Sentenza n. 77 del 2007

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SENTENZA N. 77

ANNO 2007

 

Commenti alla decisione di

 

I. Maria Alessandra Sandulli, I recenti interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione sulla traslatio iudicii (per gentile concessione della Rivista telematica federalismi.it)

 

II. Alessandro Mangia, Il lento incedere dell’unità della giurisdizione (per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali).

 

III. Andreina Scognamiglio, Corte di cassazione e Corte costituzionale a favore di una pluralità dei giudici  compatibile con effettività e certezza della tutela (per gentile concessione della Rivista telematica Judicium, Il processo civile in Italie e in Europa)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco                                 BILE                                                  Presidente

-  Giovanni Maria                   FLICK                                                             Giudice

-  Francesco                            AMIRANTE                                             “

-  Ugo                                     DE SIERVO                                             “

-  Romano                              VACCARELLA                                       “

-  Paolo                                   MADDALENA                                        “

-  Alfio                                   FINOCCHIARO                                      “

-  Alfonso                               QUARANTA                                            “

-  Franco                                 GALLO                                                     “

-  Luigi                                   MAZZELLA                                             “

-  Gaetano                              SILVESTRI                                              “

-  Sabino                                 CASSESE                                                 “

-  Maria Rita                           SAULLE                                                   “

-  Giuseppe                             TESAURO                                                “

-  Paolo Maria                         NAPOLITANO                                        “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30 legge del 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), promosso con ordinanza del 21 novembre 2005 dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria sul ricorso promosso da Totò Pizzeria s.r.l. ed altro contro Comune di Genova ed altri iscritta al n. 148 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2006.

         Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2007 il Giudice relatore Romano Vaccarella.

Ritenuto in fatto

         1.– Con ordinanza depositata il 21 novembre 2005 il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione,  questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non consente al giudice amministrativo, che declini la giurisdizione, di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

         1.1.– Il dubbio è stato prospettato nel corso di un giudizio intentato da una società al fine di ottenere l’accertamento della responsabilità e la conseguente condanna del Comune di Genova e dell’Azienda Multiservizi e d’Igiene Urbana s.p.a. (AMIU), al ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni causati dalla collocazione di una serie di «cassonetti a cascata»,  destinati alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, nelle immediate vicinanze dei locali, da essa occupati, adibiti ad attività di ristorazione.

         La società attrice lamentava che, ottenuto dal comune un permesso di occupazione permanente del suolo pubblico antistante l’esercizio commerciale, se l’era visto, in parte, rioccupare dall’ente che, «senza comunicare l’avvio del procedimento», aveva iniziato lavori edili interessanti lo spazio oggetto di concessione ed aveva collocato, a pochi metri di distanza dall’entrata del locale, una sorta di impianto per la raccolta dei rifiuti solidi urbani.

         La società, dopo avere infruttuosamente inoltrato segnalazioni e diffide all’amministrazione, aveva agito sia in via possessoria sia ex art. 700 del codice di procedura civile innanzi al tribunale civile al fine di ottenere il ristoro dei danni, la reintegrazione nel godimento dei beni e l’adozione di misure atte a scongiurare la lesione del diritto alla salute.

         Il giudice ordinario adito aveva, però, dichiarato il proprio difetto di giurisdizione a decidere la controversia, per essere la stessa devoluta, in quanto involgente la materia urbanistica ed edilizia, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 34, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come modificato dall’art. 7, legge 21 luglio 2000 n. 205.

         Proposto ricorso innanzi al TAR, questo rilevava che l’intervento della sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004 – dichiarativa della parziale illegittimità degli artt. 33, commi 1 e 2, e 34, comma 1, del d.lgs. 31 marzo n. 80 del 1998 –, aveva fatto venir meno la giurisdizione del giudice amministrativo, come eccepito dai convenuti.

         1.2.– Il giudice a quo osserva, in ordine alla rilevanza della questione, che l’art. 30 legge 6 dicembre 1971, n. 1034, impone al giudice amministrativo la mera declaratoria di difetto di giurisdizione, da adottare anche d’ufficio, precludendogli l’adozione di ogni altra pronuncia volta ad assicurare la possibilità di riassumere il processo davanti al giudice fornito di giurisdizione, con conseguente salvezza degli «effetti sostanziali e processuali» della domanda, laddove la translatio iudicii consentirebbe di non vanificare l’attività processuale svolta e impedirebbe alla parte di subire gli effetti della decadenza «nel frattempo maturata», segnatamente di quella dalle azioni possessorie, da promuoversi nel termine annuale.

         1.3.– In ordine alla non manifesta infondatezza del dubbio, l’inutile «palleggio di giudizi» tra giudici appartenenti a giurisdizioni diverse, ma non separate, con gli inevitabili effetti distorsivi costituiti dal dispendio di energie processuali e di risorse economiche e dalla incolpevole perdita del diritto alle azioni possessorie, sarebbe, a giudizio del rimettente, in contrasto col principio costituzionale della ragionevole durata del processo e del diritto all’attuazione della legge, e cioè con gli artt. 24, 111 e  113 Cost.

         Precisa anche il rimettente che, per scongiurare siffatte evenienze, non solo non sarebbe percorribile la via dell’interpretazione estensiva dell’art. 5 cod. proc. civ., perché il diritto vivente nega la praticabilità della perpetuatio iurisdictionis allorché la norma attributiva della giurisdizione venga dichiarata costituzionalmente illegittima, ma neppure sarebbe evocabile l’istituto dell’errore scusabile, comunque inidoneo a surrogare il meccanismo processuale della translatio iudicii, essendo il relativo riconoscimento pur sempre rimesso ad una valutazione del giudice.

         2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, che ha chiesto alla Corte di dichiarare inammissibile o manifestamente infondata la proposta questione, per carente  descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo.

         Secondo la difesa erariale, infatti, la circostanza che nulla il rimettente espliciti in ordine al concreto svolgimento del processo e, in particolare, in ordine alle eventuali acquisizioni probatorie (assunte nel primo giudizio civile o in quello successivo, davanti al giudice amministrativo) da assicurare nell’instaurando processo innanzi al giudice ordinario, nonché in ordine alla data in cui si sarebbe verificata la lamentata lesione del possesso, all’epoca della proposizione della prima domanda e del successivo ricorso innanzi al TAR, si tradurrebbe in una inemendabile mancanza di elementi la cui conoscenza sarebbe invece assolutamente indispensabile ai fini della valutazione della rilevanza della prospettata questione rispetto al giudizio in corso.

Considerato in diritto

         1.– Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria dubita, in riferimento agli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non consente al giudice amministrativo che declini la giurisdizione di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

         2.–  La questione è fondata nei sensi di seguito precisati.

         3.– Il Tribunale rimettente pone, in termini di legittimità costituzionale, il problema – in ordine al quale la dottrina ha da tempo e ripetutamente preso posizione – dell’estensione al difetto di giurisdizione del principio della conservazione degli effetti della domanda che, con il codice di procedura civile del 1942, è stato introdotto limitatamente al caso del difetto di competenza; estensione che, nei più organici progetti di riforma del processo civile, era prevista in puntuali disposizioni dei relativi disegni di legge delega.

         3.1.– Sollevando la questione in esame, il giudice rimettente si fa interprete del diffuso disagio, per i gravi (e, non di rado, irreparabili) inconvenienti provocati da una disciplina che, in sostanza, parte dal presupposto che l’atto introduttivo del giudizio rivolto ad un giudice privo di giurisdizione sia affetto da un vizio che lo rende radicalmente inidoneo a produrre gli effetti, sia sostanziali che processuali, che la legge collega ad un atto introduttivo che violi le regole sul riparto di competenza.

         Tale disagio è accresciuto, in primo luogo, dalla circostanza che una così rigorosa disciplina concerne un vizio dell’atto introduttivo che scaturisce da una estremamente articolata e complessa regolamentazione del riparto di giurisdizione: sicché non solo è tutt’altro che agevole il compito della parte attrice, ma altrettanto disagevole è quello del giudice il cui eventuale errore, tuttavia, ricade interamente sulla parte (si pensi al caso del giudice che erroneamente declini la propria giurisdizione con nuova proposizione della domanda al giudice indicato come munito di giurisdizione, il quale, a sua volta, la declini: la domanda riproposta al primo giudice non potrebbe “ancorarsi” alla prima e far risalire ad essa gli effetti sostanziali e processuali).

         Questa Corte è consapevole che il fenomeno appena illustrato ha assunto proporzioni ancor più vistose a seguito di una propria recente pronuncia dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di talune norme che, secondo il criterio dei «blocchi di materie», ripartivano la giurisdizione tra autorità giudiziaria ordinaria e giudice amministrativo: l’inapplicabilità, secondo la giurisprudenza assolutamente dominante,  all’ipotesi di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale del principio della perpetuatio iurisdictionis codificato nell’art. 5 cod. proc. civ. ha certamente acuito la diffusa sensazione della sostanziale ingiustizia della disciplina vigente in quanto, nonostante la domanda fosse stata rivolta al giudice munito di giurisdizione secondo la legge vigente al momento della sua proposizione, la sopravvenuta carenza di giurisdizione ne impediva o pregiudicava la tutela giurisdizionale.

         Peraltro, l’orientamento del Consiglio di Stato, di gran lunga prevalente, fondato sul potere di rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione anche quando, essendosi su di essa esplicitamente pronunciato il TAR, contro tale capo della pronuncia non sia stata proposta impugnazione, fa sì (ed ha fatto sì in numerosi casi interessati dalla citata sentenza di questa Corte) che il giudizio debba essere proposto ex novo davanti al giudice ordinario perfino dopo che sulla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo si sia formato il giudicato.

         3.2.– La dottrina, a sua volta, è pressoché unanime nel sollecitare una riforma legislativa che preveda meccanismi idonei – come accade per l’ipotesi di difetto di competenza – ad assicurare, con la trasmigrazione del giudizio davanti al giudice munito di giurisdizione, la conservazione degli effetti che la legge collega alla proposizione della domanda giudiziale.

         Una parte della dottrina, poi, ha sostenuto che alle pronunzie emesse dalla Corte di cassazione in tema di giurisdizione potrebbe conseguire – in base al combinato disposto degli artt. 50, 367 e 382 cod. proc. civ. – la translatio iudicii con conservazione degli effetti della domanda giungendo, recentemente, a desumere da tale conclusione che – non potendosi imporre alle parti, affinché operi il meccanismo della translatio iudicii, di adire necessariamente la Suprema Corte a sezioni unite – analogo risultato sarebbe conseguibile, de iure condito, nel caso di declinatoria di giurisdizione da parte di un giudice di merito.

         3.3.– Recentemente, nel tentativo di risolvere con strumenti ermeneutici l’annoso e grave problema, la Corte di cassazione (Sezioni unite 22 febbraio 2007, n. 4109) ha affermato -  nel rinviare al Consiglio di Stato, per violazione del giudicato interno,una controversia definita dal medesimo Consiglio con una pronuncia declinatoria della giurisdizione - che tale rinvio costituiva modifica del proprio «precedente, risalente orientamento, secondo cui la decisione del giudice ordinario o del giudice speciale, con la quale viene dichiarato il difetto di giurisdizione, non consente che il processo possa continuare dinanzi al giudice fornito di giurisdizione».

         Ricordato che tale tralaticio orientamento si fondava sulla circostanza che l’art. 50 cod. proc. civ. prevede la riassunzione del processo solo nel caso di difetto di competenza, e non anche di giurisdizione, e che l’art. 367 prevede la riassunzione, a seguito di regolamento di giurisdizione, solo davanti al giudice ordinario, e fatto proprio il «principio fondamentale dei nostri Autori classici secondo cui il processo deve tendere ad una sentenza di merito», le Sezioni unite «ritengono che, in base ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni in parte nuove svolte di recente dalla dottrina sul tema, sussistono le condizioni per potere affermare che è stato dato ingresso nell’ordinamento processuale al principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale, e  viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione».

         «Premessa indispensabile è la considerazione di carattere generale» che, se è assente per la giurisdizione la disciplina prevista per la competenza, «neppure sussiste la previsione di un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale». Rilevato, poi,  che la cassazione senza rinvio è possibile, a norma dell’art. 382, comma terzo, cod. proc. civ., in caso di difetto assoluto di giurisdizione, dovendosi in ogni altro caso cassare con rinvio al giudice munito di giurisdizione, la Corte di cassazione osserva, da un lato, che la norma che esclude l’incidenza sul merito della pronuncia sulla giurisdizione (art. 386) è indice della “proseguibilità” del giudizio e, dall’altro lato, che l’estensione legislativa del regolamento di giurisdizione al processo amministrativo e a quello tributario impone di interpretare estensivamente l’art. 367, comma secondo, cod. proc. civ., ammettendo la riassunzione anche davanti al giudice speciale.

         Ne consegue che, a seguito sia di ricorso ordinario ex art. 360, n. 1, cod. proc. civ., sia di regolamento di giurisdizione, sarebbe sempre ammessa la riassunzione del processo davanti al giudice (ordinario o speciale) munito di giurisdizione e tale riassunzione sarebbe possibile – aggiunge la Corte «per ragioni di completezza sistematica» – «anche nel caso di sentenza del giudice di merito, che abbia declinato la giurisdizione».

         Respinta la tesi secondo la quale tale risultato richiederebbe l’intervento della Corte costituzionale (sollecitato, ricorda la Corte di cassazione, dall’ordinanza di rimessione qui in esame), le Sezioni unite osservano che il giudice indicato, come munito di giurisdizione, dalla pronuncia declinatoria può, «a sua volta, dichiarare il proprio difetto di giurisdizione» ma che in tal caso, «nel rispetto del principio che ogni giudice è giudice della propria giurisdizione», il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362, secondo comma, cod. proc. civ. risolve, con il conflitto negativo, la «situazione di stallo»; anche se – conclude la Corte – «il problema giuridico che esula dalla presente controversia merita di essere ulteriormente approfondito».

         4.– La circostanza che la Corte di cassazione abbia diffusamente trattato la questione – più volte ricordandola – oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale impone a questa Corte, per l’autorevolezza delle Sezioni unite, di dedicare attenta considerazione alle argomentazioni che si sono appena riferite benché le Sezioni unite – decidendo su un error in procedendo, sia pure avente ad oggetto la giurisdizione – abbiano affrontato la questione risolvendo un caso di conferma della giurisdizione del giudice a quo e si siano occupate della declinatoria di giurisdizione da parte del giudice di merito solo «per ragioni di completezza sistematica».

         Malgrado ciò, questa Corte non può non considerare attentamente quanto sostengono le Sezioni unite nel pervenire alla conclusione che, essendo la questione oggetto del presente giudizio risolvibile de iure condito, «non è necessario sollecitare sul punto l’intervento del Giudice delle leggi». E’ evidente, infatti, che, ove fossero condivisibili gli argomenti che hanno indotto le Sezioni unite ad esprimere tale opinione, questa Corte dovrebbe dichiarare inammissibile la questione in esame per non avere il giudice a quo nemmeno tentato di dare una lettura costituzionalmente orientata della norma censurata.

         4.1.– Pur nella consapevolezza dell’intento ispiratore della sentenza n. 4109 del 2007, si deve anzitutto escludere che –  come le Sezioni unite affermano a «premessa indispensabile» del loro argomentare – manchi nell’ordinamento «un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale».

         E’ sufficiente rilevare, in proposito, che l’espressa previsione della translatio con esplicito ed esclusivo riferimento alla «competenza» – ciò che costituiva una novità del codice del 1942, auspicata (ma limitatamente alla incompetenza) fin dal cosiddetto progetto Chiovenda, non a caso resa possibile da una articolata disciplina (artt. 42-50) totalmente assente per la «giurisdizione» – non altro può significare se non divieto di applicare alla giurisdizione quanto previsto, esplicitamente ed esclusivamente, per la competenza; il che avrebbe reso superfluo, nell’asciutta essenzialità delle norme codicistiche, l’«espresso divieto» di applicare alla giurisdizione le molte norme esplicitamente dedicate (sia nelle rubriche che nel testo) alla sola competenza.

         In secondo luogo, riguardo all’argomento che le Sezioni unite desumono dal ricorso per cassazione ex art. 362, comma secondo, cod. proc. civ., occorre considerare che – a differenza di quanto l’art. 362, comma primo, prevede (richiamando il termine di cui all’art. 325, comma secondo) per l’impugnazione di sentenze di giudici speciali «per motivi attinenti alla giurisdizione» – la «denuncia» di conflitti negativi di giurisdizione è possibile «in ogni tempo»: ed ai fini qui rilevanti è sufficiente osservare che la funzione di «rendere praticabile la translatio», con la conservazione degli effetti della domanda proposta al giudice (che risulta essere) privo di giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile «in ogni tempo» (e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del conflitto).

         4.2.– Ciò detto dei due argomenti in base ai quali le Sezioni unite ritengono risolvibile de iure condito la questione pendente dinanzi a questa Corte – questione della quale non può, conseguentemente, dichiararsi l’inammissibilità per non aver il giudice rimettente valutato la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente corretta – va rilevato che il giudice a quo sollecita l’intervento di questa Corte non già lamentando l’assenza di un meccanismo processuale che consenta la trasmigrazione del processo ad altro giudice fornito di giurisdizione, bensì l’impossibilità che, a seguito della declinatoria della giurisdizione, siano conservati gli effetti prodotti dalla domanda proposta davanti ad un giudice privo di giurisdizione.

         Tale modo di impostare la questione è corretto, essendo evidente che l’esistenza nel codice di procedura civile di una norma che disciplina in generale l’istituto della riassunzione della causa (art. 125 disp. att.) non risolve affatto il problema sollevato dal giudice a quo: la possibilità – esplicitamente prevista dalla legge ovvero desumibile attraverso una sistematica «ricucitura» delle norme – di riassumere il processo non implica di per sé che la domanda proposta in riassunzione conservi gli effetti prodotti da quella originaria.

         La trasmigrabilità del processo è strumento necessario, ma non sufficiente perché il giudice ad quem possa giudicare della domanda dinanzi a lui riassunta come se essa fosse stata proposta davanti a lui nel momento in cui lo fu al giudice privo di giurisdizione.

         5.– Il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi – comprensibile in altri momenti storici quale retaggio della concezione cosiddetta patrimoniale del potere giurisdizionale e quale frutto della progressiva vanificazione dell’aspirazione del neo-costituito Stato unitario (legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo) all’unità della giurisdizione, determinata dall’emergere di organi che si conquistavano competenze giurisdizionali – è certamente incompatibile, nel momento attuale, con fondamentali valori costituzionali.

         Se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.

         Questa essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti – per giunta innervantesi su un riparto delle loro competenze complesso ed articolato – è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale.

         Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta.

         Al principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressoché costantemente – nel regolare questioni di rito – il vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che all’individuazione del giudice competente – volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale e, dall’altro lato, l’idoneità (nella valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di merito – non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al “bene della vita” oggetto della loro contesa.

         Al medesimo principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si ispiri la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi allorché una causa, instaurata presso un giudice, debba essere decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro giudice.

         6.– Il rispetto dei confini del proprio ruolo nell’ordinamento impone a questa Corte di limitarsi a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio; principio questo che, non formulato espressamente in una o più disposizioni di legge ma presupposto dall’intero sistema dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali, deve essere espunto, come tale, dall’ordinamento.

         7.– La disciplina legislativa che, con l’urgenza richiesta dall’esigenza di colmare una lacuna dell’ordinamento processuale, verrà emanata, sarà vincolata solo nel senso che essa dovrà dare attuazione al principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato – a seguito di declinatoria di giurisdizione – davanti al giudice che ne è munito.

         Ciò posto, è evidente che – contrariamente a quanto sembra sostenere l’ordinanza di rimessione – la conservazione degli effetti prodotti dalla domanda originaria discende non già da una dichiarazione del giudice che declina la propria giurisdizione, ma direttamente dall’ordinamento, interpretato alla luce della Costituzione; ed anzi deve escludersi che la decisione sulla giurisdizione, da qualsiasi giudice emessa, possa interferire con il merito (al quale appartengono anche gli effetti della domanda) demandato al giudice munito di giurisdizione.

         La conferma di ciò è nella circostanza che perfino il supremo organo regolatore della giurisdizione, la Corte di cassazione, con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione; e ad analogo principio, conforme a Costituzione, si ispira l’art. 386 cod. proc. civ. (applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’art. 362, comma primo, cod. proc. civ.) disponendo che «la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda».

         8.– Nel rispetto di tali limiti costituzionali, il legislatore ordinario – ferma l’esigenza di disporre che ogni giudice, nel declinare la propria giurisdizione, deve indicare quello che, a suo avviso, ne è munito – è libero di disciplinare nel modo ritenuto più opportuno il meccanismo della riassunzione (forma dell’atto, termine di decadenza, modalità di notifica e/o di deposito, eventuale integrazione del contributo unificato, ecc.) sulla base di una scelta di fondo a lui soltanto demandata: stabilire, cioè, se mantenere in vita il principio per cui ogni giudice è giudice della propria giurisdizione ovvero adottare l’opposto principio seguito dal codice di procedura civile (art. 44) per la competenza.

         9.– E’ superfluo sottolineare che, laddove possibile utilizzando gli strumenti ermeneutici (come, nel caso oggetto del giudizio a quo, dopo la declinatoria di giurisdizione), i giudici ben potranno dare attuazione al principio della conservazione degli effetti della domanda nel processo riassunto.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

         dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.

            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 marzo 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Romano VACCARELLA, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2007.