Sentenza n. 184 del 2013

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SENTENZA N. 184

ANNO 2013

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Franco                    GALLO                                               Presidente

-    Luigi                      MAZZELLA                                          Giudice

-    Gaetano                 SILVESTRI                                                ”

-    Sabino                    CASSESE                                                   ”

-    Giuseppe                TESAURO                                                  ”

-    Paolo Maria            NAPOLITANO                                          ”

-    Giuseppe                FRIGO                                                        ”

-    Alessandro             CRISCUOLO                                             ”

-    Paolo                      GROSSI                                                      ”

-    Giorgio                   LATTANZI                                                 ”

-    Aldo                       CAROSI                                                     ”

-    Marta                     CARTABIA                                                ”

-    Sergio                     MATTARELLA                                         ”

-    Mario Rosario        MORELLI                                                  ”

-    Giancarlo               CORAGGIO                                               ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promosso dal Tribunale ordinario di Milano, sezione fallimentare, nel procedimento relativo alla Società VZM S.p.a. in liquidazione, con ordinanza del 31 maggio 2012, iscritta al n. 35 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto in fatto

1.− La sezione fallimentare del Tribunale ordinario di Milano, con ordinanza depositata in 31 maggio 2012, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui, nel sostituire l’art. 6 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa) [d’ora in poi: legge fall.], ha espunto la previsione secondo la quale il fallimento poteva essere dichiarato – oltre che a richiesta (ora su ricorso) del debitore, su ricorso di uno o più creditori, su istanza (ora su richiesta) del pubblico ministero – «d’ufficio».

Riferisce il rimettente di trovarsi ad esaminare una istanza di fallimento presentata dai componenti effettivi del collegio sindacale di una società per azioni posta in liquidazione.

Poiché costoro, nella inerzia del commissario liquidatore – peraltro dimissionario, ma non ancora sostituito – ritengono di potersi surrogare al primo, a fronte della situazione di dissesto finanziario in cui versa la predetta compagine societaria, hanno presentato ricorso per la dichiarazione di fallimento della società in questione.

Preliminarmente, il rimettente qualifica la domanda come istanza di fallimento in proprio, in quanto presentata dal collegio sindacale in surroga dei poteri del commissario liquidatore, attuale legale rappresentante della società fallenda.

Ritiene, tuttavia, il rimettente che siffatta potestà rappresentativa eccezionale non sussista in capo all’istante, essendo invece, sino al momento della sua effettiva sostituzione, legale rappresentante della società in liquidazione esclusivamente il commissario liquidatore, eventualmente anche in regime di prorogatio, spettando semmai al collegio sindacale, a fronte dell’eventuale inerzia degli organi rappresentativi, solo il potere di convocare l’assemblea dei soci, ma non quello di sostituirsi nelle scelte gestionali agli organi in questione.

1.1.− L’istanza di fallimento de qua dovrebbe, pertanto, essere dichiarata inammissibile; tuttavia, rileva il rimettente, ove fosse tuttora in vigore l’originario testo dell’art. 6 legge fall., a fronte della comprovata situazione di insolvenza del fallendo, l’istanza, proveniente da soggetto non legittimato, poteva essere considerata quale esposto volto ad attivare il potere del Tribunale fallimentare di dichiarare ex officio il fallimento.

Tale potere, però – prosegue il giudice a quo −, è stato “sottratto” al tribunale fallimentare a seguito della entrata in vigore dell’art. 4 del decreto legislativo n. 5 del 2006, in quanto il nuovo testo dell’art. 6 legge fall., come sostituito dalla disposizione censurata, non lo prevede più.

Ritiene, tuttavia, il Tribunale che tale espunzione esuli dai principi e criteri direttivi contenuti nell’art. 1, comma 6, della delega legislativa conferita al Governo con la legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), in quanto, pur interpretando nella maniera più estensiva possibile tali principi e criteri, non sarebbe consentito, come peraltro già segnalato dalla dottrina, individuare un qualsiasi riferimento alla possibilità di rimuovere il potere del Tribunale di dichiarare il fallimento d’ufficio.

Ad avviso del rimettente, la nuova disciplina non avrebbe neppure l’effetto di rendere più efficiente o celere la procedura e, pertanto, la stessa non sarebbe giustificata dalla necessità di coordinamento con altre disposizioni vigenti: non con disposizioni di rango costituzionale, avendo la Corte costituzionale, nello scrutinare il vecchio testo dell’art. 6 legge fall., escluso che l’attribuzione al Tribunale del potere de quo violasse la Costituzione; non con le norme di rango ordinario sulla disciplina delle procedure concorsuali, sia per la, generalmente riconosciuta, scarsa sistematicità di queste, sia perché l’unico principio a tal fine richiamabile – quello del parziale ridimensionamento del ruolo dell’Autorità giudiziaria nelle procedure in questione – non avrebbe dovuto comportare una generalizzata riduzione dei poteri di questa in tutti i casi in cui, in precedenza, essa li svolgeva.

Ciò tanto più se si osservi – argomenta il Tribunale − che, ad esempio, in tema di amministrazione straordinaria – la cui disciplina prevede tuttora un intenso potere d’intervento dell’autorità amministrativa – è ancora previsto il potere del Tribunale di dichiarare lo stato di insolvenza. In tal senso assumerebbe particolare rilievo che nelle procedure di amministrazione straordinaria riservate alle imprese di maggiori dimensioni il potere di aprire la procedura spetti proprio all’organo amministrativo che ad essa presiede, a comprova del fatto che non vi è contraddizione fra il potere di apertura della procedura e la sua gestione.

1.2.− Mancherebbe, perciò, una esplicita previsione legittimante l’intervento del legislatore delegato.

Né varrebbe obiettare, a parere del rimettente, che il potere di iniziativa in materia fallimentare, sottratto al Tribunale, è comunque restato in capo al pubblico ministero; verrebbe, infatti, in discussione non il merito della scelta discrezionale di attribuire al pubblico ministero siffatta iniziativa, ma solo la legittimità formale di una decisione assunta dal legislatore delegato senza averne il potere.

1.3.− Il Tribunale di Milano solleva, pertanto, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo n. 5 del 2006, ritenendolo in contrasto con l’art. 77 Cost. e col «tenore letterale e logico della legge delega».

2.− È intervenuto nel giudizio, col patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

2.1.− Ad avviso dell’Avvocatura, l’inammissibilità della questione, per difetto di rilevanza, deriva dall’orientamento giurisprudenziale, ora prevalente, secondo il quale, ove il giudice fallimentare, come ogni altro giudice civile, rilevi lo stato di dissesto dell’imprenditore, ne deve fare segnalazione al pubblico ministero, il quale deve presentare istanza per la dichiarazione di fallimento.

Rileva, pertanto, l’interveniente difesa che, attraverso il descritto meccanismo, frutto dell’applicazione degli artt. 6 e 7 legge fall., il potere di attivare ex officio la procedura fallimentare non è stato sottratto al giudice fallimentare, ma esso deve essere esercitato attraverso l’intervento, comunque vincolato, del pubblico ministero.

Pertanto, come segnalato dall’Avvocatura, l’esito del giudizio a quo non dovrebbe essere la semplice dichiarazione di inammissibililità dell’istanza di fallimento presentata dai componenti il collegio sindacale della società fallenda, ma, ricorrendone –  come dichiarato dal Tribunale rimettente – tutti gli altri presupposti, la segnalazione della situazione al pubblico ministero affinché questi presenti l’istanza di fallimento.

2.2.− Secondo la difesa erariale, l’ordinanza di rimessione presenterebbe anche un ulteriore profilo di inammissibilità; infatti, pur richiamando quale unico parametro di legittimità costituzionale violato l’art. 77 Cost., essa non solleva la questione sulla base di una presunta “assenza di delega”, invocando, invece, un vizio di “eccesso di delega” che avrebbe richiesto, ove fosse stato indicato, quale parametro di giudizio, anche l’art. 76 Cost.

Con riferimento all’unico parametro espressamente evocato, la questione sarebbe infondata, in quanto la modifica normativa disposta con la norma censurata rientrerebbe nell’alveo della delega di cui alla legge n. 80 del 2005.

Infatti, posto che l’oggetto dell’intervento legislativo delegato riguarda la «riforma organica delle procedure concorsuali», non può certamente sostenersi che la modifica all’art. 6 legge fall. sia stata adottata in assenza di delega. Prosegue la parte pubblica sostenendo che, al massimo, si sarebbe potuto dubitare di un eccesso di delega, peraltro non riscontrabile in concreto, ma ciò avrebbe comportato la evocazione del parametro costituito dall’art. 76 Cost.

2.3.− L’Avvocatura aggiunge che, ove non si volesse accedere alla dichiarazione di inammissibilità per non essere stato specificamente evocato il suddetto parametro, l’indagine relativa alla sussistenza del vizio ora citato condurrebbe ad una pronunzia di infondatezza.

Infatti, ricordata la giurisprudenza della Corte in tema di violazione dell’art. 76 Cost., in base alla quale è necessario svolgere due processi ermeneutici paralleli, l’uno volto ad accertare l’ampiezza della delega, l’altro a verificare se la norma delegata è ricompresa in tale ampiezza, l’interveniente precisa che l’attuazione della delega consente, secondo la giurisprudenza costituzionale, al legislatore delegato di fare uso di un certo margine di discrezionalità, ove ciò serva a sviluppare e completare i termini della delega conferita.

Trasferendo tali principi al caso in esame risulterebbe, ad avviso dell’Avvocatura, che l’attuazione delle delega legislativa de qua prevedrebbe non solo il rispetto dei principi e dei criteri direttivi elencati al comma 6 dell’art. 1 della legge n. 80 del 2005, ma, più ampiamente, l’esercizio di un’opera di riforma organica del sistema delle procedure concorsuali intesa a realizzarne, fra l’altro, il «necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti», presupponendosi con ciò non solo la possibilità di una complessiva revisione «volta a rimodellare dalle fondamenta una disciplina adottata in tempi risalenti», ma anche la possibilità di intervenire al di là di principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delega, ove ciò contribuisca a dettare una disciplina coordinata col sistema giuridico vigente.

Ciò posto, la difesa dello Stato rileva che, non essendo denunciata la violazione dei criteri di delega, è evidente che nella prospettazione del rimettente non è ipotizzato alcun contrasto fra principi applicati e criteri dettati, ma, semmai, solo la “eccedenza” dei primi rispetto ai secondi. Tuttavia, prosegue l’Avvocatura dello Stato, neppure questa è ravvisabile, in quanto la mitigazione del potere del Tribunale di promuovere autonomamente la procedura fallimentare deve essere vista nell’ottica sia del coordinamento della disciplina in questione con generale principio processuale per cui ne procedat iudex ex officio sia del parziale ridimensionamento del ruolo dell’autorità giudiziaria nella procedura fallimentare.

Soggiunge, ancora, la difesa erariale che, sebbene la Corte costituzionale con la sentenza n. 240 del 2003 abbia escluso che il potere del tribunale fallimentare di aprire motu proprio la procedura violasse il principio di terzietà ed imparzialità del giudice, tuttavia non può negarsi che attraverso la rimozione di tale potere si realizza la legittima opera di coordinamento della normativa in esame con quella restante.

D’altra parte, anche nella citata sentenza n. 240 si attribuiva alla discrezionalità del legislatore la scelta fra il riconoscimento al giudice del potere officioso di attivare la procedura e quello di riferire l’esistenza dello stato di insolvenza ad altro organo che, a sua volta, promuova la procedura.

Anche sotto il descritto profilo, pertanto, la questione sarebbe infondata.

Considerato in diritto

1.− Il Tribunale ordinario di Milano, sezione fallimentare, dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui, nel sostituire l’art. 6 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa) [d’ora in poi: legge fall.], ha espunto la previsione secondo la quale il fallimento poteva essere dichiarato – oltre che su ricorso del debitore o di uno o più creditori ovvero su richiesta del pubblico ministero – «d’ufficio».

1.1.− Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione in tal modo introdotta dal legislatore delegato, non trovando fondamento nei principi e criteri direttivi contenuti nell’art. 1, commi 5 e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), e tantomeno nelle esigenze di coordinamento della disciplina delle procedure concorsuali con altre disposizioni vigenti, di rango sia costituzionale, sia ordinario, si porrebbe in contrasto con l’art. 77 della Costituzione nonché col tenore letterale e logico della legge di delega.

2.− L’interveniente Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sotto il profilo sia dell’inidoneità del parametro evocato, sia del difetto di rilevanza. Tali eccezioni non sono fondate.

2.1.− Quanto ai parametri di costituzionalità in base ai quali esaminare le censure prospettate dal Tribunale rimettente, ritiene questa Corte che, al di là della espressa evocazione del solo art. 77 Cost. – alla luce del quale, secondo quanto ritenuto dall’Avvocatura, lo scrutinio di legittimità costituzionale andrebbe operato esclusivamente sulla base dell’assenza di delega e non anche sulla base dell’eccesso di delega, indagine quest’ultima che avrebbe richiesto l’evocazione anche dell’art. 76 Cost. – il rimettente abbia adeguatamente chiarito nella motivazione della propria ordinanza la sua intenzione di evocare quale parametro di costituzionalità anche l’art. 76 Cost., laddove osserva che il legislatore delegato avrebbe travalicato i limiti a lui imposti dalla legge di delega riguardo alla riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali ed al coordinamento di essa con le altre disposizioni vigenti (per un caso analogo, sentenza n. 272 del 2012).

È, pertanto, alla luce di ambedue gli indicati parametri che la questione di legittimità costituzionale deve essere esaminata.

2.2.− La difesa pubblica contesta altresì l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Milano, affermando che la stessa non sarebbe rilevante nel giudizio a quo; ciò in quanto questo non dovrebbe essere definito con la dichiarazione di inammissibilità della istanza di fallimento presentata dai componenti del collegio sindacale della società fallenda, ma dovrebbe proseguire con la segnalazione dell’insolvenza della predetta società da parte del Tribunale rimettente al competente ufficio del pubblico ministero, secondo quanto previsto dal testo novellato dell’art. 7, numero 2), legge fall.

Anche tale eccezione va disattesa, perché, a prescindere dall’assunto dell’Avvocatura dell’obbligo per il Tribunale di segnalare l’insolvenza al pubblico ministero, ciò che rileva è che il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale della norma, sotto il profilo esclusivamente formale della violazione dei limiti imposti dagli artt. 76 e 77 Cost. alla funzione nomopoietica del legislatore delegato.

Ciò che rileva, pertanto, è che la disposizione legislativa censurata ha inibito al rimettente l’esercizio di un potere processuale, precedentemente a lui spettante e di cui egli, evidentemente, avrebbe inteso fare uso nel giudizio a quo. In ciò, pertanto, si radica la rilevanza della questione sollevata.

3.− Nel merito, la questione non è fondata.

3.1.− Va premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ove sia necessario verificare la conformità della norma delegata alla norma delegante, è richiesto lo svolgimento di un duplice processo ermeneutico, condotto in parallelo: l’uno, concernente la norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro, relativo alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi.

Nel determinare il contenuto della delega si deve tenere conto «del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i relativi principi e criteri direttivi», nonché le «finalità che la ispirano, che costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata» (sentenza n. 272 del 2012).

Deve, altresì, considerarsi che «la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato» (sentenza n. 98 del 2003); questa può essere «più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega. Pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali […] margini di discrezionalità occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente» (sentenza n. 98 del 2003).

Infine, per quanto qui interessa, è stato, anche, precisato che «i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega» (sentenza n. 341 del 2007).

3.2.− In base a tale giurisprudenza, va osservato, con riferimento al caso in esame, che il legislatore delegante, nell’attribuire al Governo il compito di procedere, attraverso la adozione di uno o più decreti legislativi, alla «riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267», aveva previsto, quale compito del legislatore delegato, quello, fra gli altri, di realizzare «il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti».

3.3.− Il nostro ordinamento processuale civile è, sia pure in linea tendenziale e non senza qualche eccezione, ispirato dal principio ne procedat judex ex officio (sentenza n. 123 del 1970), così da escludere che in capo all’organo giudicante siano allocati anche significativi poteri di impulso processuale.

Sebbene più volte la Corte abbia chiarito che, in particolari e transitorie ipotesi, siffatta allocazione non può considerarsi di per sé violativa di parametri costituzionali (sentenze n. 148 del 1996 e n. 46 del 1995), non può, tuttavia, disconoscersi che, nonostante ciò non costituisca una necessità finalizzata ad assicurarne la congruità costituzionale, risponde ad un criterio di coerenza interno al sistema rimuovere le ipotesi normative che si contrappongano al ricordato principio tendenziale.

In questo modo, infatti, ha operato il legislatore delegato in materia di procedure concorsuali, provvedendo sia a modificare l’art. 6 legge fall., rimuovendo la possibilità che il fallimento fosse dichiarato d’ufficio, sia, in occasione dell’adozione dei successivi decreti correttivi, ad espungere dal testo della legge fallimentare le residue fattispecie nelle quali la dichiarazione di fallimento interveniva in assenza di un’istanza proveniente da soggetto diverso dall’organo decidente. In particolare, ci si riferisce al decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80).

3.4.− Non vi è dubbio che, così operando, il legislatore delegato, lungi dal violare la delega a lui conferita, ha, viceversa, dato attuazione al precetto affidatogli di procedere al coordinamento della disciplina delle procedure concorsuali con uno dei principi del nostro sistema processuale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Milano, sezione fallimentare, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.

F.to:

Franco GALLO, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 9 luglio 2013.