, n. 604, recante «Norme sui licenziamenti individuali», ergo
alle ragioni organizzative della pubblica amministrazione).
Ciò vuol dire che il licenziamento è vietato solo
quando il rifiuto della trasformazione da parte del lavoratore costituisce la
sua ragione esclusiva e mancano motivi ulteriori
rispetto ai quali l’elemento della prestazione a tempo parziale venga in
rilievo solo di riflesso. In presenza, infatti, di effettive esigenze
organizzative, tecniche o produttive che impongano la trasformazione del
rapporto, l’indisponibilità del lavoratore al mutamento risulta
ingiustificata e può dare anche luogo, in casi estremi, al suo licenziamento.
In buona sostanza, il diritto europeo è
primariamente finalizzato a tutelare il lavoro part-time e a impedirne ogni forma di discriminazione, anche in
fase di trasformazione del rapporto. Nel contempo,
però, esso dà la necessaria rilevanza alle esigenze organizzative, tecniche o
produttive che possono imporre modifiche della posizione lavorativa ovvero del
regime temporale della prestazione. Solo in tali circostanze, il rifiuto
opposto dal lavoratore alla trasformazione del rapporto da
tempo parziale a tempo pieno può autorizzarne, al limite,
l’estromissione dal posto (sempreché sia da escludere qualunque possibilità di
mantenerlo in servizio part-time).
3.3. – Pertanto, alla luce di un’interpretazione
sistematica della normativa europea evocata dal rimettente (che, accanto alla
protezione del lavoratore dalla trasformazione unilaterale del proprio rapporto
ad iniziativa del datore di lavoro, prende pure in
considerazione le esigenze organizzative di quest’ultimo), la norma censurata,
rettamente inserita nello specifico contesto del diritto interno, non collide
con la direttiva 97/81/CE.
Diversamente da quanto opinato dal giudice a quo, infatti, il potere di
rivalutazione dei rapporti di lavoro part-time
a suo tempo concessi automaticamente, in applicazione della normativa
dell’epoca, non è arbitrario, né indiscriminato, ma saldamente ancorato alla
presenza obiettiva di verificabili esigenze di funzionalità dell’organizzazione
amministrativa e condizionato a modalità di esercizio scrupolosamente
rispettose dei canoni generali di correttezza e di buona fede. Ne sono
espressione, a titolo esemplificativo, la tutela delle peculiari situazioni
personali e familiari consolidatesi in capo ai singoli lavoratori, da valutarsi
in contraddittorio con gli stessi, il vaglio della fattibilità di soluzioni alternative
alla revoca del part-time,
la concessione di un congruo periodo di preavviso prima che la trasformazione
(ciò nonostante disposta) divenga operativa. In tal modo, i criteri di
correttezza e di buona fede cui le pubbliche amministrazioni devono attenersi
nell’esercizio della suddetta “rivalutazione” si prestano ad
esaltare, in una prospettiva costituzionalmente orientata di stampo
solidaristico, proprio la salvaguardia delle ragioni della controparte, senza
comportare un apprezzabile sacrificio.
In definitiva, il lavoratore non è assoggettato
incondizionatamente alle determinazioni unilaterali del datore di lavoro
pubblico ai fini della trasformazione del rapporto da part-time a full-time. L’iniziativa dell’amministrazione, infatti, dev’essere
sorretta da serie ragioni organizzative e gestionali ed
attuata nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede. In
mancanza di tali presupposti, il dipendente può legittimamente rifiutare di
passare al tempo pieno e, per ciò solo, non può mai essere licenziato. Così
interpretata, la possibilità di “revisione” del part-time riconosciuta alle pubbliche
amministrazioni dall’art. 16 della legge n. 183 del 2010 (oltre tutto contenuta
entro limiti stringenti di tempo) è da ritenere perfettamente compatibile con i
principi desumibili dall’invocata clausola 5, punto 2, della direttiva
97/81/CE, donde la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale
sollevata, con la interposizione di detta clausola, in relazione al rispetto
dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
Per questi motivi
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 16 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per lʼimpiego, di incentivi allʼoccupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), sollevata, in relazione agli articoli 10, 35, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Forlì con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
16 luglio 2013.
F.to:
Luigi MAZZELLA, Redattore
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