Ordinanza n. 580/2000

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 580

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, in legge 3 aprile 1979, n. 95, e dell’art. 203 del regio-decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 2 dicembre 1999 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di P. O., iscritta al n. 81 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visti gli atti di costituzione di P. O. e del Commissario straordinario della Pianelli & Traversa s.a.s. in amministrazione straordinaria nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 novembre 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

 udito l’Avv. Giuseppe Zanalda per il Commissario straordinario della Pianelli & Traversa s.a.s. in amministrazione straordinaria.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 2 dicembre 1999, il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, in legge 3 aprile 1979, n. 95, e dell’art. 203 del regio-decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), «per omessa menzione», nella seconda delle norme impugnate, «anche dell’art. 222 della legge fallimentare, con riferimento alla posizione, e conseguente responsabilità penale, dei soci illimitatamente responsabili di società ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria che abbiano disposto di propri beni personali»;

 che il giudice a quo premette di essere investito del processo a carico di persona imputata del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale aggravata, di cui agli artt. 1 della legge n. 95 del 1979, 203, primo comma, 222, 216, primo comma, numero 1 e secondo comma, 219, primo comma, della legge fallimentare, per avere, nella qualità di socio accomandatario di una società in accomandita semplice, distratto beni personali dopo l’ammissione della società alla procedura di amministrazione straordinaria di cui alla legge n. 95 del 1979;

 che, nel ritenere l’ipotesi accusatoria avvalorata, in linea di fatto, dall’istruttoria dibattimentale, il giudice a quo esclude, tuttavia, che la condotta sopra descritta possa venire inquadrata, alla luce del dato normativo, nella fattispecie criminosa contestata;

 che — ricordate le contrastanti opinioni espresse dalla dottrina, in assenza di specifiche pronunce della giurisprudenza di legittimità, circa l’applicabilità delle norme penali fallimentari ai soci illimitatamente responsabili di società sottoposte ad amministrazione straordinaria (ovvero a liquidazione coatta amministrativa, la cui disciplina è richiamata dall’art. 1 della legge n. 95 del 1979) — il rimettente assume, infatti, che l’unica interpretazione condivisibile del combinato disposto dell’art. 1, ora citato, e dell’art. 203 della legge fallimentare sia quella che circoscrive la responsabilità per bancarotta dei predetti soci ai fatti commessi sul patrimonio della società, con conseguente irrilevanza penale delle condotte distrattive di beni personali;

 che tale lettura — la quale muove dal rilievo che i soci a responsabilità illimitata (a differenza di quanto si verifica nel fallimento, in forza dell’art. 147 della legge fallimentare) non vengono direttamente assoggettati ad amministrazione straordinaria, e dunque non perdono, in costanza di essa, la disponibilità del proprio patrimonio — si imporrebbe segnatamente a fronte della mancata inclusione, fra le norme penali fallimentari richiamate dall’art. 203 della legge fallimentare, dell’art. 222 della stessa legge, e, cioè, proprio della disposizione che vale a fondare la responsabilità per bancarotta dei soci illimitatamente responsabili che abbiano disposto di beni personali in pendenza di procedure concorsuali diverse dalla liquidazione coatta amministrativa e dall’amministrazione straordinaria: onde una interpretazione di segno opposto a quella prospettata si scontrerebbe — ad avviso del rimettente — con il divieto di analogia in malam partem in materia penale;

 che, in simile prospettiva, le norme denunciate si porrebbero peraltro in contrasto con il principio di uguaglianza, in quanto il diverso trattamento penalistico della medesima condotta — nel fallimento e nell’amministrazione straordinaria — risulterebbe del tutto irragionevole: i presupposti di ammissione delle società di persone all’amministrazione straordinaria sono, infatti, indipendenti dalla condotta dei soci illimitatamente responsabili, i cui atti distrattivi di beni personali avrebbero, anzi, in tale procedura, effetti negativi quasi sempre più gravi che non in caso di fallimento;

 che la denunciata lesione del principio di uguaglianza si apprezzerebbe anche nei riguardi dei creditori, i quali, in mancanza di un deterrente penale per le condotte considerate, troverebbero nell’amministrazione straordinaria una tutela ridotta e «degradata», rispetto a quella offerta dal fallimento: soluzione normativa, questa, non giustificabile neppure facendo leva sulla diversa finalità delle due procedure (conservativa la prima, liquidatoria l’altra), essendo l’obiettivo del soddisfacimento dei creditori comune anche alla procedura speciale;

 che l’assetto normativo costituzionalmente corretto — sottolinea, da ultimo, il giudice a quo — sarebbe stato in effetti adottato dal d. lgs. 8 luglio 1999, n. 270, recante la nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, il quale ha, per un verso, esteso ai soci illimitatamente responsabili gli effetti della dichiarazione dello stato di insolvenza della società (art. 23), e, per l’altro, equiparato la dichiarazione stessa a quella di fallimento ai fini dell’applicazione delle norme penali, ivi compreso l’art. 222 della legge fallimentare (art. 95 del d. lgs. n. 270 del 1999);

che tale nuova disciplina risulterebbe peraltro inapplicabile nel giudizio a quo, al lume dei principi regolatori della successione di leggi penali nel tempo;

 che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità o, comunque, di infondatezza della questione, rilevando come il rimettente invochi una pronuncia additiva in malam partem che esorbita dai poteri di questa Corte;

 che si è costituito in giudizio il Commissario della società in amministrazione straordinaria, parte civile nel processo a quo, il quale ha chiesto, in via principale, che la questione sia accolta e, in subordine, che essa sia rigettata per erroneo presupposto interpretativo, dovendosi ritenere che l’art. 203 della legge fallimentare già consenta, in realtà, di punire i soci illimitatamente responsabili di società in amministrazione straordinaria per fatti di distrazione di beni personali;

 che si è costituito, altresì, l’imputato nel processo a quo, il quale ha concluso, in via principale, per la declaratoria di inammissibilità della questione, in quanto finalizzata a colmare un «vuoto» di tutela penale, con intervento precluso a questa Corte dalla riserva di legge sancita dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione; e, in via subordinata, per la dichiarazione della sua infondatezza, in quanto il vizio di costituzionalità denunciato dal giudice a quo deriverebbe, non tanto dalle norme penali che escludono la configurabilità del delitto di bancarotta, quanto piuttosto — ed «a monte» — dalle disposizioni che non assoggettano alla procedura di amministrazione straordinaria, di cui alla legge n. 95 del 1979, i beni dei soci illimitatamente responsabili.

 Considerato che il Tribunale rimettente — muovendo dal presupposto interpretativo (frutto di una selezione tra diverse ipotesi di lettura) per cui l’art. 203 della legge fallimentare, nel richiamo fattone dall’art. 1 della legge n. 95 del 1979, punirebbe, a titolo di bancarotta, i soci illimitatamente responsabili di società in amministrazione straordinaria con riferimento ai soli fatti commessi sul patrimonio sociale, e non anche per quelli aventi ad oggetto beni personali; ed assumendo, altresì, che tale regime violi il principio di uguaglianza, nel confronto con la disciplina valevole in caso di fallimento — sollecita l’estensione della previsione punitiva a condotte che, secondo la sua stessa prospettazione, non vi sarebbero comprese (quelle incidenti, per l’appunto, sul patrimonio personale del socio);

 che all’adozione dell’invocata pronuncia osta in radice, tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 della Costituzione, il quale — per costante giurisprudenza di questa Corte — «nell’affermare il principio che nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti» (v. sentenza n. 411 del 1995 e ordinanza n. 392 del 1998; in generale, sulla inammissibilità di interventi additivi in malam partem in materia penale, cfr. ordinanze nn. 317 del 2000; 51, 245 e 337 del 1999; 106 e 413 del 1998; 297 del 1997);

 che, pertanto, la questione — tesa evidentemente a provocare una pronuncia di questa Corte in malam partem, con effetti di ampliamento di una fattispecie criminosa rispetto al campo applicativo che il giudice rimettente, in via d’interpretazione, le ritiene proprio — deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, in legge 3 aprile 1979, n. 95, e dell’art. 203 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 2000.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in cancelleria il 29 dicembre 2000.