Sentenza n.147 del 1994

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SENTENZA N. 147

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Prof. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 308, secondo comma, secondo periodo, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 17 maggio 1993 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Sondrio, nel procedimento penale a carico di Bissi Giampaolo ed altri, iscritta al n. 464 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 25 gennaio 1994 il Giudice relatore Massimo Vari.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Nel corso di un procedimento penale a carico di alcuni amministratori del comune di Teglio (sindaco, vicesindaco, assessori, componenti la commissione edilizia) -indagati per i delitti previsti dagli artt. 323, primo e secondo comma, 476 e 490 del codice penale- il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Sondrio, con ordinanza del 17 maggio 1993, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25 e 76 della Costituzione, dell'art. 308, secondo comma, secondo periodo, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, anche per le esigenze di cui all'art. 274, lettera c), sia possibile la rinnovazione delle misure interdittive nel rispetto dei termini di cui all'art.308, primo comma, dello stesso codice.

 

In punto di rilevanza, il remittente osserva che, sussistendo il concreto pericolo che gli imputati possano commettere gravi delitti della stessa specie, dalla risoluzione di detta questione dipende la decisione del procedimento attinente alla rinnovazione della misura cautelare interdittiva della sospensione dalla carica ricoperta, già concessa a suo tempo, ovvero relativa all'applicazione della misura coercitiva degli arresti domiciliari, chiesta in subordine dal pubblico ministero.

 

Peraltro, poichè, ai sensi dell'art. 308 del codice di procedura penale, le misure interdittive hanno una efficacia limitata a due mesi e possono essere rinnovate, nel limite del doppio dei termini di durata massima della custodia cautelare, solo quando siano state disposte per esigenze probatorie, il remittente ritiene che tale limitazione contrasti, anzitutto, con l'art. 3 della Costituzione.

 

Rammentato che, come previsto dall'art. 275 del codice di procedura penale, la scelta delle misure cautelari deve rispondere al principio di adeguatezza, l'ordinanza osserva che, quando l'esigenza cautelare della prevenzione permane anche dopo il previsto bimestre di efficacia delle misure interdittive, al pubblico ministero non resta che chiedere l'adozione di misure restrittive della libertà personale anche se sproporzionate rispetto all'esigenza da soddisfare. Appare, pertanto, irrazionale la norma impugnata, la quale, per casi simili, vale a dire quello delle esigenze probatorie e quello della prevenzione, prevede un trattamento differenziato, ancorchè le medesime appaiano meritevoli dello stesso grado di tutela.

 

La limitazione di cui alla norma impugnata sarebbe, inoltre, in contrasto con l'art. 25 della Costituzione, poichè la necessità di richiedere, ove l'esigenza cautelare permanga, l'applicazione di una misura cautelare coercitiva (nella specie quella degli arresti domiciliari), comporta una restrizione della libertà personale, altrimenti evitabile qualora fosse consentita la rinnovazione della misura interdittiva.

 

Sarebbe, infine, violato l'art. 76 della Costituzione, in quanto la norma impugnata mal si coordina, secondo il remittente, con i punti 59 e 65 dell'art. 2 della legge di delega, ispirati al principio di adeguatezza e gradualità delle misure cautelari.

 

2.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

 

Osserva l'Avvocatura che la scelta operata dal legislatore delegato, nel fissare un breve termine di durata delle misure interdittive e nel limitarne la possibilità di proroga, appare giustificata dal contenuto gravemente afflittivo che è proprio delle misure in questione, salva la possibilità di una eventuale proroga in relazione al protrarsi di esigenze probatorie, non valutabili ex ante.

 

Peraltro, mentre non si comprende il richiamo all'art. 25 della Costituzione, non sussiste nemmeno il contrasto con l'art. 76, in quanto nei punti 59 e 65 dell'art. 2 della legge di delega non risulta formulato il principio di adeguatezza (di cui all'art. 275, primo comma, del codice di procedura penale), principio che comunque non è pregiudicato dalla scadenza del termine di durata della misura interdittiva, essendo possibile anche in questo momento l'utilizzazione di misure coercitive di diverso contenuto applicativo.

 

Considerato in diritto

 

1.- La Corte è chiamata a decidere della legittimità costituzionale dell'art. 308, secondo comma, secondo periodo, del codice di procedura penale, nella parte in cui non stabilisce che, anche per le esigenze di prevenzione di cui all'art. 274, lettera c), dello stesso codice, sia possibile la rinnovazione delle misure interdittive, nel rispetto dei termini di cui al citato art. 308, primo comma, come invece è consentito in caso di esigenze probatorie.

 

2.- Secondo il giudice remittente la norma impugnata contrasterebbe, anzitutto, con l'art.

 

3 della Costituzione, essendo del tutto irrazionale il trattamento differenziato rispetto a due esigenze cautelari -quella dei motivi probatori e quella della prevenzione- entrambe meritevoli dello stesso grado di tutela. Il trattamento differenziato, non consentendo, per la misura disposta a fini di prevenzione, nessuna rinnovazione al di là dell'esiguo termine di due mesi, rende spesso sterile l'adozione della misura stessa, giustificando lo scarso interesse del magistrato inquirente a richiederla. Ove, poi, l'esigenza di prevenzione continui a permanere anche dopo la scadenza del bimestre di efficacia, essa può essere soddisfatta soltanto mediante l'applicazione di una misura coercitiva, anche se sproporzionata rispetto all'esigenza da salva guardare, in contrasto col principio di adeguatezza delle misure cautelari, accolto come naturale conseguenza della scelta pluralistica del legislatore, nel successivo art. 275 del codice di procedura penale.

 

La necessità del ricorso ad una misura cautelare coercitiva con la conseguente restrizione della libertà personale, altrimenti evitabile qualora fosse consentita la rinnovazione della misura interdittiva, pone, secondo l'ordinanza, la norma denunciata in contrasto altresì con l'art. 25 della Costituzione. Sussisterebbe, infine, violazione dell'art. 76 della Costituzione, apparendo la censurata limitazione in contrasto con i punti 59 e 65 dell'art. 2 della legge di delega 16 febbraio 1989, n. 81, ispirati al principio di adeguatezza e gradualità delle misure cautelari.

 

3.- La questione non è fondata.

 

Come ricorda il giudice a quo, le esigenze cautelari per la cui soddisfazione possono essere emesse anche le misure interdittive, attengono, ai sensi dell'art. 274 del codice di procedura penale, alle indagini (lettera a, del citato articolo), al pericolo di fuga (lettera b) ed alla prevenzione (lettera c).

 

La premessa dalla quale il remittente muove, nel prospettare la violazione dell'art. 3 della Costituzione, è quella di una sostanziale assimilazione fra le situazioni prese in considerazione dal legislatore, nel prevedere le misure interdittive a fini di prevenzione di cui alla lettera c) dell'art. 274, e quelle sottese alle misure interdittive disposte per fini probatori, giusta la lettera a) dello stesso articolo.

 

Senonchè un'assimilazione piena tra le due situazioni non appare prospettabile, in quanto, se è vero che, quando si tratta di misure disposte per soddisfare esigenze istruttorie del processo, la facoltà di una reiterazione del provvedimento cautelare interdittivo può trovare giustificazione nella preminenza dell'interesse al buon esito del processo stesso, diversa è l'ipotesi in cui l'applicazione della misura interdittiva sia legata ad esigenze extraprocessuali di tipo preventivo, perchè, in tale caso, l'incidenza del provvedimento in ambiti ordinariamente di competenza di altre autorità ha richiesto, evidentemente, una diversa ponderazione degli interessi coinvolti, che ha indotto il legislatore a limitare, anche sotto il profilo temporale, gli effetti dell'intervento del giudice penale.

 

Trova, in tal modo, riconoscimento nella disciplina del codice di rito, per quanto attiene in particolare all'ipotesi della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289), l'interesse a non incidere, oltre lo stretto necessario, nello svolgimento delle competenze proprie dell'autorità amministrativa, attraverso una disciplina che, valutata in chiave sistematica, appare volta ad armonizzare, nella salvaguardia delle reciproche sfere, i rapporti inter correnti tra l'autorità giudiziaria e quella amministrativa.

 

A tanto concorre anche l'ultimo comma dell'art. 293 del codice di procedura penale, il quale stabilisce che copia dell'ordinanza che dispone la misura interdittiva è trasmessa all'organo eventualmente competente a disporre l'interdizione in via ordinaria, consentendo, in tal modo, come evidenziato anche nella relazione al progetto preliminare del codice, il "raccordo tra l'esercizio dei poteri cautelari nell'ambito del processo penale e l'esercizio dei poteri conferiti in via ordinaria ad organi estranei a tale processo".

 

Nella generale coerenza del quadro sopra accennato rientra, infine, la norma contenuta nel terzo comma della disposizione impugnata, secondo la quale l'estinzione delle misure non pregiudica l'esercizio dei poteri che la legge attribuisce al giudice penale o ad altre autorità nell'applicazione di pene accessorie o di altre misure interdittive.

 

D'altro canto, una volta stabilito che la particolare ratio che ispira la descritta disciplina si differenzia da quella sottintesa all'ipotesi delle misure interdittive disposte per esigenze probatorie, il problema, posto dal giudice remittente, della eventuale incongruità del termine di durata della sospensione dall'esercizio di pubblici uffici, che, a suo avviso, sarebbe fonte di scarsa propensione all'utilizzo dell'istituto, coinvolge scelte di politica legislativa, riservate al legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità.

 

4.- Quanto agli altri profili di censura, del tutto inconferente appare il richiamo all'art. 25 della Costituzione che, nei principi enunciati, attinenti alla precostituzione del giudice e, più in generale, alla riserva di legge in materia di norme incriminatrici e misure di sicurezza, non offre dati normativi ai quali ricondurre la specifica problematica proposta dal giudice a quo, e cioé, quella di una restrizione della libertà personale, a suo parere, non giustificata ed altrimenti evitabile.

 

5.- Quanto, infine, al denunciato contrasto della norma impugnata con l'art. 76 della Costituzione, per violazione della delega di cui alla legge 16 febbraio 1987, n. 81, è da osservare che i criteri dell'adeguatezza e della proporzionalità si rinvengono, per vero, con sufficiente chiarezza, nella direttiva n.59 dell'art. 2 della legge stessa, relativamente alle misure coercitive, tanto che è fatto divieto di disporre la custodia in carcere se, con l'applicazione di altre misure di coercizione personale, possono essere adeguatamente soddisfatte le esigenze cautelari. Gli stessi criteri, dal punto di vista dello svolgimento della delega, trovano compiuta esplicazione nell'art. 275 del codice di procedura penale e nei canoni ivi dettati al giudice per la scelta delle misure da applicare.

 

Va, peraltro, rilevato che i criteri sopra ricordati devono, comunque, coniugarsi con altri del pari desumibili dalla stessa legge di delega.

 

Questa (direttiva n. 65 dell'art. 2), nell'autorizzare la previsione, in relazione a specifiche esigenze cautelari, di misure interdittive, ha espressamente contemplato la predeterminazione di termini di cessazione della loro efficacia, ponendo, così, un criterio di restrizione dell'ambito temporale di operatività dell'istituto, che giustamente è stato utilizzato dal legislatore delegato per l'emanazione di una disciplina nella quale, come testimonia la norma impugnata, trova ingresso anche la necessaria comparazione degli interessi coinvolti.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 308, secondo comma, secondo periodo, del codice di procedura penale, sollevata, in relazione agli artt. 3, 25 e 76 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Sondrio, con l'ordinanza di cui in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 1994.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Massimo VARI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 21/04/1994.