Sentenza n. 374 del 1995

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SENTENZA N. 374

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI 

-     Prof. Francesco GUIZZI 

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 97, terzo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 26 aprile 1994 dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari, sui ricorsi riuniti proposti da Masini Benedetto contro il Ministero delle finanze, iscritta al n. 692 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1994;

udito nella camera di consiglio del 14 giugno 1995 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un giudizio promosso da un pubblico dipendente per l'annullamento della sua destituzione dall'impiego, il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari, con ordinanza del 26 aprile 1994 (pervenuta alla Corte costituzionale il 7 novembre 1994) ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 97, terzo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) nella parte in cui dispone che, per i casi di proscioglimento dell'impiegato sottoposto a procedimento penale, con formula diversa da "il fatto non sussiste" o "l'imputato non lo ha commesso", il procedimento disciplinare debba avere inizio entro 180 giorni dalla data in cui la sentenza di proscioglimento sia divenuta irrevocabile e non invece dalla data del deposito della sentenza che ha determinato l'irrevocabilità del proscioglimento.

Nella specie era avvenuto che, con sentenza della Corte di appello di Bari del 5 novembre 1990, depositata il 3 dicembre 1990, il pubblico dipendente era stato assolto dal reato di associazione per delinquere per insussistenza del fatto e prosciolto per amnistia e prescrizione relativamente ai reati di truffa e falso in bilancio.

A seguito di impugnativa proposta avverso detta sentenza, la Corte di cassazione, con decisione n. 6149 resa il 28 febbraio 1992 (ma depositata il 22 maggio 1992), ha dichiarato inammissibile il ricorso, con la conseguenza che la sentenza della Corte di appello è divenuta irrevocabile nella stessa data del 28 febbraio 1992.

L'amministrazione centrale di appartenenza (il Ministero delle finanze) è venuta, però, a conoscenza della citata sentenza n. 6149 del 1992 della Corte di cassazione soltanto il 21 settembre 1992, per il tramite dell'ufficio periferico che le ha trasmesso la decisione. Il procedimento disciplinare a carico del dipendente veniva così avviato , con la contestazione degli addebiti, in data 17 novembre 1992 e concluso con decreto del Ministro in data 9 giugno 1993, notificato il successivo 14 giugno.

Ciò premesso, il giudice a quo - ricordato che, a tenore dell'art. 97 del testo unico n. 3 del 1957, il procedimento disciplinare deve avere inizio entro 180 giorni "dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento od entro 40 giorni dalla data in cui l'impiegato abbia notificato all'amministrazione la sentenza stessa", e ritenuta la perentorietà del primo termine - si duole che la norma impugnata non faccia invece decorrere i termini per l'esercizio dell'azione disciplinare almeno dal verificarsi di un evento certo, quale il deposito della sentenza.

Nell'ordinanza di rimessione si dà atto che, con sentenza n. 264 del 1990, la Corte ha già dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 97 ora impugnato, ma, al fine di superare la inammissibilità di una mera riproposizione della stessa questione, si sostiene che il mutato contesto storico-sociale, dipendente dall'espandersi di fenomeni di illegalità nel campo della pubblica amministrazione, che non si sarebbe ancora rivelato in tutta la sua virulenza all'epoca della adozione della sentenza n. 264 citata, giustifica una nuova valutazione del "bilanciamento di interessi e valori coinvolti" che fece allora la Corte; ciò al fine di consentire che, con un accurato controllo disciplinare sul personale pubblico, possa ottenersi la migliore tutela del valore del buon andamento dell'amministrazione. Ma tale controllo non potrebbe essere efficacemente esercitato perchè, in virtù della norma censurata, il termine per l'inizio dell'azione disciplinare viene a decorrere al verificarsi di avvenimenti che l'amministrazione non è in grado di conoscere tempestivamente perchè o non è o non può costituirsi in giudizio; ciò avviene nel caso di lettura del dispositivo in udienza (art. 648, comma 2, c.p.p.) o di pronunzia del provvedimento camerale (artt. 611, 615 c.p.p.).

L'irragionevolezza dell'assetto normativo denunciato emerge ancor più evidente se si considera la lentezza dei procedimenti penali, che sovente si concludono con declaratorie di cause estintive dei reati contestati.

Altro profilo di illegittimità costituzionale della norma denunciata sarebbe ravvisabile, poi, nel fatto che, mentre sembrerebbe sussistere nell'ordinamento un implicito, generico obbligo dell'amministrazione della giustizia "di trasmettere la notizia dell'irrevocabilità delle sentenze di proscioglimento" alla amministrazione di appartenenza dell'imputato, mancherebbe però idonea sanzione per i casi di trasmissione tardiva delle notizie, tale da non consentire più il tempestivo esercizio dell'azione disciplinare.

Considerato in diritto

1.- È stata sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 97, terzo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), il quale prevede che il procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente dello Stato deve avere inizio entro 180 giorni "dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento". Si sostiene nell'ordinanza di rinvio che far decorrere il termine di 180 giorni, entro il quale, a pena di decadenza, deve essere iniziata l'azione disciplinare, dalla data in cui la sentenza di proscioglimento sia divenuta irrevocabile è irragionevole e contrario al principio del buon andamento, per la difficoltà che la pubblica amministrazione incontra a conoscere il momento in cui tale evento si verifica indipendentemente dal deposito della sentenza conclusiva dell'iter processuale.

È stata altresì sollevata questione di legittimità costituzionale della medesima norma, in riferimento agli stessi parametri costituzionali sopra detti, nella parte in cui essa non prevede a carico dei funzionari dell'amministrazione della giustizia un espresso obbligo, sanzionato penalmente o amministrativamente, di trasmettere la notizia della intervenuta irrevocabilità della sentenza di proscioglimento alla pubblica amministrazione di appartenenza del dipendente, ai fini del tempestivo esercizio dell'azione disciplinare.

2.1.- La prima questione è fondata, relativamente al profilo in cui è censurata l'irrilevanza della data di deposito del provvedimento che determina o dichiara la formazione del giudicato penale di proscioglimento.

Come la stessa ordinanza di rimessione mostra di farsi carico, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 97, terzo comma, del testo unico degli impiegati civili dello Stato n. 3 del 1957, è stata già esaminata da questa Corte che la dichiarò non fondata con la sentenza n. 264 del 1990.

La questione oggetto del presente giudizio è stata prospettata, però, in termini diversi da quelli disattesi con la citata sentenza, che escluse la possibilità di una pronuncia correttiva, nei termini allora invocati. Nell'ordinanza di rinvio si sottolineava l'esigenza che il detto termine di 180 giorni, stabilito a pena di decadenza per l'esercizio dell'azione disciplinare, decorresse, invece che dalla data in cui la sentenza definitiva fosse divenuta irrevocabile, dalla data della comunicazione della sentenza stessa da parte degli uffici giudiziari all'amministrazione di appartenenza del dipendente. In relazione a questa prospettazione, la Corte ha ritenuto, nella menzionata sentenza n. 264 del 1990, che nel bilanciamento tra i contrapposti interessi, quale "quello dell'amministrazione a non vedersi impedito l'esercizio del potere disciplinare e quello dell'impiegato a vedere definita la sua posizione", non fosse irragionevole far decorrere tale termine di 180 giorni da un evento obiettivo e certo quale il passaggio in giudicato della sentenza penale definitiva di pro scioglimento, in luogo di un evento incerto, quale quello della comunicazione della sentenza all'amministrazione, rimesso all'iniziativa o alla collaborazione degli addetti agli uffici giudiziari.

2.2.- Nel presente giudizio la questione viene prospettata sotto un profilo diverso, in quanto si denuncia l'irragionevolezza della norma ponendosi in risalto, come si è ricordato, le difficoltà che incontra l'amministrazione a conoscere, prima del deposito della sentenza (o ordinanza) terminativa del processo, il momento in cui si è verificata la irrevocabilità della pronuncia di proscioglimento quando, come nella specie, questo momento non coincida, perchè precedente, con il deposito della sentenza (o ordinanza) con cui l'iter processuale si conclude.

Orbene, proprio muovendo dalle considerazioni svolte nella menzionata sentenza n. 264 del 1990 - secondo cui risponde alle esigenze di bilanciamento fra i contrapposti interessi riferire ad un evento certo la decorrenza del termine di decadenza per l'esercizio dell'azione disciplinare - non può considerarsi ragionevole ancorare il decorso del termine anzidetto ad un evento che non presenta i requisiti di certezza che soli possono derivare dal deposito del provvedimento che conclude il processo, quando tale deposito sia successivo alla data di formazione del giudicato di proscioglimento (adottato per motivi diversi da quelli dell'insussistenza del fatto e della non commissione del fatto da parte dell'imputato). In proposito, si deve osservare che la norma impugnata si riferisce genericamente, nello stabilire il dies a quo del termine di decadenza di 180 giorni, alla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento.

Ma questo evento può verificarsi sia per effetto della stessa sentenza (poi divenuta) irrevocabile, come nel caso di sentenza di merito non impugnata nel termine stabilito dalla legge, sia per effetto di altro provvedimento, emesso dal giudice investito dell'impugnazione avverso l'anzidetta sentenza, provvedimento a sua volta divenuto irrevocabile.

Mentre è da ritenersi pacifico che, nel caso in cui si tratti di sentenza di merito non impugnata, l'irrevocabilità della pronuncia non può prescindere dal deposito della relativa motivazione, necessariamente anteriore, diverso è il caso della sentenza di merito impugnata, anche tardivamente.

Basta al riguardo considerare, fra le varie possibili, l'ipotesi, verificatasi nel giudizio a quo, in cui l'irrevocabilità maturi a seguito di declaratoria di inammissibilità (o, anche, di rigetto) del ricorso per Cassazione, formandosi il giudicato di proscioglimento alla data della lettura del dispositivo (art. 648, comma 2, secondo periodo, del codice di procedura penale), ma verificandosi il deposito della motivazione in un tempo, anche sensibilmente, successivo (cfr. art. 617 c.p.p.). Analogamente, può verificarsi una significativa scissione temporale tra data di formazione del giudicato e deposito del provvedimento conclusivo dell'intero iter processuale quando questo sia rappresentato da una declaratoria di inammissibilità del gravame, segnatamente per tardività dell'impugnazione proposta; vicenda, questa, che comporta, secondo gli orientamenti della giurisprudenza, la formazione del giudicato con decorrenza dalla scadenza del termine per impugnare la pronuncia di merito, solo formalmente dichiarata dalla successiva decisione del giudice dell'impugnazione.

2.3.- A seguirsi la disposizione censurata, che prescinde in ogni caso dal momento di deposito del provvedimento giurisdizionale che conclude in via definitiva l'iter del processo, determinando o dichiarando l'irrevocabilità della statuizione di proscioglimento, si manifesta, come posto in risalto nell'ordinanza di rinvio, una reale incertezza per l'amministrazione: sia in ordine alla conoscenza tempestiva della data di irrevocabilità, giacchè, in particolare nella seconda ipotesi sopra fatta, è pendente comunque una impugnazione, anche se successivamente ne sia verificata l'inammissibilità; sia in ordine alla valutazione del fatto da apprezzare in ambito disciplinare, conoscibile talvolta nella sua completezza oggettiva e soggettiva solo in base alla motivazione del provvedimento conclusivo dell'intero processo. Nelle ipotesi considerate, dunque, l'esercizio dell'azione disciplinare potrebbe risultare aleatorio o anche precluso, risultandone vulnerato quel requisito di certezza obiettiva sottolineato da questa Corte nella richiamata sentenza n. 264 del 1990, quale elemento di ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi sottesi alla potestà disciplinare della pubblica amministrazione.

2.4.- Da quanto precede risulta il contrasto della norma impugnata con i parametri costituzionali invocati, sia sotto il profilo della ragionevolezza che sotto quello del buon andamento della pubblica amministrazione, perchè, prescindendosi dal momento del deposito del provvedimento (sentenza o ordinanza) che dichiara o che stabilisce l'irrevocabilità del proscioglimento, per determinare l'evento dal quale decorre il termine previsto per l'inizio del procedimento disciplinare, si rende estremamente difficoltoso l'esercizio della relativa potestà amministrativa, che può addirittura risultare in talune ipotesi impedita.

Per ricondurla a conformità con i parametri costituzionali detti, la norma impugnata deve essere pertanto dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevede, in caso di sentenza o ordinanza che pronunci in sede di impugnazione, che il procedimento disciplinare debba avere inizio entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento, indipendentemente dalla data di deposito della decisione, conclusiva dell'iter processuale, resa appunto in sede di impugnazione, se detta data sia successiva a quella di formazione del giudicato di proscioglimento.

3.- La questione relativa alla richiesta addizione normativa di un obbligo positivo e sanzionato espressamente, a carico dei "funzionari del Ministero di grazia e giustizia" (recte: dei responsabili amministrativi degli uffici giudiziari), di comunicazione della notizia della intervenuta irrevocabilità della sentenza terminativa, già disattesa da questa Corte nella citata sentenza n. 264 del 1990, deve, per le considerazioni ivi svolte, essere dichiarata manifestamente infondata, tanto più alla luce dell'accoglimento della prima questione sollevata, idoneo a garantire le esigenze poste dal remittente a base dell'ulteriore censura, senza interferire in ambiti di scelte affidate alle determinazioni legislative nella materia.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell' art. 97, terzo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui prevede, in caso di sentenza o ordinanza che pronuncia sull'impugnazione, che il procedimento disciplinare deve avere inizio entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento, indipendentemente dalla data di deposito della sentenza o ordinanza conclusiva del procedimento, se successiva alla data in cui si verifica l'irrevocabilità della pronuncia di proscioglimento;

2) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 97, terzo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), relativamente alla parte in cui non prevede a carico dei responsabili degli uffici giudiziari un obbligo di trasmissione della notizia della irrevocabilità della sentenza di proscioglimento alla pubblica amministrazione di appartenenza del dipendente sottoposto a procedimento penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 1995.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

Depositata in cancelleria il 25 luglio 1995.