Sentenza n. 22 del 1996

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SENTENZA N.22

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 71, comma 1, del decreto legislativo del 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dell'art. 22, comma 38, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con le ordinanze emesse il 7 aprile 1995, dal Consiglio di Stato - sez. VI giurisdizionale e il 22 marzo 1995 (n. 3 ordd.) dal TAR del Lazio, rispettivamente iscritte ai nn. 478, 580, 581 e 582 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 41, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visti gli atti di costituzione di Mirone Antonino, Condorelli Mario, Acquarone Lorenzo e Saporito Learco nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 21 novembre 1995 il Giudice relatore Renato Granata;

uditi gli avv.ti Lorenzo Acquarone e Ludovico Villani per Mirone Antonino, Condorelli Mario, Saporito Learco e Ludovico Villani per Acquarone Lorenzo, nonché l'Avvocato dello Stato Alessandro De Stefano per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1. - In quattro giudizi amministrativi separatamente promossi da altrettanti docenti universitari (i professori L. Acquarone, M. Condorelli, L. Saporito e A. Mirone) per impugnare i decreti rettorili che, nel collocarli in aspettativa per svolgimento del mandato parlamentare, li avevano contestualmente sospesi dal trattamento retributivo, così come previsto per i pubblici impiegati dall'art. 71, comma 1, del d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (mentre ai professori universitari, secondo i ricorrenti, avrebbe dovuto viceversa tuttora applicarsi il trattamento differenziato, che consente il cumulo parziale dello stipendio e della indennità parlamentare di cui all'art. 4 della legge n. 1261 del 1965, mantenuto per essi in vigore dalle norme derogatorie di cui all'art. 72, ultimo comma, dello stesso d. lgs. n. 29 del 1993 ed all'art. 2, del successivo d. lgs. n. 546 del 1993), il TAR Lazio, con tre ordinanze in pari data del 22 marzo 1995 ed il Consiglio di Stato (in sede di appello avverso diniego di sospensiva del medesimo TAR) con ordinanza in data 7 aprile 1995 - dopo aver rilevato in premessa che l'applicabilità della riferita disciplina, sub art. 71 del d. lgs. n. 29 del 1993, anche ai docenti universitari risultava comunque poi confermata, in via di interpretazione autentica, dall'art. 22, comma 38, della sopravvenuta legge n. 724 del 1994 - hanno sollevato (identica) questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 33, 36 e 76 della Costituzione, delle due succitate disposizioni (art. 71 del d. lgs. n.29 del 1993 e art. 22, comma 38, della legge n.724 del 1994) "nella parte in cui queste prevedono il collocamento in aspettativa senza assegni per mandato parlamentare dei professori universitari" [ove non optino per la conservazione del rispettivo trattamento economico in luogo della indennità] "e la restituzione delle somme da loro indebitamente percepite durante l'aspettativa medesima".

Dubitano, infatti, le autorità rimettenti che tali norme violino, innanzitutto, l'art. 3 della Costituzione per irragionevole parificazione del trattamento di situazioni differenziate, "tenuto conto che, durante l'aspettativa per mandato parlamentare, agli altri dipendenti pubblici è preclusa la possibilità di esercitare mansioni inerenti al rapporto di impiego, mentre ai docenti universitari è consentito, a norma dell'art. 13 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, di svolgere numerose attività didattiche, scientifiche e attinenti al governo dell'Università specificamente indicate dallo stesso art. 13, penultimo comma, come modificato dall'art. 5 della legge 9 dicembre 1985, n. 705.

Il disconoscimento del "diritto dei docenti universitari alla conservazione dell'attribuzione di parte della retribuzione corrisposta dalle Università per lo svolgimento di funzioni proprie della qualifica rivestita durante l'aspettativa per mandato parlamentare" motiva, poi, nelle stesse ordinanze di rimessione, l'ipotesi di violazione del precetto dell'art. 36 Costituzione.

Infine - sempre in ragione della denunciata estensione ai docenti universitari della disciplina del collocamento in aspettativa stabilita per gli altri pubblici dipendenti - sospettano i giudici a quibus la violazione ulteriore dell'art. 33 - che tutela l'autonomia delle istituzioni universitarie - e dell'art. 76 Costituzione, per avere il legislatore delegato del 1993, con ciò, superato i limiti della delega di cui alla legge n. 421 del 1992, riguardante il settore del pubblico impiego "senza alcun riferimento alla docenza universitaria".

2. - Nei giudizi innanzi a questa Corte, si sono costituite le parti private, svolgendo, per il tramite dei propri difensori (avvocati Villani e Acquarone) argomentazioni adesive a quelle dei giudici a quibus.

Rilievo centrale, nel quadro di tali difese, ha la considerazione della peculiarità della posizione dei docenti universitari in aspettativa. I quali - a differenza di ogni altro pubblico impiegato che, in situazione siffatta, cessa da ogni attività - hanno viceversa, ex art. 13 del d.P.R. n. 382 del 1980, "la facoltà di compiere attività didattica e di ricerca per tutto il tempo in cui dura la situazione di incompatibilità".

In particolare - come sottolineato - essi infatti:

conservano il titolo a partecipare agli organi universitari cui appartengono, con le modalità previste dall'art. 14, terzo e quarto comma, della legge 18 marzo 1958, n. 311;

mantengono l'elettorato attivo per la formazione delle commissioni di concorso e per l'elezione alle cariche accademiche;

hanno la possibilità di svolgere - nel quadro dell'attività didattica programmata dal consiglio di corso di laurea, di dottorato di ricerca, delle scuole di specializzazione e delle scuole a fini speciali - cicli di conferenze e di lezioni ed attività seminariali anche nell'ambito dei corsi ufficiali di insegnamento, d'intesa con il titolare del corso nonché attività di ricerca anche applicativa.

3. - Per la inammissibilità per irrilevanza o, in subordine, per l'infondatezza della questione così sollevata ha invece concluso l'Avvocatura dello Stato per l'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri.

Innanzitutto - secondo l'Avvocatura - "se pure si dovesse applicare nella fattispecie l'art. 13 del d.P.R. n. 382 del 1980 (così come avverrebbe se ai docenti universitari non si rendesse applicabile direttamente l'art. 71 del decreto n. 29 del 1993 bensì la pregressa disciplina ex art. 72 dello stesso decreto e 2, d.lgs. n. 546 del 1993), la soluzione non cambierebbe", poiché proprio il citato art. 13 aveva in realtà già parificato la posizione dei docenti universitari a quella del restante personale statale in materia di aspettativa per mandato parlamentare, estendendo anche ai primi l'obbligo dell'aspettativa in luogo della facoltatività della stessa precedentemente prevista (art. 88, terzo comma, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361) e rinviando (art. 13, terzo comma, del d.P.R. n. 382 del 1980), per quel che concerne il trattamento economico da corrispondere durante il periodo di aspettativa, alle disposizioni vigenti per il personale civile "dello Stato". (In virtù del quale rinvio appunto - e non già di una "prerogativa per i professori" - era stata estesa ai medesimi la disciplina del computo parziale, tra trattamento di attività ed indennità parlamentare ex legge n.1261 del 1965, già applicabile a tutti i pubblici dipendenti collocati in aspettativa obbligatoria).

D'altra parte - poiché la norma che prevede l'attività dei docenti collocati in aspettativa obbligatoria, volta in via precaria a tutelare il diritto dei medesimi alla esplicazione del pensiero anche in funzione della promozione della cultura e della ricerca, è concepita come "facoltà" rimessa alla libera scelta del docente - "la ipotetica questione avrebbe potuto, al limite, sorgere solo per la speciale categoria dei docenti-parlamentari che, già in situazione di aspettativa obbligatoria senza assegni, avessero in concreto anche chiesto di svolgere le attività consentite dalla norma; che tali attività avessero svolto; che sostenessero di avere svolto dette attività nell'esclusivo interesse della istituzione; che le svolte attività dovessero essere retribuite e nella ipotesi di avvenuto rifiuto di pagamento": evenienza - questa - che certamente però non ricorre nella fattispecie.

E ciò a prescindere dalla considerazione che, ove il legislatore avesse inteso riconoscere un beneficio economico in considerazione della prosecuzione delle attività didattiche, scientifiche ed accademiche svolte dal docente collocato in aspettativa ai sensi dell'art. 13, avrebbe dovuto poi estendere tale riconoscimento a tutte le ipotesi di aspettativa, e non solo a quella per mandato parlamentare.

Comunque - osserva ancora l'Avvocatura - superato definitivamente, e senza alcun elemento innovativo, ogni aspetto esegetico della disciplina in esame, con la norma interpretativa dell'art. 22, comma 38, della legge n. 724 del 1994, non rimane, a questo punto, che la "singolare pretesa" dei docenti universitari di continuare a percepire un duplice trattamento retributivo a confronto di una sola prestazione imposta ex lege.

4. - Nella imminenza della udienza di discussione, le parti private hanno anche depositato una ampia e diffusa memoria congiunta per replicare alle eccezioni e deduzioni dell'Avvocatura.

In particolare hanno sostenuto che l'avversa tesi - per cui le norme di temporanea inapplicabilità ai docenti universitari delle disposizioni del decreto legislativo n. 29 del 1993, sub art. 72 comma 4 dello stesso decreto e 2 del successivo decreto n. 546 del 1993, avrebbero inteso differire la sola disciplina di privatizzazione del rapporto di impiego e non anche la disciplina retributiva - è assolutamente arbitraria e priva di riscontri esegetici; e che "ancor più specioso" sarebbe il rilievo di controparte per cui la deroga ex artt. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993 e 2 del d.lgs. 1995 si "autoeliderebbe" per effetto dell'operato rinvio all'art. 13 del d.P.R. n.382 del 1980, poiché viceversa, "elementari ragioni di logica giuridica portano a ritenere che quel rinvio abbia natura di rinvio materiale per cui, in attesa della preannunciata disciplina organica, ove non fosse intervenuta la censurata interpretazione autentica contenuta nella legge n. 724 del 1994, il trattamento economico dei professori universitari eletti al Parlamento nazionale sarebbe stato quello stabilito dalla legge 31 ottobre 1965, n. 1261".

Considerato in diritto

 

1. - Preliminarmente va disposta la riunione dei giudizi per identità di oggetto.

2. - La disposizione dell'art. 71, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 - secondo cui "i dipendenti delle pubbliche amministrazioni eletti al Parlamento nazionale sono collocati in aspettativa senza assegni per la durata del mandato parlamentare" - viene denunciata, dai giudici a quibus, unitamente all'art. 22, comma 38, della successiva legge 23 dicembre 1994, n. 724 che, interpretandola autenticamente, ne ha dichiarato la "applicabilità anche ai professori e ricercatori universitari a decorrere dalla data di entrata in vigore del predetto decreto....".

Poiché nessun problema di legittimità si pone in ordine alla norma retroattiva di interpretazione in quanto tale, resta evidentemente fuori dal presente giudizio, perché estranea al thema decidendum, la disputa esegetica (su cui pur hanno insistito le opposte difese) circa la portata applicativa del citato art. 71 del decreto n. 29 del 1993 nel quadro normativo anteriore al riferito intervento di interpretazione autentica del legislatore del '94; e la questione devoluta all'esame della Corte conseguenzialmente si risolve proprio nello stabilire se contrasti o non, con gli indicati parametri costituzionali (artt. 3, 33, 36, 76), l'introduzione, così operata, del divieto di cumulo dell'indennità parlamentare con la retribuzione "anche dei professori universitari".

Il fatto che a detti docenti - "a differenza che ad ogni altro pubblico impiegato che cessa da ogni attività" con la messa in aspettativa per mandato parlamentare - sia viceversa riconosciuta, dall'art. 13 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, la "possibilità di svolgere [...] conferenze [...] lezioni [...] attività seminariali [...] di ricerca" induce i giudici a quibus a ritenere (condividendo la prospettazione dei ricorrenti) che per i professori universitari dovesse mantenersi fermo il pregresso regime di (parziale) cumulo retributivo di cui all'art. 3 della legge n. 1261 del 1965, come richiamato dal già menzionato art. 13 del d.P.R. n. 382 del 1980.

Dal che il corollario che l'opposta opzione legislativa sub art. 22 della legge n. 724 del 1994 si ponga in contrasto con l'art. 3, per irragionevole identità di trattamento di situazioni differenziate; con l'art. 36, per il consentito svolgimento, da parte dei docenti, di attività lavorative non retribuite; con l'art. 33, per il vulnus che ne deriverebbe alla "autonomia" della istituzione universitaria; con l'art. 76 della Costituzione per eccesso della censurata disciplina dai limiti della delega (art. 2, legge n. 421 del 1992) che non avrebbe autorizzato il legislatore delegato ad occuparsi dello specifico settore della docenza universitaria.

3. - L'impugnativa così formulata è ammissibile, e va perciò respinta la contraria eccezione dell'Avvocatura.

Non rileva infatti che il TAR ed il Consiglio di Stato non abbiano accertato, nei giudizi a quibus, se i ricorrenti avessero di fatto svolto o chiesto, comunque, di continuare a svolgere alcuna delle attività didattiche innanzi indicate, una volta che il ripristino del cumulo retributivo, per via di reductio ad legitimitatem, è in tesi auspicato non nei confronti dei soli docenti parlamentari che abbiano in concreto svolto parallela attività di insegnamento bensì per l'intera categoria dei professori universitari in aspettativa per mandato parlamentare, direttamente in ragione del fatto che l'esercizio di una tale attività è loro virtualmente consentita.

4. - D'altra parte, proprio i rilevati profili di prospettazione della questione ne evidenziano la non fondatezza nel merito, in relazione ai parametri di cui agli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Infatti, la mera "possibilità", di cui all'invocato art. 13 del d.P.R. n. 382 del 1980, di un concorrente esercizio di talune circoscritte e ridotte attività didattiche - rimessa alla discrezionalità del docente parlamentare in ordine alla misura e frequenza del loro svolgimento con piena libertà anche di non svolgerle affatto - si risolve, agli effetti del trattamento economico qui in discussione, in un dato normativo non significante in termini di diversificazione della posizione del professore universitario rispetto a quella di ogni altro pubblico impiegato. Non senza considerare che, da un lato, la garanzia apprestata dall'art. 36 della Costituzione non esclude la legittimità di una prestazione volontariamente resa senza la previsione di un compenso, e che, dall'altro, la esclusione della corresponsione degli assegni è frutto di una libera opzione dell'interessato in favore dell'indennità parlamentare, opzione che rende pertinente alla specie anche il principio secondo il quale quella garanzia "non può essere riferita a singole fonti della retribuzione" - per di più, come in questo caso meramente virtuali - "ma [deve esserlo] alla sua globalità" (cfr. sentenza n. 141 del 1974, in tema di professori incaricati). Rilievo, quest'ultimo, che, a maggior ragione, vale rispetto a collaterali attività di docenza universitaria le quali, per la loro rispondenza anche a finalità di affinamento culturale nell'interesse dello stesso docente, si pongono fuori dall'area della retribuzione necessaria (cfr. sentenza n. 41 del 1977 ed ancora sentenza n. 141 del 1974 cit.). E va ancora ricordato che, proprio con riguardo al lavoro di ricerca e seminariale effettuabile dal docente in aspettativa parlamentare ai sensi del menzionato art. 13 d.P.R. n. 382 del 1980, questa Corte ha già sottolineato come la correlativa previsione normativa realizzi "un equo contemperamento tra le esigenze da riconoscersi al docente, come a tutti i cittadini, di partecipare alla vita politica, e le esigenze del mantenimento dei contatti del docente con la vita universitaria, dalla quale non rimane estraniato ed assente del tutto, svolgendo [ove lo ritenga ...] un'attività di docenza sia pur limitata" (sentenza n. 158 del 1985).

5. - Appunto in questa facoltà di svolgere, pur nel periodo di aspettativa, le attività previste dall'art. 13 citato deve ravvisarsi non una menomazione, ma anzi una espressione della autonomia garantita dall'art. 33 della Costituzione alla istituzione universitaria, quale diritto riconosciuto al docente di svolgere, nell'ambito di tale autonomia, la sua libertà di ricerca e di insegnamento. Donde la insussistenza della ipotizzata violazione del menzionato art. 33, a prescindere comunque dalla non pertinenza di tale parametro al problema del trattamento economico dei docenti, posto che l'autonomia oggetto di tale disposizione "non attiene allo stato giuridico dei professori universitari" (cfr. sentenza n. 51 del 1966), "i quali sono legati da rapporto di impiego con lo Stato e sono di conseguenza soggetti alla disciplina che la legge statale ritiene di adottare" (sentenza n. 145 del 1985).

6. - Infondato è infine l'ultimo profilo di censura per violazione dell'art. 76 Costituzione, poiché la riferibilità anche ai professori universitari del divieto di cumulo tra indennità parlamentare e retribuzione dettato dalla legge di delega, riferibilità negata dai giudici rimettenti per inferirne un preteso eccesso di delega del legislatore delegato del 1993, emerge invece inequivocabilmente dal tenore letterale dell'art. 2 della legge n. 421 del 1992 - rivolto senza riserva alcuna a tutti i "dipendenti delle pubbliche amministrazioni eletti al Parlamento" - ed è ulteriormente confermata dall'andamento dei lavori parlamentari. Nel corso dei quali è stata pur prospettata, ma poi espressamente respinta, l'ipotesi di una deroga all'introduzione di divieto di cumulo in favore dei professori universitari (cfr. in particolare Atti Senato, 41^ Seduta, 15 settembre 1992).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 71, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dell'art. 22, comma 38, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata in riferimento agli artt. 3, 33, 36 e 76 della Costituzione, con le ordinanze del TAR del Lazio e del Consiglio di Stato indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 5 febbraio 1996.