SENTENZA N. 390
ANNO 2007
Commenti alla decisione di
I. Nicolò Zanon, Il
regime delle intercettazioni “indirette” e “occasionali” fra principio di
parità di trattamento davanti alla giurisdizione e tutela della funzione
parlamentare (per gentile
concessione della Rivista telematica federalismi.it)
II. Tommaso F. Giupponi, Le
intercettazioni “indirette” nei confronti dei parlamentari e la legge n.
140/2003: cronaca di un’illegittimità costituzionale (pre)annunciata
(per gentile concessione
del Forum
dei Quaderni Costituzionali)
III. Francesco Chiaia, Utilizzabilità
delle intercettazioni di comunicazioni. Il riequilibrio nel sistema
procedimentale penale operato dalla sentenza n. 390 del 2007 (per gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali)
IV. Tiziana Fortuna, Le
intercettazioni ‘indirette’ e l’interlocutore ‘abituale’: tutela della funzione
parlamentare o guarentigie ‘speciali’? (per gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali)
V. Glauco Giostra, La disciplina delle intercettazioni
fortuite del parlamentare è ormai una dead rule walking, (per gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali)
VI. Giuseppe Maralfa, Le intercettazioni
relative a conversazioni o comunicazioni
dei membri del Parlamento, anche in forma indiretta o casuale, dopo la
sentenza della Corte Costituzionale 19/11/2007, n. 390, (per gentile
concessione della Rivista telematica neldiritto.it)
VII. Andrea La
Spada, Intercettazioni
“indirette”: consentita l’utilizzabilità nei soli confronti dei soggetti terzi,
(per gentile concessione della Rivista telematica Forum
dei Quaderni Costituzionali)
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’articolo 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003 n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68
della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle
alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 9 gennaio 2006 dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino nel procedimento
penale a carico di M.U.G. ed altri, iscritta al n. 108 del registro ordinanze
2006 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visto l’atto di intervento del presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Con l’ordinanza indicata in
epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20
giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per
l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi
penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui
prevede che – ove
Il rimettente riferisce che, nel
procedimento a quo, il pubblico
ministero aveva fatto istanza, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge n.
140 del 2003, affinché fosse richiesta alla Camera dei deputati
l’autorizzazione all’utilizzazione di alcune conversazioni telefoniche,
intercettate su utenze in uso a terzi, alle quali aveva preso parte un membro
di detta Camera, iscritto nel registro delle notizie di reato per fatti di
turbativa d’asta aggravata in concorso.
I difensori del parlamentare si erano
opposti alla richiesta, osservando che il citato art. 6 concerneva – per
espressa previsione del comma 1 – le intercettazioni di conversazioni di membri
del Parlamento eseguite nel corso di procedimenti «riguardanti terzi»: ipotesi,
questa, che non ricorreva nella specie, essendo il parlamentare indagato nel
medesimo procedimento. I medesimi difensori avevano quindi prospettato al
giudice a quo la seguente
alternativa: o ritenere applicabile l’art. 4 della legge n. 140 del 2003 (che
richiede l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza al fine di
eseguire intercettazioni nei confronti di un membro del Parlamento),
dichiarando di conseguenza inutilizzabili le conversazioni telefoniche; ovvero
sollevare questione di legittimità costituzionale dei citati artt. 4 e 6, nella
parte in cui – non disciplinando espressamente il caso in esame – sembrerebbero
consentire all’autorità inquirente di intercettare «indirettamente» (ossia
tramite utenze in uso a terzi) il parlamentare indagato, rimettendo
successivamente all’autorità giudiziaria la scelta se utilizzare le
conversazioni intercettate senza alcuna autorizzazione, ovvero se chiedere una
autorizzazione «postuma», in applicazione analogica dell’art. 6, comma 2. Ad
avviso della difesa, anche questa seconda opzione interpretativa sarebbe stata
irragionevole e non rispettosa della garanzia prevista dell’art. 68, terzo
comma, Cost., il quale fa riferimento alle intercettazioni, «in qualsiasi forma,
di conversazioni o comunicazioni»: e, dunque – secondo l’assunto difensivo –
anche alle intercettazioni «indirette» del parlamentare, eseguite nell’ambito
del procedimento in cui risulta indagato.
Il giudice a quo dichiarava manifestamente infondata l’eccezione di
legittimità costituzionale sollevata dalla difesa, ritenendo che la norma
applicabile nel caso di specie fosse proprio l’art. 6 della legge n. 140 del
2003, e non l’art. 4, che disciplina le intercettazioni su utenze in uso al
parlamentare. Di conseguenza, richiedeva l’autorizzazione all’utilizzazione
delle intercettazioni alla Camera dei deputati, la quale, con delibera assunta
nella seduta del 20 dicembre 2005, la negava.
Ciò premesso, il rimettente osserva
come – a fronte del diniego della Camera – l’art. 6, comma 5, della legge n.
140 del 2003 imporrebbe l’immediata distruzione della documentazione relativa
alle intercettazioni telefoniche delle conversazioni cui ha preso parte il
parlamentare. Prima di dar corso alla distruzione, il giudice a quo ritiene, tuttavia, di dover
sollevare questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei
commi 2, 5 e 6 del citato art. 6.
Al riguardo, il rimettente muove
dall’assunto che la disciplina complessiva, risultante dalla norma impugnata, si
sarebbe spinta «ben oltre il raggio di operatività delle guarentigie
parlamentari, previste dall’art. 68 Cost.». Tali guarentigie atterrebbero,
infatti, unicamente alle intercettazioni «dirette» delle conversazioni dei
parlamentari: non potendosi far leva, in contrario, sulla locuzione «in
qualsiasi forma», impiegata nel terzo comma dello stesso art. 68 Cost., la
quale si riferirebbe non già alle intercettazioni «indirette» od «occasionali»,
ma soltanto alle differenti modalità con le quali la captazione delle
conversazioni può avvenire ed ai diversi mezzi di comunicazione intercettati.
Occorrerebbe, di conseguenza, stabilire se l’estensione della guarentigia, ad
opera del legislatore ordinario, anche alle conversazioni e comunicazioni
contemplate dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 esponga la disciplina
adottata a censure di illegittimità costituzionale.
A tale interrogativo il rimettente
risponde in senso affermativo, assumendo che le previsioni normative censurate
risulterebbero lesive, anzitutto, del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.),
sotto lo specifico profilo della parità di trattamento rispetto alla
giurisdizione. In rapporto a tale principio – il quale si colloca alle origini
della formazione dello Stato di diritto – il sistema delle immunità e delle
prerogative dei membri del Parlamento potrebbe, difatti, venire in rilievo solo
come eccezione e valere unicamente per i casi espressamente considerati, in
quanto ritenuti dal Costituente idonei ad interferire sulla libera esplicazione
della funzione parlamentare.
L’esigenza di preservare la funzione
parlamentare da indebite interferenze o condizionamenti, tuttavia, non
giustificherebbe affatto la distruzione della documentazione delle
intercettazioni «indirette» od «occasionali», prevista dal comma 5 dell’art. 6
della legge n. 140 del 2003. Detta distruzione – come pure l’inutilizzabilità
dei verbali, delle registrazioni e dei tabulati di comunicazioni acquisiti in
violazione del disposto dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003, prevista dal comma
6 del medesimo articolo – non avrebbe, infatti, nulla «a che vedere» con la
libera esplicazione delle funzioni parlamentari: discutendosi, da un lato, di
intercettazioni eseguite su utenze o presso luoghi non in uso a membri del
Parlamento; e, dall’altro lato, di conversazioni la cui utilizzabilità
processuale nei confronti del parlamentare risulta comunque preclusa dalla
mancata autorizzazione della Camera di appartenenza. La prevista distruzione
della documentazione si spiegherebbe, pertanto, unicamente con l’intento di
tutelare «oltre modo» la riservatezza delle comunicazioni del parlamentare, con
ingiustificata subordinazione a questa del principio di eguaglianza.
La disciplina censurata
determinerebbe, in tale ottica, una irragionevole disparità di trattamento fra
gli indagati, a seconda che tra i loro «interlocutori occasionali» vi sia stato
o meno un membro del Parlamento (sia esso, o no, indagato per lo stesso reato).
Infatti – in caso di diniego dell’autorizzazione, da parte della Camera di appartenenza
– le conversazioni in questione, benché legittimamente acquisite dall’autorità
giudiziaria, dovrebbero essere immediatamente distrutte, anziché rimanere
inutilizzabili soltanto nei confronti del parlamentare indagato; con la
conseguenza che la tutela delle prerogative parlamentari finirebbe per tornare
a vantaggio anche degli indagati non parlamentari.
In secondo luogo, ad avviso del
rimettente, risulterebbe leso l’art. 24 Cost., giacché la distruzione immediata
della documentazione – con conseguente perdita irrimediabile delle
conversazioni intercettate – potrebbe penalizzare o compromettere il diritto di
difesa degli indagati o di altre parti (prima fra tutte, la persona offesa).
Da ultimo, la disciplina denunciata
si rivelerebbe incompatibile con l’art. 112 Cost., giacché l’obbligo del
pubblico ministero di esercitare l’azione penale resterebbe inevitabilmente
compresso o escluso dalla impossibilità di utilizzare le conversazioni in
parola, allorché queste costituiscano elemento di prova rilevante nei confronti
di indagati che non beneficiano delle guarentigie di cui all’art. 68 Cost.
2. – È intervenuto nel giudizio di
costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile.
Ad avviso della difesa erariale,
l’avvenuta richiesta di autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni
ed il diniego della stessa ad opera della Camera dei deputati non
consentirebbero di denunciare la pretesa violazione del principio di
obbligatorietà dell’azione penale tramite questione incidentale di legittimità
costituzionale: dovendo detta denuncia essere proposta sollevando conflitto di
attribuzioni tra poteri dello Stato. Solo con tale strumento, infatti, sarebbe
possibile sindacare il merito della determinazione parlamentare: mentre
un’ipotetica censura riguardante l’obbligo di richiedere l’autorizzazione
avrebbe dovuto essere formulata prima di ottemperare a tale obbligo,
diversamente da quanto è accaduto nel giudizio a quo.
Parimenti inammissibili
risulterebbero le residue censure, riferite agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto
– una volta determinatasi l’inutilizzabilità delle intercettazioni – l’obbligo
di distruzione resterebbe irrilevante nel giudizio principale.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e
112 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2,
5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140, nella parte in cui stabilisce che – nel caso di diniego
dell’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» o
«casuali» di conversazioni, cui ha preso parte un membro del Parlamento – la
relativa documentazione debba essere immediatamente distrutta; e che i verbali,
le registrazioni e i tabulati di comunicazioni, acquisiti in violazione del
disposto dello stesso art. 6, debbano essere dichiarati inutilizzabili in ogni
stato e grado del procedimento, anziché limitarsi a prevedere
l’inutilizzabilità della predetta documentazione nei confronti del solo
parlamentare indagato.
Ad avviso del rimettente, la
disciplina delle intercettazioni «indirette» o «casuali» dei parlamentari,
delineata dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, esorbiterebbe dai limiti
della garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., la quale atterrebbe
alle sole intercettazioni «dirette». Nella sua concreta configurazione, detta
disciplina verrebbe quindi a ledere l’art. 3 Cost., con riguardo al basilare
principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione. L’esigenza di
preservare la funzione parlamentare da indebite interferenze o condizionamenti
– che ispira il sistema delle immunità e delle prerogative dei membri del
Parlamento – non giustificherebbe, difatti, le previsioni oggetto di censura: e
ciò perché si discute di intercettazioni che non incidono sulla predetta
funzione, in quanto sono state eseguite su utenze o presso luoghi non in uso al
parlamentare e la loro utilizzabilità processuale nei confronti di quest’ultimo
resta comunque preclusa dalla mancata autorizzazione della Camera di
appartenenza.
Le disposizioni denunciate
tutelerebbero, piuttosto, il diverso interesse alla riservatezza delle
comunicazioni del parlamentare, subordinando ingiustificatamente ad esso il
principio di eguaglianza. In conseguenza delle previsioni normative in
questione si determinerebbe, infatti, per un verso, una irragionevole disparità
di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i loro «interlocutori
occasionali» vi sia o meno un membro del Parlamento; e, per un altro verso,
l’estensione di fatto delle prerogative parlamentari a soggetti privi di tale
qualifica.
Risulterebbe leso, altresì, l’art. 24
Cost., giacché la distruzione immediata della documentazione – con la perdita
definitiva delle conversazioni intercettate – rischierebbe di penalizzare il
diritto di difesa degli indagati o di altre parti (tra cui, anzitutto, la
persona offesa); nonché l’art. 112 Cost., in quanto l’impossibilità di utilizzare
le intercettazioni – quando costituiscano elemento di prova nei confronti di
indagati che non beneficiano delle guarentigie di cui all’art. 68 Cost. –
comprimerebbe l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale.
2. – In via preliminare,
l’interpretazione della norma censurata, sulla cui base il rimettente afferma
la rilevanza della questione nel procedimento a quo, non può ritenersi implausibile.
Il problema ermeneutico trae origine
dall’apparente discrasia tra i campi di applicazione degli artt. 4 e 6 della
legge n. 140 del 2003. La prima delle due disposizioni regola l’ipotesi in cui
occorra «eseguire» intercettazioni «nei confronti» di un membro del Parlamento
(cosiddette intercettazioni «dirette»); e prevede che, a tal fine, l’«autorità
competente» debba richiedere l’autorizzazione della Camera cui il parlamentare
appartiene, in assenza della quale l’atto è ineseguibile. Si tratta, dunque, di
una autorizzazione a carattere preventivo, concernente i casi nei quali il
parlamentare si presenta – non necessariamente in quanto indagato, ma anche
(per diffuso convincimento) quale persona offesa o informata sui fatti – come
il destinatario dell’atto investigativo.
Invece – come si desume dalla
clausola di riserva iniziale («fuori delle ipotesi previste dall’articolo 4») –
l’art. 6 attiene ai casi in cui le comunicazioni dell’esponente politico
vengano intercettate fortuitamente, nell’ambito di operazioni che hanno come
destinatarie terze persone (cosiddette intercettazioni «indirette» o «casuali»).
In tale evenienza, il giudice per le indagini preliminari, se ravvisa la
necessità di far uso del materiale probatorio (comma 2) – dovendo, per contro,
essere distrutte le intercettazioni irrilevanti, per ordine del giudice stesso,
«a tutela della riservatezza» (comma 1) – deve richiedere un’autorizzazione
successiva alla Camera cui il parlamentare appartiene o apparteneva al momento
dell’intercettazione (si veda, sul punto, l’ordinanza n. 389
del 2007): un’autorizzazione la quale condiziona, cioè, non l’esecuzione
dell’atto (ormai avvenuta), ma l’utilizzazione processuale dei suoi risultati.
Qualora l’assenso sia negato, la documentazione delle intercettazioni va
distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dalla
comunicazione del diniego (comma 5); inoltre, i verbali e le registrazioni
delle comunicazioni, acquisiti in violazione dello stesso art. 6 (e,
segnatamente, in difetto di autorizzazione), sono dichiarati inutilizzabili dal
giudice, in ogni stato e grado del processo (comma 6).
In base al disposto del comma 1,
peraltro, presupposto di operatività della disciplina ora descritta è che
l’intercettazione occasionale del deputato o del senatore avvenga «nel corso di
procedimenti riguardanti terzi»: donde il dubbio circa il regime applicabile
allorché la captazione fortuita abbia luogo in procedimenti che – come quello a quo – coinvolgano lo stesso
parlamentare, unitamente ad altri soggetti. Ad avviso del rimettente, simili
intercettazioni rimarrebbero egualmente soggette alla disciplina dell’art. 6,
stante il carattere residuale che la stessa assume, negli intenti del
legislatore, rispetto alla previsione dell’art. 4, di per sé non riferibile
alle captazioni considerate (lex minus dixit quam voluit). Questa lettura non è implausibile: non solo
perché conforme alla corrente prassi parlamentare in tema di autorizzazioni e
recepita, altresì, dalla giurisprudenza di legittimità; ma, anche e
soprattutto, in considerazione della oggettiva problematicità delle possibili
alternative esegetiche.
Il rilievo vale, innanzitutto, per
l’opinione secondo cui la fattispecie in discorso non ricadrebbe nell’orbita
applicativa dell’art. 6, ma in quella dell’art.
A sua volta, la tesi alternativa,
secondo la quale l’ipotesi de qua non
sarebbe regolata dalla legge – non essendo riconducibile né alla previsione
dell’art. 4 né a quella dell’art. 6 – oltre a risultare, primo visu, contraria all’intentio del legislatore della legge n.
140 del 2003 (di ampia protezione delle comunicazioni del parlamentare),
determinerebbe una sperequazione palesemente irragionevole. In tale
prospettiva, infatti, il parlamentare sarebbe tutelato esclusivamente rispetto
alle intercettazioni occasionali effettuate in procedimenti che riguardino solo
terzi; mentre resterebbe sfornito di garanzia nei confronti delle
intercettazioni occasionali eseguite in procedimenti che riguardino anche lui
stesso: intercettazioni i cui risultati, pertanto, potrebbero essere utilizzati
senza necessità di alcuna autorizzazione.
3. – Sotto diverso profilo, va
rilevato come il giudice a quo – che
ha sollevato la questione dopo aver chiesto, con esito negativo,
l’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» ai sensi
dell’art. 6 – non censuri, con l’incidente di costituzionalità, la previsione
dell’obbligo di richiedere detta autorizzazione (allorché l’indagine coinvolga
anche il parlamentare), ma soltanto la regolamentazione degli effetti del suo
diniego.
Come emerge dalla motivazione
dell’ordinanza di rimessione, il rimettente si duole segnatamente del fatto che
il legislatore ordinario – nell’estendere il regime di garanzia al di là
dell’ambito stabilito dall’art. 68, terzo comma, Cost. (che si riferirebbe, in
assunto, alle sole intercettazioni «dirette») – abbia adottato una disciplina
eccedente la finalità di preservare la funzione parlamentare da indebite
interferenze e condizionamenti; mentre solo questa finalità potrebbe
giustificare una deroga al principio della parità di trattamento davanti alla
giurisdizione. A tale scopo, nel caso di rifiuto dell’autorizzazione, sarebbe
sufficiente – secondo il rimettente – la semplice inutilizzabilità delle
intercettazioni nei confronti del parlamentare indagato. Per contro, prevedendo
la distruzione della documentazione e la sua inutilizzabilità nei confronti di
qualunque altro soggetto, il legislatore avrebbe inteso, in realtà, tutelare un
interesse diverso – quello alla riservatezza delle comunicazioni del
parlamentare – inidoneo a legittimare deroghe al predetto principio
fondamentale.
A fronte di tale petitum, le due eccezioni di inammissibilità
della questione, sollevate dall’Avvocatura dello Stato, si rivelano infondate.
Quanto alla prima, infatti –
contrariamente a quanto sostiene la difesa erariale – le censure del rimettente
non investono il merito della decisione di diniego dell’autorizzazione adottata
dalla Camera; così da rendere necessario, in assunto, il ricorso al diverso
strumento del conflitto di attribuzioni.
Quanto alla seconda eccezione, la
questione risulta rilevante nel giudizio a
quo – nella prospettiva del rimettente – anche dopo il rifiuto
dell’autorizzazione, proprio perché mira a rimuovere (parzialmente) le
conseguenze di detto rifiuto, che ancora debbono prodursi nel procedimento
principale.
4. – Ciò puntualizzato, deve
escludersi che il risultato perseguito dal giudice a quo – ossia la limitazione del campo applicativo dell’art. 6,
commi 2, 5 e 6, ai casi in cui si debbano utilizzare i risultati delle
intercettazioni contro il parlamentare – possa essere desunto dalla norma
impugnata già in via di interpretazione.
La circostanza che il presupposto
della disciplina sia individuato in rapporto ai procedimenti riguardanti
«terzi»; la genericità del riferimento alla necessità di utilizzazione delle
intercettazioni, senza alcuna specificazione limitativa rispetto ai soggetti;
la perentorietà delle previsioni in tema di distruzione del materiale e di
inutilizzabilità, oggi censurate: sono tutti argomenti testuali che ostano al
recepimento dell’esegesi dianzi indicata. Quest’ultima, d’altra parte, non
rispecchierebbe la voluntas
del legislatore, il quale – alla luce dei lavori preparatori e del dibattito
che ha preceduto la legge n. 140 del 2003 – intendeva sicuramente comprendere
nell’art. 6 i casi di utilizzazione nei confronti di terzi.
5. – Nel merito, la questione è
fondata, nei termini di seguito specificati.
5.1. – La disciplina delle
intercettazioni «indirette» – o, più propriamente, per quanto si dirà, delle
intercettazioni «casuali» – quale delineata dall’art. 6 della legge n. 140 del
2003, non può ritenersi in effetti riconducibile alla previsione dell’art. 68,
terzo comma, Cost.
Al riguardo, giova premettere come,
nell’ambito del sistema costituzionale, le disposizioni che sanciscono immunità
e prerogative a tutela della funzione parlamentare, in deroga al principio di
parità di trattamento davanti alla giurisdizione – principio che si pone «alle
origini della formazione dello Stato di diritto» (sentenza n. 24 del
2004) – debbano essere interpretate nel senso più aderente al testo
normativo. Tale esigenza risulta accentuata dal passaggio – avutosi con la
legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3, di riforma dell’art. 68 Cost. – ad
un sistema basato esclusivamente su specifiche autorizzazioni ad acta: un sistema nel quale ogni
singola previsione costituzionale attribuisce rilievo ad uno specifico
interesse legato alla funzione parlamentare e fissa, in pari tempo, i limiti
entro i quali esso merita protezione, stabilendo quali connotazioni debba
presentare un determinato atto processuale, affinché si giustifichi il suo
assoggettamento al nulla osta dell’organo politico.
Nella specie, dal testo dell’art. 68,
terzo comma, Cost. («analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri
del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o
comunicazioni e a sequestro di corrispondenza») non può ricavarsi alcun
riferimento ad un controllo parlamentare a
posteriori sulle intercettazioni occasionali. La norma costituzionale ha
riguardo, infatti, alla «sottoposizione» di un parlamentare ad intercettazione
e ad una autorizzazione di tipo preventivo: il nulla osta è richiesto per
eseguire l’atto investigativo, e non per utilizzare nel processo i risultati di
un atto precedentemente espletato. Il che è confermato, ove ve ne fosse
bisogno, dal fatto che la norma richiama un’autorizzazione «analoga» a quella –
indubitabilmente preventiva – prevista dal secondo comma dello stesso art. 68
Cost. in rapporto alle perquisizioni personali o domiciliari, all’arresto e
alle misure privative della libertà personale.
Né giova, in senso contrario,
l’inciso «in qualsiasi forma», che nell’art. 68, terzo comma, Cost. qualifica
le intercettazioni soggette ad autorizzazione. Come emerge, infatti, dai lavori
preparatori della legge costituzionale n. 3 del 1993, detto inciso fu
introdotto dalla Camera dei deputati in sostituzione del riferimento alle
«intercettazioni telefoniche e ambientali», che compariva nel testo approvato
dal Senato della Repubblica il 19 giugno 1993: e ciò sia a fronte delle
perplessità di ordine tecnico, generate dall’impiego – in una norma
costituzionale – della locuzione «intercettazioni ambientali», estranea alla
terminologia del codice di rito; sia a fronte della opportunità di adottare una
formula più generica, atta ad abbracciare ogni possibile mezzo comunicativo.
Nell’intenzione del legislatore
costituzionale, dunque, l’espressione «in qualsiasi forma» si riferiva
unicamente alle modalità tecniche di captazione e ai tipi di comunicazione
intercettata; non già al carattere «diretto» o «casuale» della captazione. Di
ciò offre conferma la stessa legge n. 140 del 2003, nella quale l’identica
espressione «in qualsiasi forma» compare – col significato ora indicato – a
proposito sia delle intercettazioni «dirette» (art. 4, comma 1) che di quelle
«indirette» (art. 6, comma 1).
5.2. – La ratio della garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost.
converge, d’altro canto, con la lettera della norma.
L’art. 68 Cost. mira a porre a riparo
il parlamentare da illegittime interferenze giudiziarie sull’esercizio del suo
mandato rappresentativo; a proteggerlo, cioè, dal rischio che strumenti
investigativi di particolare invasività o atti coercitivi delle sue libertà
fondamentali possano essere impiegati con scopi persecutori, di
condizionamento, o comunque estranei alle effettive esigenze della
giurisdizione. La necessità dell’autorizzazione viene meno, infatti, allorché
la limitazione della libertà del parlamentare si connetta a titoli o situazioni
– come l’esecuzione di una sentenza di condanna irrevocabile o la flagranza di
un delitto per cui sia previsto l’arresto obbligatorio – che escludono, di per
sé, la configurabilità delle accennate evenienze.
Destinatari della tutela, in ogni
caso, non sono i parlamentari uti singuli, ma le Assemblee nel loro complesso. Di esse si
intende preservare la funzionalità, l’integrità di composizione (nel caso delle
misure de libertate) e la piena
autonomia decisionale, rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario
(si veda, al riguardo, con riferimento alla perquisizione domiciliare, la sentenza n. 58 del
2004): il che spiega l’irrinunciabilità della garanzia (sentenza n. 9 del
1970).
In tale prospettiva, l’autorizzazione
preventiva – contemplata dalla norma costituzionale – postula un controllo
sulla legittimità dell’atto da autorizzare, a prescindere dalla considerazione
dei pregiudizi che la sua esecuzione può comportare al singolo parlamentare. Il
bene protetto si identifica, infatti, con l’esigenza di assicurare il corretto
esercizio del potere giurisdizionale nei confronti dei membri del Parlamento, e
non con gli interessi sostanziali di questi ultimi (riservatezza, onore,
libertà personale), in ipotesi pregiudicati dal compimento dell’atto; tali
interessi trovano salvaguardia nei presidi, anche costituzionali, stabiliti per
la generalità dei consociati.
Questo rilievo vale anche in rapporto
alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Richiedendo il
preventivo assenso della Camera di appartenenza ai fini dell’esecuzione di tale
mezzo investigativo, l’art. 68, terzo comma, Cost. non mira a salvaguardare la
riservatezza delle comunicazioni del parlamentare in quanto tale. Quest’ultimo
diritto trova riconoscimento e tutela, a livello costituzionale, nell’art. 15
Cost., secondo il quale la limitazione della libertà e segretezza delle
comunicazioni può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria,
con le garanzie stabilite dalla legge.
L’ulteriore garanzia accordata
dall’art. 68, terzo comma, Cost. è strumentale, per contro, anche in questo
caso, alla salvaguardia delle funzioni parlamentari: volendosi impedire che
l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria possa essere
indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo,
divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività.
E ciò analogamente a quanto avviene per l’autorizzazione preventiva alle
perquisizioni ed ai sequestri di corrispondenza, il cui oggetto ben può
consistere anche in documenti a carattere comunicativo.
5.3. – Nel caso delle intercettazioni
fortuite, peraltro, l’eventualità che l’esecuzione dell’atto sia espressione di
un atteggiamento persecutorio – o, comunque, di un uso distorto del potere
giurisdizionale nei confronti del membro del Parlamento, volto ad interferire
indebitamente sul libero esercizio delle sue funzioni – resta esclusa, di
regola, proprio dalla accidentalità dell’ingresso del parlamentare nell’area di
ascolto.
Né, d’altra parte, si può ritenere
che il nulla osta successivo della Camera all’utilizzazione del mezzo
probatorio sia imposto dall’esigenza di evitare una surrettizia elusione della
garanzia dell’autorizzazione preventiva: elusione che si realizzerebbe
allorché, attraverso la sottoposizione ad intercettazione di utenze telefoniche
o luoghi appartenenti formalmente a terzi – ma che possono presumersi
frequentati dal parlamentare – si intendano captare, in realtà, le
comunicazioni di quest’ultimo. Al riguardo, va infatti osservato che la norma
costituzionale vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione,
non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni: quello che conta – ai
fini dell’operatività del regime dell’autorizzazione preventiva stabilito
dall’art. 68, terzo comma, Cost. – non è la titolarità o la disponibilità
dell’utenza captata, ma la direzione dell’atto d’indagine. Se quest’ultimo è
volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del
parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere
dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a
controllo appartengano a terzi.
La previsione – nella norma
costituzionale – dell’autorizzazione preventiva al compimento dell’atto, e non
anche dell’autorizzazione successiva all’utilizzazione dei suoi risultati, è
del tutto coerente con tale prospettiva: giacché, nella prima ipotesi,
l’autorità giudiziaria è comunque in grado di chiedere in anticipo l’assenso
della Camera cui appartiene il parlamentare. Dall’ambito della garanzia
prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. non esulano, dunque, le intercettazioni
«indirette», intese come captazioni delle conversazioni del membro del
Parlamento effettuate ponendo sotto controllo le utenze dei suoi interlocutori
abituali; ma, più propriamente, le intercettazioni «casuali» o «fortuite»,
rispetto alle quali – proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione
del parlamentare – l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo,
munirsi preventivamente del placet
della Camera di appartenenza.
Sotto questo profilo, si deve quindi
ritenere che la previsione dell’art. 68, terzo comma, Cost. risulti interamente
soddisfatta, a livello di legge ordinaria, dall’art. 4 della legge n. 140 del
2003, le cui statuizioni debbono necessariamente interpretarsi in coerenza con
quelle del precetto costituzionale che esso mira ad attuare. La disciplina
dell’autorizzazione preventiva, dettata dall’art. 4, deve ritenersi destinata,
cioè, a trovare applicazione tutte le volte in cui il parlamentare sia
individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione, ancorché
questa abbia luogo monitorando utenze di diversi soggetti. In tal senso può e
deve intendersi la formula «eseguire nei confronti di un membro del Parlamento
[…] intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni», che
compare nella norma ordinaria.
Per contro, l’autorizzazione
successiva prevista dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 – ove configurata
come strumento di controllo parlamentare sulle violazioni surrettizie della
norma costituzionale – non solo non sarebbe indispensabile per realizzare i
fini dell’art. 68, terzo comma, Cost.; ma verrebbe a spostare in sede
parlamentare – in una situazione nella quale risulterebbe eventualmente
attivabile anche il rimedio del conflitto di attribuzioni – un sindacato che
trova la sua sede naturale nell’ambito dei rimedi interni al processo. Con il
rischio – da taluni paventato – che un siffatto meccanismo possa porsi
addirittura in contrasto con la stessa norma costituzionale, attribuendo, di
fatto, all’Assemblea parlamentare – nel caso di concessione dell’autorizzazione
– la facoltà di “sanare”, rendendoli utilizzabili, mezzi di prova acquisiti contra constitutionem.
5.4. – Al regime autorizzatorio
prefigurato dalla disposizione denunciata si è attribuita – oltre a quella di
evitare le elusioni – anche una diversa ratio.
L’autorizzazione all’utilizzazione dei risultati dell’atto mirerebbe, cioè, ad
impedire che, immettendo nel circuito processuale la documentazione dei
colloqui accidentalmente captati, si determini una loro divulgazione strumentale:
e ciò in situazioni nelle quali quella documentazione dovrebbe essere, invece,
prontamente distrutta per la sua irrilevanza, secondo quanto è previsto – «a
tutela della riservatezza» – dal comma 1 dell’art.
A prescindere, peraltro, dalla reale
idoneità del diniego dell’assenso successivo, all’esito di dibattito in
Assemblea, a porre al riparo il parlamentare da temute strumentalizzazioni
giornalistiche, neppure l’anzidetta ratio
può essere ricondotta alle previsioni dell’art. 68, terzo comma, Cost.: giacché
essa comporta un evidente mutamento dell’oggetto del sindacato parlamentare,
rispetto a quello prefigurato nella norma costituzionale.
Nella prospettiva in questione,
difatti,
Tale diversa angolazione del
sindacato è stata, del resto, affermata dalla stessa prassi parlamentare in
tema di autorizzazioni. In essa si è espressamente affermato che il parametro –
sulla base del quale consentire o negare l’utilizzazione delle intercettazioni
«indirette» – non possa essere quello «del fumus persecutionis, venendo in rilievo il
risultato probatorio di un’istruttoria già effettuata, ma piuttosto la
rilevanza e l’utilizzabilità processuale di tale risultato rispetto all’oggetto
dell’accusa» (in questo senso, la relazione della Giunta per le autorizzazioni
della Camera dei deputati presentata alla Presidenza il 19 marzo 2007, doc. IV,
n. 6-A).
5.5. – Escluso, pertanto, che la
disciplina censurata possa considerarsi “costituzionalmente imposta” dall’art.
68, terzo comma, Cost., resta da chiarire se la stessa possa ritenersi comunque
“costituzionalmente consentita”. Si tratta di stabilire, cioè, se il
legislatore ordinario sia abilitato a prevedere – in un’ottica di prevenzione
di ipotizzabili condizionamenti sullo svolgimento del mandato elettivo – forme
speciali di tutela della riservatezza del parlamentare, rispetto ad un mezzo di
ricerca della prova particolarmente invasivo, come le intercettazioni. E ciò
pur tenendo conto che le esigenze di protezione in materia risultano
particolarmente avvertite in conseguenza di un fenomeno patologico che incide,
di per sé, sulla generalità dei cittadini: quello, cioè, della disinvolta
diffusione, anche a mezzo della stampa, dei contenuti dei colloqui
intercettati, spesso anche per le parti irrilevanti ai fini del processo.
Al suddetto quesito,
Sotto l’aspetto censurato, le
disposizioni impugnate si rivelano incompatibili con il fondamentale principio
di parità di trattamento davanti alla giurisdizione. Dette disposizioni
accordano, infatti, al parlamentare una garanzia ulteriore rispetto alla
griglia dell’art. 68 Cost., che – per l’ampiezza della sua previsione e delle
sue conseguenze – finisce per travolgere ogni interesse contrario: giacché si
elimina, ad ogni effetto, dal panorama processuale una prova legittimamente
formata, anche quando coinvolga terzi che solo occasionalmente hanno
interloquito con il parlamentare.
In questo modo, viene quindi
introdotta una disparità di trattamento non soltanto tra il titolare del
mandato elettivo e i terzi – tema, quest’ultimo, che il giudice a quo non sottopone al giudizio di
questa Corte – ma tra gli stessi terzi. Le intercettazioni eseguite nel corso
di un procedimento penale, infatti, possono contenere elementi utili, o
addirittura decisivi, sia per le tesi dell’accusa che per quelle della difesa.
Ne deriva che, coeteris paribus, la
posizione del comune cittadino, cui quegli elementi nuocciano o giovino, viene
a risultare differenziata – eventualmente, sino al punto da determinare il
passaggio da una pronuncia di condanna ad una assolutoria (e viceversa);
ovvero, quanto al danneggiato dal reato, il passaggio dal riconoscimento al
diniego della pretesa risarcitoria – in ragione della circostanza, puramente
casuale, che il soggetto sottoposto ad intercettazione abbia avuto, come
interlocutore, un membro del Parlamento.
Al tempo stesso, impedendo di
utilizzare le intercettazioni in questione anche nei confronti di soggetti non
parlamentari, le disposizioni in parola finiscono, di fatto – senza alcuna base
di legittimazione costituzionale – per configurare una immunità a vantaggio di
soggetti che non avrebbero comunque ragione di usufruirne, in quanto non
chiamati ad esercitare alcun mandato elettivo.
In sostanza, ciò che rende
contrastante il complesso di norme in esame non soltanto con il parametro
dell’eguaglianza, ma anche con quello della razionalità intrinseca della scelta
legislativa, è il fatto che – per neutralizzare gli effetti della diffusione
delle conversazioni del parlamentare, casualmente intercettate – sia stato
delineato un meccanismo integralmente e irrimediabilmente demolitorio,
omettendo qualsiasi apprezzamento della posizione dei terzi, anch’essi
coinvolti in quelle conversazioni.
6. – I commi 2, 5 e 6 dell’art. 6
della legge n. 140 del 2003 vanno dichiarati, pertanto, costituzionalmente
illegittimi nella parte in cui stabiliscono che la disciplina ivi prevista si
applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei
confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui conversazioni o
comunicazioni sono state intercettate.
La declaratoria di illegittimità
costituzionale comporta che l’autorità giudiziaria non debba munirsi
dell’autorizzazione della Camera, qualora intenda utilizzare le intercettazioni
solo nei confronti dei terzi. Invece, qualora si voglia far uso delle
intercettazioni sia nei confronti dei terzi che del parlamentare, il diniego
dell’autorizzazione non comporterà l’obbligo di distruggere la documentazione
delle intercettazioni, la quale rimarrà utilizzabile limitatamente ai terzi.
Le residue censure del giudice
rimettente, riferite agli altri parametri evocati, restano assorbite.
per questi motivi
dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20
giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per
l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi
penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui
stabilisce che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le
intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal
membro del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state
intercettate.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2007.
F.to:
Giovanni
Maria FLICK, Redattore
Giuseppe
DI PAOLA, Cancelliere
Depositata
in