Sentenza n. 24 del 1992

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SENTENZA N. 24

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2, n. 31, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale) e degli artt.195, quarto comma, 500, quarto comma, e 512 del codice di procedura penale, promossi con n. 7 ordinanze emesse da diverse autorità giudiziarie, iscritte rispettivamente ai nn. 21, 214, 290, 429, 439, 497 e 555 del registro ordinanze 1991 e pubblicate nelle Gazzette Ufficiali della Repubblica nn. 6, 14, 18, 27, 33 e 36, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 dicembre 1991 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

1.1. Il Pretore di Firenze, con ordinanza del 30 ottobre 1990 (r.o. n.21 del 1991), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui vieta agli ufficiali ed agli agenti di polizia giudiziaria di deporre, in caso di irreperibilità del testimone, sul contenuto delle dichiarazioni da questi acquisite".

Il remittente premette che il processo concerne un tentativo di furto commesso in danno di turista straniera in transito a Firenze, divenuta irreperibile per avere mutato la propria residenza all'estero, e quindi assente al dibattimento nonostante il rituale esperimento della notificazione eseguita con deposito degli atti in cancelleria, a norma dell'art. 154 del codice di procedura penale.

Rileva altresì che il verbale di denuncia, per la parte in cui contiene dichiarazioni testimoniali, è stato dichiarato non acquisibile nel fascicolo dibattimentale per i seguenti motivi: a) impossibilità di procedere, per l'assenza del testimone, a previa contestazione delle dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria sul luogo e nell'immediatezza del fatto; b) inapplicabilità nella specie dell'art.511, secondo comma, del codice di procedura penale, il quale disciplina la leggibilità di atti già legittimamente acquisiti al processo, ma non amplia le condizioni di acquisibilità, stabilite dall'art. 500, quarto comma, dello stesso codice; c) impossibilità di applicare nella specie anche l'art. 512 (lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione), in quanto le dichiarazioni del testimone sono state rese alla polizia giudiziaria e non anche al pubblico ministero (e, comunque, anche ove fossero state rese al pubblico ministero, la lettura non sarebbe ugualmente consentita, in quanto l'irreperibilità sopravvenuta del testimone non appare costituire "impossibilità di ripetizione" dell'atto, posto che non trattasi di latitante o evaso e che, quindi, con le necessarie indagini, è reperibile la sua nuova dimora anche all'estero).

Ciò posto, prosegue il giudice a quo, a seguito dell'istanza del pubblico ministero di assunzione, quale testimone indiretto, del vigile urbano verbalizzante (in ordine alle circostanze riferite "a caldo" dalla derubata e trasfuse nel verbale di denuncia), diviene rilevante - in quanto dalla sua risoluzione dipende la possibilità per il pubblico ministero di introdurre prove a sostegno dell'accusa - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale, in quanto vieta agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di deporre, in caso di irreperibilità del testimone, sul contenuto delle dichiarazioni da questo acquisite.

La questione appare, poi, non manifestamente infondata in riferimento all'art. 3 della Costituzione, in quanto tale assoluto divieto si fonda sull'inaccettabile implicito presupposto della inattendibilità e tendenziosità dei testimoni qualora essi appartengono alla polizia giudiziaria, così violando il principio di eguaglianza e di pari dignità di tutti i cittadini dinanzi alla legge. Il legislatore, conclude il remittente, nell'intento di parificare i poteri delle parti, appare aver ecceduto in senso opposto, negando attendibilità a testi normalmente qualificati proprio per la loro funzione di primi interlocutori delle parti offese da comportamenti delittuosi.

1.2. Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, conclude per l'inammissibilità o, comunque, l'infondatezza della questione.

La questione sarebbe, innanzitutto, inammissibile per irrilevanza, in quanto il giudice a quo censura l'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale nella parte in cui vieta agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni "in caso di irreperibilità di questi"; ma, nella specie, nella stessa ordinanza di rimessione si afferma che il testimone non può considerarsi irreperibile, dato che, "con le necessarie indagini, è reperibile la sua nuova dimora anche all'estero". Ne deriva che, anche ove la norma impugnata fosse dichiarata illegittima, la testimonianza dell'agente di polizia giudiziaria non potrebbe comunque essere acquisita, ai sensi del terzo comma dello stesso art. 195.

Nel merito, l'Avvocatura osserva che il divieto, per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, della testimonianza de relato discende non da una aprioristica valutazione negativa della loro attendibilità, ma dalla circostanza che trattasi di soggetti istituzionalmente deputati alla raccolta, ai fini processuali, delle dichiarazioni dei terzi: la norma denunciata persegue una finalità di garanzia della genuinità delle acquisizioni processuali ed è frutto di scelta discrezionale del legislatore, come tale non censurabile in questa sede.

2.1. Con successive ordinanze del 19 dicembre 1990 e del 5 marzo 1991 (r.o. nn. 214 e 439 del 1991), il Pretore di Firenze ha nuovamente sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art.3 della Costituzione, dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale, svolgendo argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle contenute nell'ordinanza di rimessione di cui al precedente punto 1.1.

2.2. É intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale conclude per l'inammissibilità o, comunque, l'infondatezza della questione, rinviando alle considerazioni svolte nell'atto di intervento relativo all'ordinanza del medesimo giudice n. 21 del 1991.

3.1. Con ordinanza del 26 febbraio 1991 (r.o. n. 290 del 1991), il Tribunale di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111 e 112 della Costituzione, dell'art. 2, n. 31, della legge-delega 16 febbraio 1987, n.81 e degli artt. 195, quarto comma, 500, quarto comma, e 512 del codice di procedura penale.

Il remittente premette, in punto di fatto, che, nel corso dell'esame testimoniale di un ufficiale di polizia giudiziaria indicato dal pubblico ministero, è emerso che costui aveva assunto, nell'immediatezza del fatto, da persona poi deceduta dopo qualche ora a seguito di intossicazione acuta da eroina, informazioni in ordine all'identità del soggetto che aveva ad essa fornito la detta sostanza stupefacente. Allorchè l'ufficiale di polizia giudiziaria era sul punto di riferire il contenuto delle dichiarazioni acquisite, la difesa dell'imputato ha eccepito il divieto di deposizione de relato di cui all'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale; la medesima difesa si è poi opposta alla richiesta del pubblico ministero di allegazione al fascicolo d'ufficio - in quanto atto irripetibile - del verbale delle informazioni assunte (redatto dalla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 357, lett. c), c.p.p.), richiamandosi agli artt. 500, quarto comma, e 512 del codice stesso.

Ciò posto, il giudice a quo osserva che il congegno normativo oggetto di censura - in attuazione della direttiva n. 31 dell'art.2 della legge delega - è così articolato: divieto assoluto per il testimone ufficiale o agente di polizia giudiziaria di deporre sulle dichiarazioni ricevute (art. 195, quarto comma); divieto di lettura del verbale redatto ex art. 357, lett. c), nonostante la sopravvenuta irripetibilità delle dichiarazioni, consentendosi solo la lettura degli atti, divenuti irripetibili, assunti dal pubblico ministero o dal giudice (art.512); divieto di acquisizione al fascicolo per il dibattimento dei verbali redatti ex art. 357, lett. c), ove non siano stati utilizzati per le contestazioni, anche quando la contestazione non è più possibile perchè l'esame non è più effettuabile (art. 500, quarto comma).

Tale congegno di sbarramento, prosegue il remittente, viola innanzitutto, quanto all'art. 195, quarto comma, il principio di ragionevolezza e di eguaglianza e pari dignità sociale dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 Cost.), in quanto discrimina i cittadini chiamati a testimoniare. Infatti, il terzo comma del citato articolo consente la testimonianza indiretta qualora la fonte non sia più esaminabile per morte, infermità o irreperibilità, ma ciò solo per i testimoni "comuni" e non per gli appartenenti alla polizia giudiziaria, per i quali vige invece il categorico divieto di cui al successivo quarto comma. Tale diversità di trattamento è irrazionale perchè non rispondente ad alcuna concreta situazione personale differenziale tra i soggetti chiamati a deporre, a meno che non si voglia sostenere che se il cittadino testimone è anche appartenente alla polizia giudiziaria allora diviene in sè inattendibile o comunque meno attendibile degli altri cittadini.

L'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale violerebbe, inoltre, prosegue il remittente, l'art. 24 della Costituzione, comprimendo i diritti di difesa della parte civile e vulnerando in ogni caso la parità tra accusa - pubblica o privata - e difesa. Sarebbe chiara, infatti, la disparità di posizione nella quale si trovano tali parti processuali, sotto l'aspetto del diritto alla prova relativa alla pretesa di cui sono portatori, considerato che gli appartenenti alla polizia giudiziaria, proprio per il loro dovere di ricevere informazioni utili all'accertamento del reato e all'individuazione dei responsabili, sono normalmente, e per così dire funzionalmente, i testi dell'accusa, pubblica e privata.

Il giudice a quo ritiene, poi, che il perentorio divieto di cui alla norma in esame "riverberi la propria incostituzionale irrazionalità anche sugli artt. 500 n. 4 e 512 del codice di procedura penale". I divieti posti da queste ultime norme si sommano infatti con quello di cui all'art. 195, quarto comma, e tutti insieme finiscono per formare uno sbarramento assoluto alla utilizzazione processuale proprio di quelle dichiarazioni che, per essere state rese nella immediatezza del fatto, sono guardate con più favore dallo stesso legislatore, perchè ritenute giustamente più attendibili rispetto alle altre sommarie informazioni testimoniali, tanto che solo alle prime è consentito l'ingresso nel fascicolo processualesecondo le modalità stabilite nell'art. 500, quarto comma. Qu il teste esaminato nell'immediatezza sia deceduto o divenga irreperibile, il denunciato congegno normativo determina l'irrimediabile perdita di tali dichiarazioni, spesso le uniche raccolte e raccoglibili.

Anche gli artt. 500, quarto comma, e 512 del codice di procedura penale, prosegue il remittente, suscitano pertanto seri dubbi di legittimità costituzionale, non solo in riferimento agli artt. 3 (principio di ragionevolezza) e 24, primo e secondo comma, della Costituzione (diritto di difesa), ma anche - sempre unitamente all'art.195, quarto comma - per violazione di "un principio di Costituzione materiale sotteso dagli artt. 24 e 112 della Costituzione e che può sinteticamente essere riassunto come l'esigenza fondamentale dello Stato - cui corrispondono legittime aspettative dei cittadini - di assicurare l'effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale".

Infine, le norme denunciate violerebbero, ad avviso del remittente, anche l'art. 111, primo comma, della Costituzione, in quanto il divieto di assumere e valutare le deposizioni di cittadini al corrente di fatti rilevanti ai fini della decisione comporta l'impossibilità di una corretta ed adeguata motivazione.

3.2. É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale conclude per l'infondatezza della questione.

L'Avvocatura dello Stato - premesso che "ove la ricostruzione del sistema prospettata dal Tribunale fosse corretta, i dubbi di costituzionalità puntualmente individuati sembrerebbero in effetti fondati" - osserva che la premessa interpretativa dalla quale muove il remittente non può essere condivisa, sulla base di considerazioni di ordine testuale e logico-sistematico. In particolare, va ritenuto che il divieto di deporre di cui all'art. 195, quarto comma, c.p.p. non sussiste rispetto alle dichiarazioni acquisite da qualunque "generico" soggetto, ma esclusivamente rispetto a quelle rese da persona che il codice qualifica come "testimone", nel significato tecnico di soggetto chiamato a rivestire l'ufficio testimoniale. Ne deriva che l'impossibilità di deporre esiste solo e nei limiti in cui la persona le cui dichiarazioni sono state acquisite dalla polizia giudiziaria abbia assunto nel procedimento la qualità di testimone: ove ciò non avvenga, per morte o altra causa, cade l'inibitoria a deporre, proprio perchè, mancando il "testimone", l'ufficiale o l'agente di polizia giudiziaria si troverà nella identica posizione di chiunque renda una testimonianza indiretta. Un sicuro indice di tale tesi si rinviene, prosegue l'Avvocatura, nel fatto che il legislatore non ha individuato il fenomeno della testimonianza de relato (art. 195, commi 1 e 3) nel fatto di colui che si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad "altri testimoni", bensì ha adottato il termine "altre persone", che tali cessano di essere, per divenire testimoni, allorchè ne venga disposto il relativo esame. Vi è quindi una sola peculiarità per ciò che attiene alla polizia giudiziaria: una volta che la persona abbia assunto la qualità di testimone e la sua voce venga pertanto acquisita secondo la dinamica tipica di quel mezzo di prova, le dichiarazioni precedentemente rese non possono formare oggetto di deposizione da parte della polizia giudiziaria, perchè ciò equivarrebbe ad introdurre un elemento eteronomo rispetto al veicolo tipico di utilizzazione processuale degli atti a contenuto dichiarativo, cioé quello delle contestazioni.

La tesi ermeneutica così delineata, conclude l'Avvocatura dello Stato, non solo elide le censure del remittente, alimentate dal presupposto di ritenere che le dichiarazioni rese in articulo mortis siano necessariamente favorevoli all'accusa, ma anche quelle che potrebbero muoversi nella ipotesi inversa, cioè in quella che si realizzerebbe laddove quelle dichiarazioni fossero l'unico elemento favorevole all'imputato.

4.1. Con due ordinanze sostanzialmente identiche del 28 febbraio e 9 aprile 1991 (r.o. n. 497 e 429 del 1991), il Tribunale di Verona, premesso che il pubblico ministero aveva chiesto di procedere all'esame testimoniale degli agenti di polizia giudiziaria che avevano raccolto la denuncia della persona offesa, resasi successivamente irreperibile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale:

a) nella parte in cui detta per i soli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria una disciplina diversa da quella di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo;

b) nella parte in cui detta una disciplina diversa anche in relazione alle situazioni indicate nell'ultima parte del comma 3 dello stesso art.195".

Osserva il Tribunale remittente che ai sensi dell'art. 195 c.p.p. la testimonianza de relato è sempre possibile, salva la previsione che il giudice a richiesta di parte o anche d'ufficio disponga l'esame delle persone direttamente a conoscenza dei fatti. Per contro, il quarto comma detta per i soli ufficiali ed agenti di p.g. una regola opposta che preclude in modo assoluto tale testimonianza de relato, "escludendo irragionevolmente ogni possibile distinzione di situazioni concrete e creando una sorta di privilegio odioso nei confronti di soggetti la cui attendibilità non è di per sè diversa da quella di ogni altro testimone".

L'irragionevolezza della norma e la disparità di trattamento sono, poi, particolarmente evidenti nel caso in cui l'esame diretto del testimone di riferimento risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità del medesimo, situazioni nelle quali è sempre possibile la utilizzabilità della testimonianza de relato, salvo che la stessa provenga da ufficiali o agenti di p.g.

In definitiva, conclude il giudice a quo, risultano violati i canoni di coerenza e di ragionevolezza dell'ordinamento e in particolare risulta leso il principio che vieta disparità di trattamento collegate a condizioni personali e sociali senza una razionale giustificazione, non apparendo tale quella che si fonda su un generale sospetto di inaffidabilità di organi della pubblica amministrazione.

4.2. É intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, limitandosi a richiamare - quanto all'ordinanza n.429 del 1991 - l'atto di intervento relativo all'ordinanza del Pretore di Firenze n. 21 del 1991, e sostenendo - in ordine all'ordinanza n. 497 del 1991 - l'infondatezza della questione, in quanto il divieto in esame non discende da una aprioristica valutazione negativa della attendibilità degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ma dalla circostanza che trattasi di soggetti istituzionalmente deputati alla raccolta, a processuali, delle dichiarazioni dei terzi.

5.1. Con ordinanza del 16 maggio 1991 (r.o. n. 555 del 1991), il Pretore di Venezia - sezione distaccata di Mestre - ha a sua volta sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale "nella parte in cui è fatto divieto agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di deporre sul contenuto di dichiarazioni acquisite da testimoni".

Premette il remittente che il pubblico ministero, all'esito dell'esposizione introduttiva, aveva chiesto l'ammissione degli esami testimoniali della parte offesa e dei sottufficiali dei carabinieri che si erano occupati delle indagini, ma l'esame di questi ultimi, allorchè si accingevano a dichiarare come e da chi avessero appreso circostanze evidenzianti le eventuali responsabilità degli imputati, veniva ripetutamente interrotto dalla difesa che eccepiva il divieto di cui alla norma impugnata.

Tale divieto, osserva il giudice a quo, impedendo, nella fattispecie, l'utilizzazione delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria da terzi nell'immediatezza, non consente al pubblico ministero di portare a conoscenza del giudice elementi a fondamento dell'accusa, con grave compromissione del diritto alla prova del pubblico ministero stesso. La scelta del legislatore di discriminare il teste, ufficiale di polizia giudiziaria, rispetto ai testi comuni cittadini, laddove entrambi possano riferire, de relato, circostanze utili sui fatti oggetto di prova è illogica, irrazionale e incongruente. Tali vizi appaiono ancor più evidenti, prosegue il remittente, ove si consideri che agli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria incombe una serie di obblighi istituzionali (artt. 347-351 c.p.p.) e non è dato comprendere come tali attività - peraltro penalmente sanzionate in caso di omissione - si concilino con il divieto di testimonianza indiretta, se non in una logica di eccesso di garantismo in contrasto con il principio che la giurisdizione penale deve tendere il massimo possibile all'accertamento della verità sostanziale.

Inoltre, la norma crea una ingiustificata ed irrazionale discriminazione tra le due anzidette categorie di testimoni e, dovendosi escludere che la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria valga a differenziarle, appare evidente, conclude il giudice a quo, come la diversa disciplina violi il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione.

5.2. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione e rinviando a tal fine alle considerazioni svolte nell'atto di intervento relativo all'ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma (n. 290 del 1991).

Considerato in diritto

1. Le sette ordinanze di rimessione sollevano tutte questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale; la sola ordinanza del Tribunale di Roma (r.o. n. 290 del 1991) investe inoltre gli artt. 500, quarto comma, e 512 del codice stesso, nonchè l'art. 2, n. 31, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, e fa riferimento, in ordine a tutte le norme impugnate, anche agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo comma, e 112 della Costituzione.

I giudizi possono pertanto essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2.1. Va esaminata per prima la questione relativa all'art.195, quarto comma, del codice di procedura penale, questione - come si è detto - comune a tutte le ordinanze di rimessione. La Corte è chiamata a decidere se sia legittima la norma anzidetta, secondo la quale "Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni".

Le due ordinanze del Tribunale di Verona (r.o. nn. 429 e 497 del 1991), nonchè quella del Pretore di Venezia - sezione distaccata di Mestre (r.o. n. 555 del 1991), sollevano la questione in via generale sul divieto che, in forza della norma impugnata, colpisce gli appartenenti alla polizia giudiziaria;le altre ordinanze lamentano, invece,che il divieto operi anche ove si verifichi l'impossibilità di esame del teste diretto per morte, infermità o irreperibilità, a differenza di quanto in tali casi il terzo comma dell'art. 195 prevede per i testi comuni. La questione così circoscritta - che il Tribunale di Verona prospetta a sua volta in via subordinata - verrebbe evidentemente ad essere ricompresa ed assorbita nella ipotesi in cui risulti fondata quella sollevata in via generale in ordine alla esclusione in radice degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dalla possibilità di rendere testimonianza indiretta, così come questa è disciplinata dall'art. 195.

D'altra parte, va anche osservato che gli argomenti addotti in tutte le ordinanze con riferimento all'art. 3 della Costituzione sotto il profilo sia del principio di ragionevolezza, sia del principio di eguaglianza, sono di natura tale per cui non possono non investire il divieto in via generale; la prospettazione della questione limitatamente all'ipotesi surriferita dell'impossibilità dell'esame del teste diretto appare perciò mossa soprattutto da una preoccupazione rigorosa in ordine alla rilevanza della stessa, relativamente ai casi di specie da cui partono le ordinanze di rimessione.

2.2. L'Avvocatura generale dello Stato, nell'atto di intervento relativo all'ordinanza di rimessione del Pretore di Firenze del 30 ottobre 1990 (r.o. n. 21 del 1991), solleva un'eccezione di inammissibilità, rilevando che l'ordinanza stessa sarebbe contraddittoria, in quanto, mentre fonda la questione sulla circostanza della irreperibilità del teste diretto (persona offesa dal reato), afferma successivamente che in realtà, con le necessarie indagini, potrebbe essere reperibile la sua nuova dimora anche all'estero.

L'eccezione va respinta, in quanto nella fattispecie la condizione di irreperibilità si è giuridicamente realizzata nel momento in cui, (come riferisce il giudice a quo), nonostante la notificazione della citazione sia stata eseguita - essendo mutato il luogo di residenza o di dimora all'estero, ed ignoto quello attuale - mediante deposito dell'atto nella cancelleria ai sensi dell'art. 154 del codice di procedura penale, la persona offesa non si è presentata al dibattimento.

3.1. La questione va dunque esaminata nel merito con riferimento innanzitutto all'art. 3 della Costituzione, cui si richiamano tutti i giudici a quibus.

L'Avvocatura dello Stato, nell'atto di intervento relativo all'ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma, sostiene che la disposizione di cui al quarto comma dell'art. 195 andrebbe interpretata nel senso che il divieto per la polizia giudiziaria di deporre "sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni" si riferisca esclusivamente ai "testimoni" intesi nell'accezione tecnica e formale del termine, cioé a coloro che abbiano assunto formalmente nel processo tale qualifica; la stessa Avvocatura osserva, fra l'altro, che, sulla base dell'interpretazione della norma fornita dal giudice a quo, "i dubbi di costituzionalità sembrerebbero in effetti fondati".

La tesi interpretativa proposta dall'Avvocatura non può essere condivisa, a prescindere dalla considerazione che essa non sarebbe comunque risolutiva di fronte alla questione sollevata in via generale con i riferimenti e le motivazioni accennate. Va, infatti, innanzitutto osservato che tale tesi sembra contraddetta dalla relazione ministeriale all'art. 351 del codice, ove si afferma che il potere della polizia giudiziaria di assumere sommarie informazioni dalle "persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini" trova fondamento nella direttiva 31, seconda parte, della delega ("dichiarazioni rese dai testimoni"), con ciò intendendo la direttiva stessa nel senso che il termine "testimoni" indichi appunto genericamente e atecnicamente le persone che possono riferire circostanze utili. É comunque determinante rilevare come tutti i giudici a quibus abbiano concordemente e univocamente interpretato l'art. 195, quarto comma, attribuendo al vocabolo "testimoni" quest'ultimo significato generico, anzichè quello restrittivo tecnico- formale. É superfluo aggiungere che la Corte deve valutare la legittimità costituzionale della norma così come essa è interpretata dai giudici chiamati ad applicarla, fatta salva l'ipotesi, che ovviamente non ricorre nel caso in esame, in cui si tratti di interpretazione del tutto minoritaria o palesemente arbitraria ed erronea.

3.2. La questione è fondata.

Dalla lettura, non sempre chiara nè agevole, dell'art. 195 del codice di procedura penale risulta innanzitutto che la testimonianza indiretta è ammessa, purchè il testimone indichi "la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame" (settimo comma).

Soddisfatta questa condizione pregiudiziale, è previsto che le persone-fonte debbano essere chiamate a testimoniare in caso di richiesta di parte, ferma restando la facoltà del giudice di disporne l'esame anche d'ufficio (commi primo e secondo). Se la disposizione di cui al primo comma non è osservata - vale a dire se, nonostante la richiesta di parte, le persone indicate non sono esaminate - la testimonianza indiretta non può essere utilizzata, salvo che l'esame delle persone stesse "risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità" (terzo comma). In questo complesso normativo, (i commi quinto e sesto si riferiscono rispettivamente all'ipotesi in cui la conoscenza dei fatti sia avvenuta in forma diversa da quella orale e al caso in cui i testi diretti siano le persone indicate negli artt.200 e 201, in tema di segreto professionale e segreto d'ufficio), si colloca il quarto comma, il quale - come si è visto - vieta la testimonianza indiretta degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria.

Trattasi di un divieto che rappresenta un'eccezione, sia rispetto alla richiamata disciplina dell'art. 195 nel suo complesso, sia rispetto alla regola generale sulla capacità di testimoniare, in quanto gli appartenenti alla polizia giudiziaria hanno capacità di testimoniare come ogni persona (art.196), non essendovi nei loro confronti alcuna previsione di incompatibilità (art. 197).

La eccezione costituita dal divieto in esame, sotto qualsiasi profilo la si consideri, appare sfornita di ragionevole giustificazione.

Invero, una volta che il legislatore, come detto, ha escluso ogni ipotesi d'incompatibilità a testimoniare - quale è, invece, prevista dall'art.197, primo comma, lett. d) per coloro che nel procedimento "svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario" - nei confronti degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, non si comprende perchè a questi ultimi debba essere inibita quella particolare forma di testimonianza, che è la testimonianza indiretta, ammessa dall'art. 195 con la previsione di limiti e garanzie ben specificate. Non si può certo sostenere, nemmeno in via di mera astrazione, che gli appartenenti alla polizia giudiziaria siano da ritenersi meno affidabili del testimone comune; a prescindere dalla palese assurdità di una ipotesi siffatta, essa risulterebbe poi in insanabile contraddizione col ruolo e la funzione che la legge attribuisce alla polizia giudiziaria (v. l'art. 55 e il titolo IV del libro V del codice di procedura penale). Nè può sostenersi che proprio dall'attività svolta nella fase delle indagini preliminari derivi una ragionevole giustificazione atta a sorreggere il divieto di cui si discute.

Si è già osservato che, se si trattasse di una incompatibilità di tale natura, essa avrebbe dovuto trovare esplicita collocazione nell'art. 197 del codice di procedura penale, dove non ne è traccia; ma non appare nemmeno minimamente accettabile che essa valga soltanto per quella particolare specie di testimonianza che è la testimonianza indiretta.

La palese irragionevolezza della norma impugnata viene ancor più chiaramente in luce ove si consideri che - come risulta dalle motivazioni delle diverse ordinanze di rimessione - possono verificarsi casi in cui la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria che ha operato nell'immediatezza venga ad essere addirittura fondamentale per l'accertamento dei fatti, quando l'esame dei testimoni-fonte obbligatoriamente indicati sia impossibile per morte, infermità o irreperibilità (art. 195, terzo comma): tali ipotesi, e lo rileva la stessa Avvocatura dello Stato, possono, del resto, riguardare anche la difesa dell'imputato.

3.3. Nè si potrebbe obbiettare che il divieto di testimonianza indiretta nei confronti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria trovi un'adeguata giustificazione nei principi generali che informano il nuovo processo penale.

Il metodo orale (art. 2, n. 2, della legge- delega) costituisce certamente uno dei principi informatori del codice vigente, ed in base ad esso il convincimento del giudice deve essenzialmente formarsi sulla base delle prove che si assumono al dibattimento nella pienezza del contraddittorio. Ma con tale principio non solo non contrasta ma anzi si conforma pienamente la testimonianza degli appartenenti alla polizia giudiziaria su fatti conosciuti attraverso dichiarazioni loro rese da altrepersone, testimonianza da assumersi nei modi e nelle form prescritte dell'esame diretto e del controesame. Non appare quindi convincente l'affermazione contenuta nella relazione al progetto preliminare a proposito dell'art. 195, secondo cui, nella parte che qui interessa, "il disposto del comma 4 dà attuazione alla direttiva 31 della legge-delega che mira a garantire, ad un tempo, l'oralità della prova e il diritto di difesa". L'oralità della prova è fuori discussione, mentre il diritto di difesa è comunque tutelato attraverso l'interrogatorio diretto e il controinterrogatorio del testimone.

4. É bensì vero che l'art. 195, quarto comma, costituisce puntuale attuazione della direttiva n. 31 dell'art. 2 della legge-delega, la quale stabilisce,con formulazione precisa e specifica, il "divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni o dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, senza l'assistenza della difesa". Ma, mentre per quest'ultima parte, - è superfluo ribadirlo -, il divieto appare tutt'altro che irrazionale, coerente com'è col sistema di garanzie di cui beneficia l'imputato (cfr.in tal senso la sentenza n. 259 del 1991), per quanto attiene le dichiarazioni rese da testimoni le considerazioni sopra svolte in ordine alla palese irragionevolezza, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, della norma delegata non possono non valere anche nei confronti della parte della direttiva n. 31 relativa ai testimoni, del resto anch'essa correttamente impugnata dal Tribunale di Roma.

Restano assorbiti gli altri profili di illegittimità prospettati dal Tribunale di Roma in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo comma, e 112 della Costituzione.

5. Il medesimo giudice a quo ha sollevato - come detto al punto 1 - questione di legittimità costituzionale anche degli artt. 500, quarto comma, e 512 del codice di procedura penale, nelle parti in cui il primo non consente l'acquisizione al fascicolo del dibattimento dei verbali di cui all'art. 357, secondo comma, lett. c), del codice di procedura penale neppure nei casi in cui non sia possibile l'esame del teste assunto dalla polizia giudiziaria per sopravvenuta morte, infermità o irreperibilità del teste medesimo e quindi i detti verbali non siano utilizzabili per le contestazioni; e il secondo non consente la lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria neanche nei casi in cui per fatti o circostanze imprevedibili ne sia divenuta impossibile la ripetizione. Ad avviso del remittente i divieti sanciti da queste ultime norme, aggiunti al divieto di cui all'art. 195, quarto comma, comportano come conseguenza "la irrimediabile perdita processuale delle dichiarazioni rese nell'immediatezza e sul luogo dei fatti da testimoni successivamente deceduti o divenuti irreperibili".

Ma, una volta dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art.195, quarto comma, e conseguentemente caducato il divieto della testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, le ulteriori questioni ora indicate - come emerge dalla prospettazione delle stesse svolta nell'ampia motivazione dell'ordinanza di rimessione - non hanno più ragion d'essere.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale;

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, n. 31, secondo periodo, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), nella parte in cui vieta l'utilizzazione agli effetti del giudizio, attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22/01/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 31 gennaio del 1992.