SENTENZA N. 245
ANNO 1984
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
composta dai signori:
Prof. Leopoldo ELIA, Presidente
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv Albero MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Prof. Antonio LAPERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità
costituzionale degli artt. 7, commi undicesimo,
dodicesimo e tredicesimo, 19, 24, comma primo, lett. b, 25, commi secondo e
terzo, 27, comma primo e ultimo, 28, 29, 31, 32, comma quinto e 35, comma
quattordicesimo, della legge 27 dicembre 1983, n. 730 recante
"Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato (legge finanziaria 1984)", promossi con ricorsi dei Presidenti delle
Giunte delle Regioni Veneto e Trentino-Alto Adige, delle Province autonome di
Trento e Bolzano, delle Regioni Sicilia, Campania, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, notificati il 26 e 27 gennaio
1984, depositati in cancelleria il 1, il 3 e il 6 febbraio 1984 ed iscritti ai nn. da
Visti gli atti di costituzione del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 29 maggio 1984
il Giudice relatore Livio Paladin;
uditi gli avvocati Giorgio Berti per
Ritenuto in fatto
1. Con ricorso notificato il 27 gennaio 1984,
a) Con l'art. 7, comma tredicesimo, della l. 730/1983 si stabilisce che i
disavanzi delle aziende di trasporto pubblico locale, non ripianabili con i
contributi regionali di esercizio, devono essere
coperti dalle Regioni mediante adeguamenti tariffari o con prelievo dei fondi
necessari dalle rispettive quote del fondo comune. Secondo la ricorrente, tale
norma sarebbe del tutto analoga a quella contenuta
nell'art. 31, comma primo, del d.l. 55/1983, convertito in l. 131/1983, e già
dichiarata illegittima (nella parte appunto in cui prevedeva che al ripiano dei
predetti disavanzi, per il 1983, dovessero far fronte le Regioni con il maggior
gettito dei tributi propri), per violazione dell'autonomia finanziaria regionale
ed imposizione di spesa priva della relativa copertura (sentenza n. 307/1983).
Con ciò - a parte l'autonomo profilo di contrasto con l'art. 136 Cost.
(ravvisabile nella elusione,
da parte del legislatore, del giudicato costituzionale) - si riproporrebbero,
nei confronti della norma impugnata, gli stessi motivi di illegittimità già
evidenziati a carico del predetto art. 31. Né varrebbe in contrario rilevare
che l'art. 7 della l. 730 indica gli "adeguamenti tariffari" e le
"quote del fondo comune" come possibili fonti di copertura dei
disavanzi in questione: poiché, per un verso, "il fondo comune, dal punto
di vista della autonoma disponibilità della regione,
non può avere qualificazione e sorte diversa dai tributi propri" e, per
altro verso, sulla attuale impraticabilità di aumenti delle tariffe dei servizi
di trasporto pubblico locale "si é già espressa, nella citata sentenza, la
stessa Corte".
b) L'art. 19 della l. 730/1983 proroga, per il 1984, il
blocco delle assunzioni già disposto per l'anno 1983 (con carattere di
generalità nell'ambito del pubblico impiego) dall'art. 9 della l.
130/1983. Lamenta, al riguardo, la ricorrente che - se pur il divieto ex art.
e) Con l'art. 28 della l. 730 si stabilisce, poi, che a decorrere dal
1984, qualora non siano previste misure adeguate per riassorbire il disavanzo
di ciascuna unità sanitaria locale,
d) L'art.
e) L'art. 31 cpv. l. 730 - che istituisce l'albo
regionale dei fornitori del servizio sanitario nazionale e demanda al Ministro
della sanità di individuare, con proprio decreto, le condizioni ed i requisiti
per l'iscrizione nell'albo stesso - risulta impugnato in base ad un duplice
ordine di rilievi che convergono in una complessa censura di usurpazione
di attribuzioni regionali. L'istituzione stessa di un albo regionale dovrebbe,
infatti, spettare alla Regione, anche in armonia con le disposizioni di
principio contenute nell'art. 50 della l. 833/1978. Ma soprattutto sarebbe
inammissibile l'ulteriore previsione di un potere
normativo del Ministro in ordine alla tenuta del detto albo ed alla iscrizione
delle imprese; e ciò, sia nei confronti dell'autonomia legislativa regionale,
che non potrebbe essere ridotta o condizionata da un atto di normazione
secondaria (quale il decreto ministeriale), sia nei confronti della stessa
attività amministrativa regionale, che "potrebbe soggiacere soltanto ad
atti di indirizzo e coordinamento da parte del Governo".
f) L'art. 35, comma quattordicesimo, riduce, infine, dal 12 al 6 per
cento delle entrate, previste dal bilancio di competenza, il limite delle
disponibilità finanziarie che le Regioni possono depositare presso aziende di
credito. Al riguardo, il Veneto - pur considerando che la legittimità di tale
limitazione é già stata affermata con sentenza n. 162/1982 della Corte -
ritiene che sia comunque l'imposizione della nuova
misura a ledere l'autonomia finanziaria della Regione: "poiché una
indiscriminata riduzione aprirebbe la possibilità della eliminazione totale
della capacità dell'ente di manovrare le proprie giacenze, che ne integra la
posizione giuridica e costituzionale".
2. -
Con riguardo al comma secondo dell'art. 25, lamenta la ricorrente che la
legge disponga direttamente circa l'impiego (per metà
ad integrazione del finanziamento di parte corrente, per metà ad acquisto di
attrezzature in conto capitale) delle somme che - secondo la norma stessa - le
U.S.L. sono autorizzate a trattenere: così appunto incidendo in una materia -
l'ordinamento degli enti sanitari ed ospedalieri (in cui rientra la disciplina
del funzionamento oltreché dell'organizzazione delle
U.S.L.) - riservata alla potestà legislativa ed amministrativa della Regione,
dagli artt. 4 n. 7 e 16 dello Statuto speciale.
La disciplina stabilita dal terzo comma dell'art. 25 della l. 730 cit., e in particolar modo la
disposizione dell'ultimo periodo, che impone - in caso di prestazioni sanitarie
"aggiuntive" - di instaurare "contabilità separate",
sarebbe a sua volta incostituzionale e lesiva delle medesima attribuzioni della
Regione ricorrente in quanto intenda stabilire un vincolo anche in ordine alla
contabilità delle U.S.L. (dal Trentino-Alto Adige già disciplinata con propria legge
n. 1/1981).
3. - Le Province autonome di Trento e Bolzano, pure difese dagli avvocati
Guarino e Ritz, hanno denunciato anch'esse - con
ricorsi notificati il 26 gennaio 1984 - l'art. 25, commi
secondo e terzo, ed inoltre l'art. 27, commi primo e ultimo, e (la sola
Bolzano) l'art. 29 della predetta l. 730/1983, per contrasto con gli artt. 8 n. 1, 9 n. 10, 16, 54 n. 5, 78 e
80 dello Statuto speciale e relative norme attuative.
a) In ordine alla dedotta illegittimità
dell'art. 25, comma secondo, argomentano ulteriormente le ricorrenti che il
disposto vincolo di destinazione (su somme che le Province autonome sono
autorizzate a trattenere) inciderebbe non solo sulla competenza preveduta dall'art. 9 n. 10 dello Statuto (igiene e sanità,
ivi compresa l'assistenza sanitaria ed ospedaliera), ma anche sull'autonomia
finanziaria delle Province stesse, che si manifesterebbe sia attraverso il
principio di unitarietà della finanza provinciale, per cui tutte le somme
assegnate a qualsiasi titolo alla Provincia affluiscono al suo bilancio senza
vincolo a specifiche destinazioni, sia nella facoltà "di disporre delle
proprie risorse, nel senso di valutarne discrezionalmente la congruità rispetto
alle necessità concrete e di indirizzarle verso gli obiettivi rispondenti alle
finalità istituzionali " (Corte cost. n. 162/1982). Inoltre - secondo
Quanto al terzo comma del medesimo art. 25, le ricorrenti a loro volta
lamentano la violazione degli artt. 8 n. 1 e 16 dello
Statuto (ordinamento degli uffici provinciali), per il caso che il vincolo a instaurare una contabilità separata sia da intendere
riferito alla stessa Provincia. E, in secondo luogo, deducono che la
disposizione sarebbe incostituzionale anche se riferita alle U.S.L., per violazione dell'art. 9
n. 10 dello Statuto, " giacché, per quanto non disposto dalla legge
regionale, alla disciplina della contabilità delle U.S.L. concorre la
competenza delle Province (artt. 87 e
b) L'art.
c) Quanto infine all'art. 29 (già impugnato dalla Regione Veneto)
4. - Anche
Con riferimento ai parametri statutari - che tutelano la potestà della
Regione nel settore della sanità e la sua autonomia finanziaria - la ricorrente
svolge argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle contenute nei ricorsi precedentemente esaminati. In particolare, circa l'art. 31
della l. 730 la cui denuncia é in questo caso estesa
al primo comma (non censurato dal Veneto), relativamente alla facoltà,
attribuita al Ministro della sanità, di provvedere con decreto alla definizione
dei capitolati generali e speciali per forniture di beni e servizi alle U.S.L.
- sottolinea
5. - Il solo art. 7, comma tredicesimo, della l.
Secondo la ricorrente, la disposizione in questione lederebbe l'autonomia
legislativa regionale in materia di servizi di trasporto, sancita dall'art.
117, "sia perché, stabilendo l'obbligo del ripianamento,
comprime l'autonomia del legislatore regionale, quale già deliberata dai
principi fondamentali contenuti nella legge quadro (art. 6) 151 del 1981, sia
perché, disponendo delle quote del fondo comune di cui
alla legge 281/1970, invade il campo di competenza regionale in ordine alla
libera ed autonoma utilizzazione di dette risorse in armonia con le scelte
programmatiche regionali, in relazione al dettato dell'art. 21, comma primo,
della l. n. 335/1976". D'altra parte, poiché il complesso delle
leggi-quadro ricordate attua il precetto costituzionale dell'art. 119, ne
conseguirebbe che anche con tale parametro colliderebbe la norma impugnata.
Infine, risulterebbe violato anche l'art. 81, comma
quarto, in ragione della omessa attribuzione alle Regioni di risorse
corrispondenti al nuovo onere ad esse imposto.
6. - Con altro ricorso, notificato il 26 gennaio 1984, della Regione
Toscana, difesa dall'avvocato Alberto Predieri, sono
stati denunciati, per contrasto con gli artt. 117 e 130 Cost. - oltre che gli artt.
7, comma tredicesimo, 29 e 31 (intero testo) - anche l'art. 24, comma primo (in relazione all'art. 32, comma quinto), della legge
finanziaria 1984.
Dispone il citato art. 24, comma primo punto b), che "al fine di
nazionalizzare l'erogazione delle prestazioni sanitarie in regime
convenzionale, gli accordi collettivi nazionali devono prevedere l'istituzione
di commissioni professionali a livello regionale...,
con il compito di definire gli standards medi
assistenziali e di fissare la procedura per le verifiche di qualità dell'assistenza".
7. - Da ultimo, le Regioni Piemonte, Emilia-Romagna
e Lombardia, tutte assistite dall'avvocato Valerio Onida,
hanno chiesto con altrettanti ricorsi di identico
contenuto (notificati il 27 gennaio 1984), dichiararsi l'illegittimità degli artt. 7, comma tredicesimo, 20 e
Con riguardo, in particolare, all'art. 7, comma undicesimo, l. 730 - che determina
definitivamente in Lit. 2.922 miliardi il fondo trasporti
per l'anno 1982 - le ricorrenti sostengono che tale disposizione determinerebbe
una riduzione retroattiva di Lit. 88,5 miliardi (destinati, dalla norma stessa,
al "finanziamento del fondo relativo all'anno 1983"): ciò
"perché il fondo per il 1982, ex artt. 27 d.l.
786/1981 e 27 quater l. conv.
n. 51/1982, era composto dalla quota storica
corrispondente alle erogazioni effettuate da Regioni ed enti locali nel 1981, e
da una integrazione a carico dello Stato di L. 400
miliardi; e perché la quota storica, originariamente stimata in L. 2.500 miliardi, é oggi accertata (non ancora
definitivamente) in L. 2.610,5 miliardi, cosicché il
Fondo 1982 ammontava (in realtà) a 3.010,6 miliardi". La detta "decurtazione"
concreterebbe appunto lesione della autonomia
finanziaria, amministrativa e programmatoria delle
Regioni. Analoghe ragioni di incostituzionalità
motivano la denuncia del successivo comma dodicesimo dello stesso art. 7, che
eleva - da Lit.
8. - Nei giudizi relativi a tutti gli indicati
ricorsi si é costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, per il
tramite dell'Avvocatura generale dello Stato: la quale, con unica ed unitaria
memoria, ha sostenuto la legittimità di tutte le disposizioni impugnate, partitamente esaminate nell'ordine di sequenza nel testo
legislativo.
a) Replicando, in primo luogo, alle censure formulate (dalle Regioni
Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna) avverso l'art.
7, comma undicesimo, l.
b) Quanto poi alla determinazione del "Fondo trasporti 1983",
di cui al dodicesimo comma dell'art.
c) Anche relativamente al tredicesimo comma
dell'art. 7, i rilievi di illegittimità (formulati dalle Regioni Toscana,
Piemonte, Veneto e Campania) sarebbero - ad avviso dell'Avvocatura -
analogamente privi di fondamento.
Il meccanismo di copertura dei disavanzi delle aziende di trasporto,
previsto dalla norma in questione, risulterebbe
significativamente diverso da quello (sub art. 31 d.l. 55/1983) censurato dalla
Corte con sentenza n. 307/1983. Infatti - si afferma - "lo strumento con
il quale le Regioni devono provvedere non grava più in prima linea sui bilanci regionali, ma é costituito essenzialmente dalla
deliberazione di idonei adeguamenti tariffari; e, solo in via condizionata ed
eventuale, le Regioni possono provvedere utilizzando le somme assegnate dallo
Stato alla Regione senza vincolo a specifica destinazione".
Né potrebbe dirsi, d'altra parte, violato l'art. 81 Cost.: poiché "la norma non impone alla Regione un onere
nuovo, da coprire con l'utilizzo del fondo comune di cui all'art. 8 della legge
n. 281 del 1970; trattandosi in effetti di onere non imposto ma derivato
esclusivamente dal modo - discrezionalmente stabilito dalla Regione medesima -
nel quale sia stato esercitato il potere regionale di determinazione delle
tariffe". E quindi sarebbe del tutto conforme ai principi della finanza
pubblica che, per la copertura della relativa spesa, siano
utilizzati fondi affluiti nel bilancio regionale senza vincolo a specifica
destinazione.
d) Con riguardo alla disposizione dell'art.
e) Anche l'art.
La detta disposizione si limiterebbe a modificare l'art. 48 della legge
n. 833/1978, che già prevedeva la stipulazione nella
sede nazionale di convenzioni regolanti il rapporto tra
f) Quanto all'art. 25, comma secondo, l. cit., l'Avvocatura ne sostiene (in contrasto con le opposte
conclusioni della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome) la
piena conformità ai parametri costituzionali evocati: argomentando che la
potestà legislativa della Regione in materia di ordinamento degli enti sanitari
ed ospedalieri (art. 4 n. 7 Statuto) abbraccerebbe in questo campo la
predisposizione delle strutture ed i modi del loro agire, ma non i contenuti di
questo, onde sarebbe ad essa "estranea la predeterminazione, in sede legislativa
o amministrativa, di criteri per l'impiego delle risorse spettanti alle unità
sanitarie locali". Né la destinazione impressa dalla norma in questione,
quanto alle risorse trattenute dalle U.S.L., potrebbe contrastare con il potere di controllo sui
bilanci di queste. Poiché "per sé, questo potere,
in quanto manifestazione del più generale potere di controllo sugli enti
locali", non implicherebbe "anche quello di predeterminare normativamente l'impiego delle risorse da parte degli enti
controllati".
Risolutiva sarebbe infine (contro la prospettata violazione dell'art. 81
Cost.) la considerazione che, "da un punto di vista logico", non vi
sarebbe differenza "tra assegnare alle Regioni somme da destinare
separatamente al finanziamento di due diversi tipi di spesa (corrente e in
conto capitale) e disporre invece che le somme (di cui era preveduto fossero
versate all'entrata del bilancio dello Stato e di cui ora si prevede che le
Regioni le trattengano) vengano dalle stesse destinate in predeterminate misure
ai due diversi tipi di spesa". La norma pertanto non si discosterebbe dal
sistema generale di finanziamento del servizio sanitario nazionale,
caratterizzato da interni vincoli di destinazione (e tale perciò da porsi al di
fuori del principio enunciato dall'art. 21 della l. 335/1976) ed avrebbe la sua
ragione giustificatrice nell'avere la legge di riforma sanitaria concepito il
servizio sanitario nazionale come un complesso di funzioni unitarie, sia pure
attuato a diversi livelli, da Stato, Regioni ed enti locali; in rapporto al
quale "compete dunque allo Stato di predeterminare su scala nazionale e
regionale l'ammontare delle risorse da impegnare per garantire a tutti i
cittadini certi standards di prestazioni sanitarie (artt. 3, secondo comma; 51, secondo comma;
e
g) Relativamente al successivo comma terzo dello
stesso art.
E, quanto alle ulteriori censure della Regione
Trentino-Alto Adige e delle Province autonome, oppone ancora l'Avvocatura che
la prescritta instaurazione di una contabilità separata da parte delle stesse
Regioni e Province o delle U.S.L., in quanto eroghino
prestazioni aggiuntive, costituirebbe "nulla più che la specificazione di
un principio di contabilità pubblica (derivando dall'art.
h) Anche la questione di legittimità dell'art. 27 (sulla ripartizione del
fondo sanitario nazionale), quale prospettata dalle due Province autonome,
sarebbe priva di fondamento.
Ad avviso dell'Avvocatura, la detta previsione andrebbe comunque diversamente interpretata, per modo che la
disposizione stessa verrebbe a confermare la sola applicabilità dell'art. 51
della l. 833/1978. Tuttavia - soggiunge l'Avvocatura - abbia l'art. 27 ultimo
comma della l. 730 modificato o non il precedente assetto normativo, "non
sarebbe comunque in contrasto con l'art. 78 dello
Statuto il risultato cui si perviene e cioé che anche
alle due Province si applichino criteri e procedimenti di determinazione delle
quote prevedute dall'art. 51, secondo comma della l.
833/1978 ed ora dall'art. 27, primo comma della l. 730/1983". Lo
spostamento dell'attività di assistenza sanitaria
svolta dalle due Province, dal sistema di finanziamento preveduto dall'art.
i) Quanto alle censure di illegittimità
formulate dalla Regione Veneto nei riguardi dell'art.
A parte ciò, le doglianze della ricorrente sarebbero comunque
infondate, "poiché né l'art. 130 né altri articoli della Costituzione
attribuiscono alle Regioni poteri normativi per quanto riguarda la
determinazione dei modi di esercizio del controllo; per la quale é anzi posta,
ad ulteriore garanzia dell'autonomia degli enti locali, una riserva di legge
statale". Né sussisterebbe la denunciata
irrazionalità delle due misure di controllo, che sono logicamente commisurate
ai diversi presupposti che le giustificano. E
l'attribuzione ad un organo statale - quale il Commissario di Governo - del
potere di scioglimento del comitato di gestione, da esercitarsi per altro su
iniziativa dell'organo regionale, troverebbe la sua ragione come nel caso dello
scioglimento dei consigli comunali nel fatto che l'organo direttivo delle
U.S.L. é previsto e disciplinato dalla legge statale.
l) Parimenti infondata - ad avviso dell'Avvocatura - sarebbero le
questioni che involgono la legittimità dell'art.
Le argomentazioni delle Regioni ricorrenti (Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, Sicilia) urterebbero infatti contro il decisivo rilievo che la correlativa
responsabilità finanziaria sarebbe del tutto conseguente alla competenza
riconosciuta alle Regioni, in materia di assistenza sanitaria, con il connesso
potere-dovere di assicurare la corrispondenza tra i costi del servizio ed i
relativi benefici. In tale contesto, la disposizione
del precedente art. 26, che ha accollato al bilancio statale i disavanzi delle
unità sanitarie locali accertati al 31 dicembre 1983, avrebbe portata
eccezionale; e l'art.
Né violazione dell'autonomia finanziaria potrebbe, d'altra parte,
individuarsi nella indicazione, contenuta nel predetto
articolo delle risorse finanziarie da utilizzare per il ripiano dei disavanzi
di gestione delle U.S.L.. L'indicazione stessa
potrebbe anzi apparire superflua, essendo ovvia la necessità di utilizzare
"in primo luogo" le disponibilità del fondo sanitario nazionale, in
relazione alla loro specifica destinazione; ed essa avrebbe la sola funzione di
"precisare che l'esaurimento di quelle disponibilità non costituisce il
limite della responsabilità finanziaria della Regione".
Infine, ai rilievi della Provincia di Bolzano oppone analogamente
l'Avvocatura che anche le Provincie autonome - al
pari delle Regioni - sarebbero chiamate a sopportare il costo di una funzione
propria; mentre l'indicazione dei mezzi con cui farvi fronte, se riferita alle
complessive disponibilità di parte corrente delle quote del fondo ad esse attribuite ed alle disponibilità derivanti dalle
entrate previste dal secondo comma dell'art. 25, non imprimerebbe a queste
risorse una destinazione che esse già non abbiano.
m) A sostegno della legittimità dell'art.
n) Sarebbe infondata, infine, l'ultima questione di legittimità dell'art.
34, comma quattordicesimo, sollevata dalla Regione Veneto: poiché tale norma si
limiterebbe ad introdurre una mera modificazione quantitativa del limite, già
riconosciuto legittimo dalla Corte, quanto alle disponibilità finanziarie che
le Regioni possono depositare presso le aziende di credito.
9. - Alle controdeduzioni dell'Avvocatura hanno
a loro volta replicato le Regioni ricorrenti (eccettuata
In particolare:
- relativamente alle questioni sub art. 7, comma
undicesimo, hanno opposto le Regioni Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna
che sarebbe frutto di palese equivoco interpretativo l'ipotesi di un
sopravvenuto "difetto di interesse" all'aumento del "fondo
trasporti" per il 1982. Infatti, la norma in questione
- che non tiene conto del riaccertamento in aumento
della "quota storica" ai fini della definitiva determinazione del
fondo sopradetto - non farebbe venire meno il meccanismo di recupero, a carico
del fondo comune, dell'"intera" quota storica: con la conseguenza che
lo Stato avocherebbe a sé l'importo di Lit. 88,5 miliardi non utilizzato per il
1982, per il finanziamento del fondo 1983;
- in ordine alla impugnativa dell'art. 7, comma
tredicesimo, l. 730, é stato tra l'altro eccepito dalla Regione Veneto, circa
la pretesa facoltà delle Regioni di ricorrere ad adeguamenti tariffari (per la
copertura dei disavanzi in questione), che essa sarebbe smentita dallo stesso
legislatore statale: dal momento che il d.l. 15 febbraio 1984, n. 10, decaduto
ma ripresentato come d.l. 17 aprile 1984, n.
- con riguardo alla questione sub art. 25, comma secondo, l.
- con riferimento all'obbligo del ripiano dei disavanzi 1981 ex art. 29,
é stato ulteriormente sottolineato - da Piemonte,
Lombardia ed Emilia-Romagna - come, nel contesto dei
principi fissati dalla legge quadro in materia di sanità, sarebbe illogico ed
illegittimo obbligare le Regioni a coprire i disavanzi U.S.L.,
sia che dipendano da obiettiva insufficienza delle risorse assegnate al fondo
sanitario nazionale rispetto al fabbisogno incomprimibile, sia che, in ipotesi,
derivino da determinazioni discrezionali delle unità sanitarie locali (che
conducano ad eccedenze di spesa rispetto alle assegnazioni). Nel primo caso,
incomberebbe infatti allo Stato (l'unico, oltre tutto,
ad averne i mezzi) la responsabilità di adeguare le risorse al fabbisogno; nel
secondo caso sarebbero, invece, le amministrazioni locali a dover essere
chiamate a rispondere del loro operato e ricondotte all'osservanza dei vincoli
finanziari (artt. 50, quarto comma,
e 51, settimo comma, legge n. 833/1978).
10. - Alla pubblica udienza del 29 maggio 1984 - dopo la relazione
congiunta del Giudice Livio Paladin
- gli avvocati delle ricorrenti e gli Avvocati dello Stato Giorgo
Azzariti e Paolo Vittoria hanno ulteriormente ribadito le rispettive istanze e deduzioni.
Considerato in diritto
1. - I dieci giudizi in esame si prestano ad essere riuniti e decisi con
unica sentenza, poiché riguardano tutti la legge 27
dicembre 1983, n. 730, intitolata "Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1984)".
Inoltre i ricorsi introduttivi dei giudizi stessi interferiscono in più punti fra di loro, sebbene sollevino questioni in parte diverse,
sia quanto alle norme impugnate sia quanto ai motivi rispettivamente proposti.
2. - Seguendo l'ordine testuale della legge n. 730, vanno prese anzitutto
in considerazione le questioni concernenti il
finanziamento dei trasporti pubblici locali: fra le quali presenta primaria
importanza l'impugnazione dell'art. 7, comma tredicesimo, congiuntamente
promossa dalle Regioni Veneto, Sicilia, Campania, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, mediante i ricorsi menzionati
in narrativa.
L'art. 7, comma tredicesimo, stabilisce che "i disavanzi delle
aziende di trasporto pubblico locale, non ripianabili con i contributi
regionali di esercizio di cui all'art. 5 della legge
10 aprile 1981, n. 151, devono essere coperti dalle regioni o province autonome
mediante adeguamenti tariffari stabiliti con il concorso degli enti locali
interessati o con prelievo dei fondi necessari dalla quota del fondo comune di
cui all'art. 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281, per le regioni a statuto
ordinario, e dalle corrispondenti entrate di parte corrente previste dai
rispettivi ordinamenti per le regioni a statuto speciale o province
autonome". Senonché le
ricorrenti Regioni di diritto comune censurano la disposizione che le obbliga a
coprire i disavanzi, facendoli gravare sulla finanza regionale, nella misura
occorrente per surrogare o per integrare gli "adeguamenti tariffari";
e, sotto questo aspetto, denunciano in particolar modo la violazione degli artt. 81, comma quarto, 117 e 119
della Costituzione.
Da un lato, infatti, la norma impugnata comporterebbe
oneri a carico dei loro bilanci, senza assegnare alle Regioni le somme
occorrenti per farvi fronte; d'altro lato, la norma stessa vincolerebbe
ad una specifica destinazione mezzi finanziari liberamente disponibili da parte
regionale, nell'esercizio della loro autonomia legislativa. Di più: la
disciplina in esame verrebbe in tal senso a
contraddire puntualmente una pronuncia della Corte, adottata mediante la
sentenza n. 307 del 1983, nella parte in cui questa ha annullato l'art. 31,
comma primo, lett. a, del d.l. n. 55 del 1983. Rispetto alla disposizione così
dichiarata illegittima - che imponeva alle Regioni di integrare "con il
maggior gettito dei tributi propri" l'"eventuale differenza tra la
quota regionale derivante dalla ripartizione del Fondo nazionale trasporti per
l'anno 1983 e la somma delle erogazioni effettuate allo stesso titolo alle
aziende nel 1982" - l'art. 7, comma tredicesimo, della legge n. 730 del
1983 implicherebbe novità puramente formali, insuscettibili
di sanare il vizio allora riscontrato dalla Corte; ed anzi sarebbe a tal punto
incompatibile con il "giudicato costituzionale", da determinare -
secondo il ricorso della Regione Veneto - la violazione dello stesso art. 136 Cost.. Né gli "adeguamenti
tariffari" potrebbero bastare allo scopo, consentendo alle Regioni di
rendere del tutto inoperante la previsione denunciata: sia perché le Regioni
non sarebbero in grado di incidere sulle tariffe - stando al testuale disposto
dell'art. 7, comma tredicesimo - senza il "concorso degli enti locali
interessati"; sia perché si tratterebbe di ripianare non soltanto i
deficit degli anni a venire, ma anche i disavanzi già prodottisi in passato;
sia perché occorrerebbe provvedere al ripiano per ogni singola azienda
deficitaria, laddove le Regioni non disporrebbero di alcuna competenza
specialmente nel caso dei servizi direttamente assunti dagli enti locali -
quanto alla gestione ed alle spese delle aziende stesse.
Così ricostruiti, i ricorsi vanno in questa parte
accolti (il che rende superfluo esaminare l'ulteriore denuncia proposta
dalla Regione Sicilia, per pretesa violazione della competenza regionale
configurata dall'art. 15, comma terzo, del rispettivo Statuto speciale). Per averne la dimostrazione, basta rileggere la motivazione svolta
dalla sentenza n. 307, nel risolvere l'analogo problema posto dal citato art.
31, comma primo, lett. a, del d.l. n. 55 del 1983. Già in quell'occasione,
Ora, tutti questi assunti sono sostanzialmente riferibili al problema in
esame, sebbene la norma dettata dall'art. 7, comma tredicesimo, della legge n.
730 del 1983 riguardi il "fondo comune" (ovvero le corrispondenti
entrate delle Regioni o Province a statuto speciale) anziché i tributi
regionali "propri". Infatti, non vi é dubbio che le quote dei tributi
erariali in base alle quali si determina l'ammontare del fondo predetto - ai
sensi dell'art. 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281 - rientrino anch'esse
nella previsione del primo capoverso dell'art. 119 Cost.; e la parificazione fra i cosiddetti "tributi
propri" ed il "fondo comune" risulta confermata, a questi
effetti, sia dall'art. 1 della stessa legge n. 281 del '70, sia dall'art. 8,
comma primo, della legge 19 maggio 1976, n.
D'altra parte, non giova replicare - come fa l'Avvocatura dello Stato -
che la disciplina in discussione (diversamente dall'art. 31, comma primo, lett.
a, del. d.l. n. 55/1983) farebbe cadere l'accento
sugli "adeguamenti tariffari": cui le Regioni sarebbero comunque
tenute, in virtù del principio di corrispondenza fra le tariffe ed il
"costo effettivo del servizio", già stabilito dall'art. 6, comma
primo, lett. b, della ricordata "legge quadro" sui trasporti pubblici
locali. La norma richiamata dall'Avvocatura prescrive bensì la copertura dei
costi attraverso "i ricavi del traffico... derivanti dall'applicazione
delle tariffe minime stabilite dalla regione", ma
"nella misura che verrà stabilita annualmente per le varie zone ambientali
omogenee del territorio nazionale con decreto del Ministro dei
trasporti..."; e dal recente decreto ministeriale 13 giugno 1983 (pubbl.
in G. U. 20 agosto 1983, n. 228) si desume che le aliquote minime oscillano fra
il 35% dei costi (relativamente ai trasporti
extra-urbani del centro-nord) e il 17% dei costi medesimi (relativamente ai
trasporti urbani nella città di Napoli).
Ad aggravare il caso, é anzi sopraggiunta - in
attuazione del d.l. n. 10 del 1984 (recante, fra l'altro, misure urgenti
in materia di tariffe) - la delibera n. 10/1984 del Comitato interministeriale
prezzi (tuttora valida ai sensi della legge n. 219 del 1984) la quale ha
stabilito, al punto 4, che per l'anno in corso
"le tariffe del trasporto urbano e delle autolinee in concessione...
dovranno essere mantenute ferme agli attuali livelli". Ma
l'art. 7, comma tredicesimo, della legge n. 730 del 1983 dev'esser
dichiarato costituzionalmente illegittimo, pur senza utilizzare quest'ultimo ordine di considerazioni (tenuto conto che la
predetta delibera del CIP é stata a sua volta impugnata dalla Regione Toscana e
che
3. - Le Regioni Piemonte, Emilia-Romagna e
Lombardia contestano inoltre la legittimità costituzionale dell'undicesimo e
del dodicesimo comma dell'art. 7, rispettivamente concernente
l'ammontare del Fondo nazionale per i trasporti quanto agli anni 1982 e 1983.
Più di preciso, l'undicesimo comma dell'art. 7 stabilisce che "il
fondo nazionale per i trasporti per l'anno 1982, determinato in via provvisoria
in lire 2.900 miliardi dall'art. 27 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 786,
convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 51 é
definitivamente determinato in lire 2.922 miliardi"; ed aggiunge che
"gli importi di cui al secondo comma dell'art. 27 dello stesso
decreto-legge non utilizzati per lire 88,5 miliardi per la determinazione
definitiva del predetto fondo, vengono destinati al
finanziamento del fondo relativo all'anno 1983". Così disponendo, però, la
disciplina impugnata lederebbe secondo le Regioni ricorrenti - l'autonomia
regionale, come pure il quarto comma dell'art. 81 Cost., dal momento che l'importo del fondo verrebbe in tal modo
fissato al di sotto della misura risultante da una corretta applicazione
dell'art. 9 della "legge quadro" sui trasporti pubblici locali.
Effettivamente, il secondo comma dell'art.
Con ciò - come si vede - l'intera questione finisce per vertere sugli
aspetti quantitativi della determinazione del fondo trasporti
per il 1982, con particolare riguardo alla cosiddetta quota storica del fondo
medesimo. In ultima analisi, anche l'Avvocatura dello Stato affronta il
problema in tale prospettiva, sia quando mette in dubbio l'interesse delle
ricorrenti ad ottenere un aumento del fondo trasporti
(che verrebbe comunque ad incidere sulla finanza regionale, per mezzo di
un'equivalente contrazione delle entrate previste dalla legge n. 281 del 1970),
sia quando sostiene che la norma impugnata non avrebbe comunque effettuato
"alcuna riduzione retroattiva delle disponibilità finanziarie delle
Regioni". E le controdeduzioni della difesa
regionale non alterano affatto i termini della
controversia, in quanto si limitano ad argomentare che il "fondo
comune" sarebbe già stato decurtato della somma che la legge finanziaria
Tuttavia, questa Corte non é dell'avviso che censure così prospettate,
fondate o meno che siano sul piano fattuale,
bastino a concretare una lesione dell'autonomia costituzionalmente garantita
alle Regioni, né una violazione del precetto che impone la copertura
finanziaria degli oneri gravanti sulla finanza pubblica allargata. Quanto al
quarto comma dell'art. 81 Cost.,
non si può dire che le somme in questione fossero già state determinate ed
assegnate alle Regioni, per esser poi ridotte al momento della loro materiale
erogazione. Al contrario, la definitiva determinazione di esse,
comunque disposta in misura superiore alla determinazione provvisoria del
dicembre '81, non ha avuto luogo se non per effetto della norma che le tre
Regioni ricorrenti denunciano nel presente giudizio. Se dunque, in precedenza,
le Regioni stesse hanno stanziato ulteriori contributi
per il ripiano di disavanzi di esercizio riguardanti le aziende di trasporto
pubblico locale, ciò ha rappresentato il frutto di loro autonome scelte,
concretate mediante il ricorso ad entrate regionali già disponibili allo scopo:
senza di che le leggi locali di spesa avrebbero violato a loro volta il quarto
comma dell'art. 81, visto che oneri del genere non possono venire
legittimamente fronteggiati con fondi "derivanti da entrate già previste
dalla normazione" statale, ma non ancora assegnati alle amministrazioni regionali,
a conclusione dei necessari "adempimenti procedurali" (come questa
Corte ha precisato nella sentenza n. 54 del 1983).
D'altro lato, quanto all'autonomia regionale in genere ed all'autonomia
finanziaria in particolare,
Se mai, altre dovrebbero essere le conclusioni del discorso, qualora la
denunciata riduzione del fondo trasporti per il 1982
si fosse accompagnata all'incondizionato obbligo di coprire disavanzi delle
aziende di trasporto pubblico locale, immediatamente posto a carico della
finanza regionale propria; ma l'annullamento del tredicesimo comma dell'art. 7,
determinato dalla presente decisione, esclude in partenza il verificarsi di
siffatti pregiudizi. Agli specifici fini del sindacato spettante a questa
Corte, la proposta impugnativa risulta quindi
infondata in tutti i suoi aspetti.
4. - Considerazioni analoghe valgono anche in ordine al
dodicesimo comma dell'art. 7, per cui "l'importo di lire 2.900 miliardi
del fondo nazionale per i trasporti relativo all'anno 1983, di cui al secondo
comma dell'art. 5 della legge 26 aprile 1983, n. 130, é elevato a lire 3.132,5
miliardi, di cui lire 144 miliardi sono iscritte nel bilancio dello Stato per
l'esercizio finanziario 1984". Al che si aggiunge l'abrogazione del
"commi 5.1, 5.2 e 5.3 dell'art. 31 del decreto-legge 28 febbraio 1983, n.
55, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 1983, n.
131"; mentre le Regioni vengono facoltizzate a
"corrispondere un contributo per il ripiano del disavanzo di esercizio relativo all'anno 1983 superiore a quello
attribuito nell'anno 1982 esclusivamente alle aziende che hanno applicato, e
per le quali siano in atto al 31 dicembre 1983, gli adeguamenti tariffari
previsti dall'art. 31 del predetto decreto-legge 28 febbraio 1983, n. 55".
I tre ricorsi in esame deducono, per un primo verso, che l'incremento del
fondo per il 1983 - rispetto all'importo di 2.900 miliardi, già stabilito
dall'art. 5 della legge finanziaria n. 130 - sarebbe solo fittizio e non
soddisferebbe la promessa rivalutazione del fondo medesimo, di cui all'art. 9,
comma terzo, della "legge quadro" sui trasporti pubblici locali:
poiché la maggior somma di 232,5 miliardi sarebbe destinata in parte (ossia
nella misura di 144 miliardi) al fondo trasporti per
il 1984 e nella parte residua corrisponderebbe alla cifra di 88,5 miliardi, che
l'undicesimo comma dell'art.
Per respingere la prima impugnativa, sono risolutivi gli argomenti
esposti relativamente all'art. 7, comma undicesimo; ed
anzi la conclusione dell'infondatezza s'impone a fortiori,
dal momento che la definitiva determinazione del fondo trasporti per il 1983
nell'importo di 2.900 miliardi, quale era stata effettuata dall'art. 5 della
legge finanziaria n. 130, non ha formato oggetto di alcuna censura regionale
(sebbene già in quell'occasione il "fondo
nazionale" non fosse stato rivalutato per nulla, al confronto con
l'importo provvisoriamente stabilito per il 1982). Circa il secondo motivo di
ricorso,
Del resto, a ciò si aggiunge che la clausola abrogativa contenuta
nell'art. 7, comma dodicesimo, riguarda comunque
facoltà spettanti alle Regioni e non maggiori spese delle quali esse debbano
farsi puntualmente carico. A motivare la presente decisione di rigetto,
concorrono dunque le argomentazioni della sentenza n. 307 del 1983, là dove si
osserva che "gli ulteriori contributi, previsti
dal comma 5.2 dell'art. 31, sono pur sempre - giuridicamente - il frutto di
un'autonoma determinazione regionale" (effettuata sulla base dell'art. 5
cpv. della "legge quadro" in tema di trasporti pubblici locali);
"sicché non ne deriva nessun onere che sia stato posto a carico dei
bilanci regionali, senza l'indicazione dei mezzi per farvi fronte".
5. - L'art. 19 della legge n. 730 viene
impugnato unicamente dalla Regione Veneto, anche "in relazione"
all'art. 16 della legge stessa, come si precisa nelle premesse del ricorso. Nel
disporre la proroga del "blocco delle assunzioni", già previsto
dall'art. 9, comma terzo, della legge n. 130 del 1983, le disposizioni
denunciate avrebbero anzitutto conferito "carattere di normalità a una misura eccezionale", contravvenendo alle
indicazioni date dalla Corte con la sentenza n. 307 del medesimo anno. Più
specificamente, tali disposizioni avrebbero invaso, sotto un triplice aspetto,
la competenza costituzionalmente riservata alle Regioni: in primo luogo, perché
il terzo comma dell'art. 19, richiamando l'art. 9, comma quinto, della legge n.
130, continua a subordinare le "nuove assunzioni" presso le
"amministrazioni regionali" al rispetto di appositi
atti governativi d'indirizzo e coordinamento; in secondo luogo, perché il
quarto comma dell'art. 19, pur demandando alle Regioni le valutazioni delle
"eventuali necessità di assunzioni di personale" presso le unità
sanitarie locali, stabilisce anche in tal caso che le autorizzazioni regionali
vanno disposte "nei limiti fissati dagli atti di indirizzo e coordinamento
emanati ai sensi del quinto comma dell'art. 9 della legge 26 aprile 1983, n.
130"; in terzo luogo, perché la mancata considerazione degli "enti
amministrativi dipendenti dalla Regione" lascia intendere - secondo la
difesa regionale - che resta "impregiudicato il
potere statale per tutti quegli enti che, pur diversi da quelli del servizio
sanitario e dalle amministrazioni regionali in senso stretto, rientrano
tuttavia nell'area delle competenze regionali anche per quanto concerne la
disciplina e la provvista dei loro organici e delle assunzioni di
personale". Ed il raffronto fra l'art. 19 e l'art. 16 della legge n. 730,
che riconosce ai Comuni e alle Province - come si afferma nel ricorso -
"una sfera di autodeterminazione in materia...
più ampia di quella regionale", varrebbe a confermare la sussistenza dei
prospettati vizi di legittimità costituzionale.
In realtà, sui primi due motivi specificamente dedotti
nel ricorso,
Né vale obiettare che il "blocco delle assunzioni", in quanto
protratto per l'intero anno in corso, avrebbe superato
quei "limiti temporali non irragionevoli", che
Per contro, dev'essere
accolto il terzo degli indicati motivi di ricorso. Non regge l'eccezione
d'inammissibilità, sollevata in proposito dall'Avvocatura dello Stato, con il
rilievo che la censura sarebbe "troppo generica", riguardando
"altri enti non precisati" dal ricorso medesimo: vero é, viceversa,
che l'impugnativa prende le mosse da un testuale richiamo all'art. 117 della
Costituzione, là dove si tratta degli "enti amministrativi dipendenti
dalla Regione" (anche se il riferimento viene ilustrato in forma esemplificativa - mediante un successivo
accenno alle "aziende regionali forestali", agli "enti di svilupppo agricolo", agli "enti turistici"
ed agli "enti fieristici regionali" - piuttosto che in un modo
tassativo). Nel merito, d'altronde, non si giustifica il
fatto che il legislatore statale, tanto nella legge n. 130 quanto nella
legge n. 730 del 1983, abbia preso in specifica considerazione le assunzioni di
personale presso le "amministrazioni regionali", trascurando quegli
"enti amministrativi dipendenti", che pur non confondendosi con le
"amministrazioni" stesse vengono affiancati agli "uffici"
dell'ente Regione per mezzo del citato disposto costituzionale. L'incoerenza
della vigente disciplina sul "blocco delle assunzioni" é anzi
accentuata da ciò che l'immissione di nuovo personale nelle unità sanitarie
locali, entro i limiti fissati dagli atti governativi di indirizzo
e coordinamento, ricade attualmente nella competenza regionale, malgrado le
"strutture operative" in questione facciano capo ai Comuni (od alle
comunità montane) anziché alle Regioni, in base all'art. 15, comma primo, della
legge istitutiva del servizio sanitario nazionale.
Non a caso, la prima Commissione permanente del Senato aveva espresso in
tal senso l'avviso che la legge finanziaria 1984 dovesse
affermare la competenza delle Regioni "non solo per il personale del servizio
sanitario, ma, più in generale, per tutto il personale dipendente da enti
pubblici regionali" (Atti Senato, 20 ottobre 1983, n. 195-A). Senonché il detto parere, che
avrebbe portato alle loro naturali conseguenze le indicazioni offerte dalla
sentenza n. 307/1983 circa le unità sanitarie locali, é stato disatteso dal
Parlamento nel seguito dei lavori preparatori della legge n. 730. E dunque
6. - L'art. 24, comma primo, della legge n. 730 (in combinazione con
l'art. 32, comma quinto, della legge stessa) viene a sua volta impugnato dalla
Regione Toscana: con particolare riguardo - come si evince dalla motivazione
del ricorso - alla lettera b, che demanda agli accordi collettivi nazionali, stipulati
in base all'art. 48 della legge n. 833 del 1978, "l'istituzione di
commissioni professionali a livello regionale con la partecipazione di
rappresentanti dei medici convenzionati..., scelti tra
esperti qualificati delle strutture pubbliche universitarie e ospedaliere, e
dell'ordine professionale, con il compito di definire gli standards
medi assistenziali e di fissare la procedura per le verifiche di qualità
dell'assistenza"; al che si aggiunge - secondo la disposizione denunciata
- che "nella definizione degli standards medi
assistenziali dovranno altresì essere previste le ipotesi di eccessi di spesa
che potranno dar luogo, ove non giustificate, a sanzioni da determinarsi
secondo i criteri previsti dal punto 3, terzo comma, del richiamato art.
48".
Per risolvere i problemi così prospettati, giova premettere che l'art. 48
della legge n. 833 del 1978 considera - direttamente od indirettamente - ogni
aspetto dell'ordinamento del "personale sanitario a rapporto
convenzionale", con il dichiarato scopo di garantire, "sull'intero,
territorio nazionale", "l'uniformità del trattamento economico e
normativo "del personale medesimo, in vista di quell'"eguaglianza dei cittadini nei confronti
del servizio" (proclamata dall'art. 1, comma terzo, della stessa legge n.
833) che rappresenta il primario motivo ispiratore della riforma sanitaria. Ai
contratti collettivi da esso previsti, cui devono
"del tutto" conformarsi le convenzioni delle quali si tratta, l'art.
48 devolve pertanto - in particolar modo - il compito di regolare "il
rapporto ottimale medico-assistibili..., fatto salvo il diritto di libera
scelta del medico per ogni cittadino", "il numero massimo degli
assistiti per ciascun medico" e, soprattutto, "le forme di controllo
sull'attività dei medici convenzionati nonché le ipotesi di infrazione da parte
dei medici degli obblighi derivanti dalla convenzione, le conseguenti sanzioni,
compresa la risoluzione del rapporto convenzionale, e il procedimento per la
loro irrogazione, salvaguardando il principio della contestazione degli
addebiti e fissando la composizione di commissioni paritetiche di disciplina
"(come si legge nel terzo comma, nn. 1, 5 ed 8).
Ed é appunto in questo quadro (del quale
L'art. 24, comma primo, lett. b, della legge n. 730 non implica dunque -
come vorrebbe il ricorso - una rottura della logica alla quale é ispirato
l'art. 48 della legge n. 833; bensì costituisce, dal punto di vista delle rispettive competenze statali e regionali, una puntuale
conferma della logica stessa. Ben diversamente dal personale delle unità
sanitarie locali, in ordine al quale spetta alle
Regioni un consistente complesso di poteri, il personale sanitario a rapporto
convenzionale viene interamente regolato per mezzo di norme legislative statali
ovvero di appositi accordi collettivi nazionali (sia pure stipulati da una
delegazione dei poteri pubblici, comprensiva di cinque rappresentanti regionali);
mentre ad ogni singola Regione l'art. 48 riserva il solo compito di autorizzare
le temporanee deroghe di cui al terzo comma, punto 5, quanto "al numero
massimo degli assistiti e delle ore di servizio ambulatoriale".
Ciò spiega per quali motivi il Parlamento, discostandosi dal testo
presentato dal Governo, abbia approvato la norma che
ora é in discussione. Determinante, cioé, si é rivelata l'esigenza - più volte segnalata nel
corso dei lavori preparatori - di evitare ingerenze di stampo burocratico
nell'esercizio della libera professione medica. E ne offre
la riprova l'esordio dell'art. 24, comma primo, che subordina i previsti
contratti collettivi nazionali "al fine di nazionalizzare l'erogazione
delle prestazioni sanitarie in regime convenzionale, nel rispetto
dell'autonomia e del segreto professionale dei sanitari convenzionati".
Certo, la soluzione così accolta potrebbe dare
luogo ad inconvenienti, perché suscettibile delle più diverse applicazioni
nell'ambito del territorio nazionale. Ma, entro la particolare prospettiva del
presente giudizio, rimane fermo che gli obblighi gravanti sul personale in
esame non costituiscono secondo il vigente sistema - l'oggetto di alcuna potestà legislativa regionale propria: il che
dovrebbe escludere, del pari, la stessa possibilità di un conflitto fra gli
"standards medi assistenziali", prefigurati
dal primo comma, lett. b, dell'art. 24, ed i "piani sanitari
regionali", periodicamente approvati dai legislatori locali, in base
all'art. 55 della legge n. 833. Di conseguenza, la prima delle proposte
questioni deve dirsi non fondata. E la medesima
conclusione vale per l'impugnativa concernente l'art. 32, comma quinto: poiché
il cosiddetto "controllo sull'attività dei medici convenzionati" -
già fondato sull'art. 48, comma terzo, punto 8, della legge n. 833 - non ha
nulla a che vedere con il controllo sugli atti degli enti locali, considerati
dall'art. 130 della Costituzione.
7. -
a) Di tale disciplina,
Ora, per ciò che riguarda
b) Quanto invece ai ricorsi provinciali, occorre anzitutto chiarire quale
sia la natura delle somme che vengono attualmente
"trattenute" dalle Province e dalle unità sanitarie locali, per
effetto del secondo comma dell'art.
Così stando le cose, non é pertinente il richiamo dei ricorsi alle leggi
provinciali di contabilità, là dove esse prevedono (alla stregua dell'art. 21,
comma primo, della legge n. 335 del 1976) che i fondi comunque
assegnati alle Province affluiscano ai rispettivi bilanci "senza vincolo a
specifiche destinazioni". Se tale pretesa venisse
condotta alle sue naturali conseguenze, nell'ambito del servizio sanitario, ciò
comporterebbe che le stesse quote del fondo nazionale, annualmente trasferite
alle amministrazioni provinciali, possano venire utilizzate dai legislatori
locali per coprire spese del tutto esorbitanti dal campo della sanità pubblica.
Ma ciò si porrebbe in palese contrasto con le caratteristiche fondamentali
della riforma sanitaria, cioé con "l'eguaglianza
dei cittadini nei confronti del servizio" e con la conseguente competenza
dello Stato a fissare "i livelli delle prestazioni sanitarie che devono
essere, comunque, garantiti a tutti i cittadini"
(artt. 1, comma terzo, e 3, comma
secondo, della legge n. 833 del 1978): riforma che in tal senso vincola
anche le Province di Trento e di Bolzano, quanto alle stesse materie attribuite
alla loro competenza legislativa primaria.
A più forte ragione, d'altronde, la conclusione non muta per ciò che
riguarda le unità sanitarie locali ed i piani sanitari provinciali, in quanto
competenti a programmare l'utilizzo delle somme disponibili da parte delle
unità medesime: giacché in materia di assistenza
sanitaria ed ospedaliera le Province autonome non sono dotate se non di potestà
legislativa concorrente, sul medesimo piano delle Regioni ordinarie. Né giova
argomentare che i controlli provinciali sugli enti locali minori coinvolgono i
bilanci delle U.S.L.: altro
essendo il controllo - come ha giustamente rilevato l'Avvocatura dello Stato -
ed altro l'indirizzo delle attività spettanti alle strutture sanitarie locali.
Relativamente al secondo comma dell'art. 25,
tanto il ricorso regionale quanto i due ricorsi provinciali si dimostrano
quindi infondati in tutti i loro aspetti.
8. - Oltre che dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle Province di
Trento e di Bolzano, il terzo comma dell'art. 25 viene
censurato dalla Regione Sicilia. Tuttavia, i primi tre ricorsi hanno specifico
riferimento all'ultimo periodo del comma stesso; mentre il ricorso siciliano
sembra mettere in questione le sole previsioni contenute nel periodo iniziale.
Secondo le disposizioni impugnate, "le regioni e le province
autonome possono con propria legge assicurare prestazioni di assistenza
sanitaria aggiuntive a quelle previste dal precedente primo comma, con prelievo
dalla quota del fondo comune di cui all'art. 8 della legge 16 maggio 1970, n.
281, per le regioni a statuto ordinario, e dalle corrispondenti entrate di
parte corrente previste dai rispettivi ordinamenti per le regioni a statuto
speciale o province autonome ovvero attingendo ad economie di gestione delle
somme loro attribuite dal fondo sanitario nazionale"; ma "le regioni
e le province autonome sono tenute, nel caso, ad instaurare una contabilità separata".
Quest'ultima previsione costituisce, appunto, l'unico
oggetto dell'impugnazione proposta dalla Regione Trentino- Alto Adige e dalle
due Province autonome: le quali si dolgono del vincolo che ne discenderebbe,
sia quanto alla contabilità regionale e provinciale, sia quanto alla
contabilità delle U.S.L.,
dal momento che sotto entrambi i profili si tratterebbe di materie
rispettivamente riservate alla competenza della Regione o delle Province
medesime. Per contro,
Il ricorso della Regione Sicilia non si regge, per altro, sopra nessun
fondamento giuridico. La lettera dell'art. 25, comma terzo, é ben chiara nel
senso che
Più complesso é il discorso concernente l'ultimo periodo dell'art. 25,
comma terzo, poiché la questione proposta dalla Regione Trentino-Alto Adige e
dalle Province di Trento e di Bolzano non può essere risolta, se non vengono preliminarmente individuati la sfera di efficacia ed
il significato della norma di cui si discute. In proposito, le parti ricorrenti
ed il Presidente del Consiglio dei ministri si sono chiesti anzitutto se
l'obbligo d'"instaurare una contabilità separata" si riferisca alle Regioni ed alle Province autonome, in quanto
assicurino le previste "prestazioni... aggiuntive", ovvero riguardi
le unità sanitarie locali o infine coinvolga le une e le altre, all'atto in cui
deliberino di erogare le prestazioni stesse; ed in quest'ultimo
senso la norma é stata intesa dall'Avvocatura dello Stato. Senonché
Ciò premesso, rimane da stabilire in che
consista il vincolo che la norma impugnata determina. E, per questa parte,
Così ricostruito, il periodo finale dell'art. 25, comma terzo, resiste
alle censure prospettate dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle Province di
Trento e di Bolzano.
9. -
Secondo
Va invece affrontata nel merito la questione proposta dalle due Province
autonome, relativamente all'ultimo comma dell'art. 27.
Disponendo che "il terzo periodo del primo comma dell'art. 80 della legge
23 dicembre 1978, n. 833, é abrogato", la legge finanziaria 1984 avrebbe
violato - secondo i ricorsi provinciali - l'art. 78 dello Statuto speciale per
il Trentino-Alto Adige, escludendone l'applicazione in ordine
al finanziamento della spesa sanitaria, già prevista dalla legge
istitutiva del servizio sanitario nazionale: la quale statuiva, nel passo
dell'art. 80, comma primo, reso inefficace dall'impugnata clausola abrogativa,
che "per il finanziamento relativo alle materie di cui alla presente
legge" dovesse appunto applicarsi "quanto disposto dall'art. 78 del ...
decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, e relativi
parametri".
Nello sforzo di eliminare il problema alla radice, l'Avvocatura dello
Stato ha proposto un'interpretazione fortemente
riduttiva del citato art. 80, comma primo, terzo periodo, "nel senso che
le Province autonome di Bolzano e di Trento, in non diversa guisa dalle regioni
a statuto speciale, dovessero vedersi attribuite quote del fondo sanitario
nazionale, determinate mediante forme procedimentali
e criteri di ripartizione identici per tutte le regioni... ferma restando la
partecipazione al gettito dei tributi erariali preveduta
dall'art.
Sul piano costituzionale, tuttavia, le proposte impugnative risultano infondate, poiché il richiamo dell'art.
Giustamente, perciò, l'Avvocatura dello Stato osserva che quella già
dettata dall'art. 80, comma primo, terzo periodo, della legge n. 833 non era
una disciplina costituzionalmente necessitata, ma rappresentava
il frutto di una libera scelta del legislatore. Né il
superamento della scelta stessa può considerarsi privo di giustificazione, date
le peculiari finalità del fondo sanitario, che é stato istituito per garantire
livelli minimi di prestazioni, "in modo uniforme su tutto il territorio
nazionale" (come si precisa nel secondo comma del citato art. 51). Al
contrario, é proprio "l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del
servizio" che rischiava di venire compromessa,
qualora si fosse continuato ad applicare un differenziato meccanismo di riparto
del fondo medesimo, suscettibile di privilegiare gli abitanti del Trentino-Alto
Adige, a detrimento di tutte le altre componenti del Paese.
10. - La sola Regione Veneto solleva un complesso di questioni di
legittimità costituzionale relative all'art. 28 della legge n. 730 e, più
precisamente, al primo comma dell'articolo stesso: in cui si stabilisce che,
"a decorrere dal 1984, qualora il consuntivo dell'esercizio finanziario si
chiuda con un disavanzo non ripianabile con risorse a disposizione dell'unità
sanitaria locale e non siano previste misure adeguate per riassorbirlo entro il
secondo anno successivo a quello cui si riferisce il
consuntivo, la regione provvede ad esercitare, previa diffida, attraverso il
comitato regionale di controllo, i poteri sostitutivi relativamente agli atti
di competenza del comitato di gestione e dell'assemblea dell'unità sanitaria
locale, ovvero richiede, con deliberazione motivata in riferimento a
inadempienze del comitato di gestione, lo scioglimento di quest'ultimo
al commissario del Governo".
Stando al ricorso, l'art. 28 configurerebbe un "anomalo procedimento
di controllo sull'organo di gestione delle U.S.L., da attivarsi ma non da condursi da parte della
Regione". Con ciò, in primo luogo, la disciplina denunciata lederebbe le
attribuzioni regionali, sia perché definirebbe in termini puntuali "le
modalità di funzionamento dell'organo regionale di
controllo", sovrapponendosi alle leggi locali competenti in materia, sia
perché introdurrebbe "una fattispecie di controllo sostitutivo...
eterogeneo rispetto alle forme del controllo sulle U.S.L. e in ultima analisi
inapplicabile". In secondo luogo, il previsto scioglimento dei comitati di
gestione delle unità sanitarie ad opera del
Commissario del Governo determinerebbe del pari "una forma di controllo
ulteriore rispetto a quelle consentite dall'art. 130 Cost.":
poiché il controllo stesso, "sia per la misura prefigurata (scioglimento
del Comitato di gestione), sia per l'organo competente a esercitarlo
(Commissario del Governo), sia per la definizione dell'iniziativa in capo alla
Regione", non troverebbe "alcuna collocazione nel sistema dei
controlli sugli enti locali" ed in ogni caso priverebbe
Come si vede, sebbene il ricorso contenga valutazioni di varia natura,
parte attinenti alla legittimità e parte al merito della normativa in esame,
non si può dire che esso trascuri di indicare in qual
senso la competenza regionale sarebbe stata invasa o violata (come é richiesto
dall'art. 2, comma primo, della legge costituzionale n. 1 del 1948 e dall'art.
32, comma primo, della legge n. 87 del 1953). Pertanto, dev'essere
respinta l'eccezione d'inammissibilità, sollevata dall'Avvocatura dello Stato
in base all'assunto che la ricorrente si limiterebbe ad asserire
l'irrazionalità dell'impugnato art. 28 e lamenterebbe comunque
"la violazione di norme costituzionali poste a garanzia dell'autonomia di
Comuni e Province", anziché delle attribuzioni costituzionalmente
spettanti alla Regione stessa. Nel merito, però, il ricorso non é fondato, né
per quanto riguarda i poteri sostitutivi previsti dalla prima parte dell'art.
28, comma primo, né relativamente all'alternativo
scioglimento del comitato di gestione delle unità sanitarie locali.
a) In verità, circa il primo ordine di problemi, questa Corte non può non
rilevare l'incoerente sovrapporsi di varie leggi statali, che negli ultimi anni
ha contraddistinto la disciplina del settore in discussione. Basti ricordare
che la legge n. 833 del 1978 non prevede in modo specifico alcun tipo di poteri
e di controlli sostitutivi nei confronti degli atti o delle attività spettanti
alle U.S.L., fatta eccezione
per il disposto dell'art. 50, u.c.: il quale
stabilisce che, nell'ipotesi di un "disavanzo complessivo", "i
comuni singoli o associati, e le comunità montane sono tenuti a convocare nel
termine di 30 giorni i rispettivi organi deliberanti al fine di adottare i
provvedimenti necessari a riportare in equilibrio il conto di gestione della
unità sanitaria locale". Per altro, in virtù dell'art. 13, comma secondo,
della legge n. 181 del 1982 la competenza ad adottare
"i provvedimenti necessari a riportare in equilibrio il conto"
predetto viene devoluta alle Regioni, per il caso che i Comuni o le Comunità
montane non esercitino i compiti loro attribuiti, entro trenta giorni
dall'invito regionale: mentre l'art. 1, comma decimo, del d.l. n. 463 del 1983,
convertito nella legge n. 638 del medesimo anno, estende a sua volta i poteri
surrogatori regionali, con riferimento a tutte le situazioni in cui le unità
sanitarie rimangano inerti o ritardino
nell'adempimento dei doveri loro imposti in via normativa ovvero in conseguenza
di atti governativi di indirizzo e coordinamento. Lungo
questa linea muoveva anche il progetto della legge finanziaria 1984,
approvato dalla dodicesima Commissione permanente del Senato: secondo il quale
doveva spettare alle Regioni (od al Presidente del Consiglio dei ministri, ove
l'amministrazione regionale non avesse tempestivamente provveduto) l'esercizio
dei poteri sostitutivi rispetto alle assemblee ed ai comitati di gestione delle
U.S.L. gravate dai disavanzi in questione. E, viceversa, la norma impugnata ha
mutato indirizzo, puntando sui comitati regionali di controllo, piuttosto che
sugli organi regionali di amministrazione attiva.
Per sé considerata, tuttavia, la soluzione in esame non appare lesiva di alcuna competenza regionale costituzionalmente garantita.
L'esercizio di "poteri di controllo sostitutivo" da parte degli
organi di cui al primo comma dell'art. 130 Cost. non rappresenta, infatti, il
prodotto d'una invenzione della legge finanziaria
1984, ma trova preciso fondamento nell'art. 59, u.c.,
della legge n. 62 del 1953. Ai sensi delle disposizioni già vigenti in materia,
cui tale norma rinvia, i comitati regionali di controllo
sono cioé titolari degli stessi poteri già esercitati
dal prefetto e dalla giunta provinciale amministrativa, con particolare
riguardo all'adozione degli "atti comunque obbligatori per legge",
previsti dagli artt. 19, 104 e 153 del r.d. 3 marzo
1934, n. 383; ed altrettanto vale nel campo sanitario, dal
momento che l'art. 49, comma primo, della legge n. 833 (sia prima che
dopo la modifica apportata dall'art. 13, comma quarto, della citata legge n.
181 del 1982) affida appunto ai comitati regionali il controllo sugli atti
delle U.S.L..
Ora, il sintetico testo dell'impugnato art. 28, comma primo, lascia
intendere che tale norma non innova affatto in tema di
controlli sostitutivi esercitabili dai comitati,
bensì presuppone la circoscritta competenza già esistente in base alla legge n.
62 del 1953; e ne tratta al solo scopo di stabilire un rapporto fra i comitati
stessi e
b) Da tali premesse discende, però, l'infondatezza delle stesse censure
concernenti la seconda parte dell'art. 28, comma primo. Anche agli effetti
dello scioglimento dei comitati di gestione delle U.S.L., la riforma attuata dalla legge n. 833 del 1978 si
discosta con nettezza dal precedente ordinamento sanitario: nell'ambito del
quale i consigli di amministrazione degli enti ospedalieri potevano essere
sciolti "con decreto motivato del Presidente della Regione su
deliberazione della Giunta regionale" (cfr. l'art. 17, comma primo, della legge n. 132 del 1968). Oggi,
al contrario, i controlli sugli atti e sugli organi delle unità sanitarie
locali seguono puntualmente - in base all'espresso disposto dell'art. 49, comma
secondo, della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale - le sorti dei
corrispondenti controlli relativi ai Comuni ed alle
Province: con la conseguenza che i soli controlli sugli atti spettano agli
appositi comitati regionali, mentre i controlli sugli organi rientrano nella
competenza dello Stato. Ed in quest'ultimo campo
ricadono senz'altro gli stessi scioglimenti dovuti a ragioni funzionali, sul
tipo di quello previsto dalla norma in esame: per cui
non é fondato l'assunto della ricorrente, che imputa all'art. 28, comma primo,
l'aver trasformato in controllo sugli organi "quello che in realtà rimane
un controllo sull'attività".
Se tale é il riparto fra le competenze statali e regionali, non hanno
pregio nemmeno gli ulteriori argomenti addotti dalla
difesa della Regione Veneto. Da una parte, non rileva ai fini del presente
giudizio l'asserita anomalia di un controllo sugli organi
affidato al Commissario del Governo (tanto più che la norma impugnata si
presta, sul punto, ad essere diversamente interpretata ed applicata). D'altra
parte,
11. - Le Regioni Veneto, Sicilia, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna
e Lombardia, nonché
Secondo le censure concordemente prospettate nei vari ricorsi, la norma
in questione sarebbe viziata per ragioni analoghe a quelle già dedotte dalle
Regioni ricorrenti, in ordine al tredicesimo comma
dell'art. 7. All'onere finanziario fatto gravare sulle Regioni e sulle Province
autonome non corrisponderebbe, cioé, l'assegnazione di adeguate risorse da parte dello Stato, vista la cronica
insufficienza del fondo sanitario nazionale, che sarebbe d'altronde presupposta
dallo stesso art. 29; sicché ne discenderebbe, anzitutto, un contrasto con
quanto stabilito dall'art. 27 della legge n. 468 del
Per valutare la fondatezza di simili assunti, occorre stabilire
preliminarmente - nelle grandi linee - quale sia
l'attuale regime della materia cui si riferiscono le impugnative in esame.
L'Avvocatura dello Stato cerca infatti di resistere ai
ricorsi regionali, deducendo che l'assistenza sanitaria "é
costituzionalmente attribuita... alle regioni", con la conseguenza che
"in base alla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, spetta
alle regioni assicurare la corrispondenza tra costi del servizio ed i relativi
benefici..., come spetta l'esercizio dei poteri di controllo" sulle unità
sanitarie locali. Ma tale "attribuzione di competenza" - si osserva
ancora nell'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri -
non può non implicare, "proprio per il disposto dell'art. 119 Cost., la relativa responsabilità
finanziaria alla quale le regioni devono far fronte con i mezzi indicati al
secondo e terzo comma dell'articolo stesso".
In realtà,
Rispetto a questi precedenti normativi, la legge n. 833 del
Certo, ciò non significa che nel settore in esame il ruolo attribuito
alle Regioni rimanga secondario; e non vale ad
escludere - in particolar modo - che le amministrazioni regionali siano
provviste di specifici poteri, esercitabili per
contenere la spesa sanitaria o per impedire il formarsi di maggiori oneri.
Basti qui ricordare - per averne la dimostrazione - i poteri di
ridimensionamento delle strutture o dei servizi eccedenti o non essenziali o sottoutilizzati, impliciti nelle previsioni dell'art. 55
della legge n. 833 (relative ai "piani sanitari regionali") e quindi
esplicitate dall'art. 5, comma secondo, della legge n. 526 del 1982; come pure
i poteri spettanti alle Regioni in tema di piante organiche delle U.S.L., già in forza dell'art. 15,
comma nono, n. 4, della legge n. 833 (cui si sono aggiunti - per effetto della sentenza n. 307 del
1983 - i provvedimenti autorizzativi delle assunzioni di nuovo personale,
in deroga al blocco stabilito dalla legge finanziaria 1983); nonché i poteri
sostitutivi configurati da numerose leggi statali ed anche regionali,
successive all'istituzione del servizio sanitario nazionale, alle quali si é
per altro sovrapposto il citato art. 28 della legge finanziaria 1984.
Senonché nessuna di
queste competenze basta a far concludere - come invece vorrebbe l'Avvocatura
dello Stato - che le amministrazioni regionali portino dunque l'effettiva
responsabilità degli eventuali disavanzi delle U.S.L..
Assunti del genere sono oltre tutto smentiti dalla considerazione che la parte
essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera non può non gravare sullo Stato
- come é confermato dal susseguirsi dei fondi speciali di cui si é fatto cenno
- per l'evidente ragione che il diritto alla salute spetta ugualmente a tutti i
cittadini e va salvaguardato sull'intero territorio nazionale. Non é pertanto
casuale che la spesa in questione sia prevalentemente rigida e non si presti a venire manovrata, in qualche misura, se non dagli organi
centrali di governo. É appunto l'esigenza di pari trattamento, sottesa
all'intera riforma sanitaria, che spiega per quali motivi le singole Regioni
non possano - almeno di regola - incidere sulla spesa farmaceutica e sugli
altri oneri derivanti dalle prescrizioni mediche, sui ricoveri ospedalieri,
sullo stato giuridico ed economico del personale dipendente dalle U.S.L., sul regime del personale a
rapporto convenzionale, sugli stessi acquisti dei beni e dei servizi
indispensabili per il funzionamento delle unità sanitarie locali. E non si può far richiamo, per argomentare il contrario, al
secondo comma, numero 2, dell'art. 29 della legge finanziaria
In breve, gran parte della spesa sanitaria si forma indipendentemente
dalle scelte regionali (e dalle stesse deliberazioni degli organi di gestione delle unità sanitarie locali). Ma di questo dato l'art. 29
non tiene il minimo conto, imponendo comunque alla
Regione il ripiano del disavanzo, quali che siano i fattori che lo abbiano
prodotto: in antitesi a quanto previsto dal seguente art. 30, che pone a carico
degli enti locali e delle amministrazioni regionali il finanziamento delle
"attività di tipo socio-assistenziale" pertinenti alle rispettive
competenze e svolte per mezzo delle U.S.L., ma nelle
misure ed alle condizioni autonomamente stabilite dalle amministrazioni e dagli
enti medesimi.
Del resto, non hanno fondamento le sole giustificazioni della norma
impugnata che sono state addotte nel corso dei lavori preparatori, allorché si
affermava che la norma stessa avrebbe superato il metodo del cosiddetto pié di lista, senza però determinare rilevanti oneri per le
Regioni, data la prevedibile adeguatezza del fondo sanitario nazionale. In
realtà, il "pié di lista" permane, con la
sola novità rappresentata dal subentrare delle Regioni in luogo dello Stato;
mentre il fondo sanitario nazionale per il 1984, già contenuto nella misura di
34.000 miliardi per la parte corrente (in base al primo comma dell'art. 25
della legge n. 730), risulta sottostimato di oltre
4.000 miliardi, secondo la recente relazione ministeriale sull'andamento della
spesa sanitaria (elaborata ai sensi dell'art. 32, secondo comma, l. cit.). Ad
evitare, per ora, che un deficit di tali proporzioni ricada
senz'altro sulla finanza regionale, sta il terzo comma dell'art. 29, per cui le
Regioni (ovvero le Province autonome) devono provvedere al ripiano
limitatamente all'anno 1984, nella sola parte concernente il "disavanzo
della gestione di competenza". Ma il rimedio é piuttosto apparente che
reale, poiché gli espedienti contabili non bastano di certo a soddisfare le
necessità del servizio sanitario; e resta fermo,
comunque, che l'efficacia della disciplina impugnata non é temporanea bensì
permanente, sicché i suoi disposti sono destinati ad operare senza limiti di
sorta, quanto ai prossimi esercizi finanziari. Pertanto, sul medesimo piano
dell'art. 7, comma tredicesimo, anche l'art. 29, comma
secondo, n. 1, della legge n. 730 risulta viziato d'illegittimità
costituzionale.
Conclusivamente, tuttavia,
12. - Nell'ambito delle "disposizioni in materia sanitaria",
forma infine oggetto d'impugnazione l'art. 31 della legge n.
Mediante un congiunto riferimento ad entrambi i commi dell'art. 31, le
Regioni Sicilia, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna e
Lombardia deducono che tale disciplina violerebbe la competenza legislativa ed
amministrativa regionale, dato che gli artt. 117
Cost. e 50 della legge n. 833 del 1978 (nonché gli artt. 17 e 20 dello Statuto siciliano) riserverebbero alle
Regioni medesime i settori dell'"amministrazione del patrimonio" e
della "contabilità" delle U.S.L., ivi compresa la disciplina della loro attività
contrattuale. Per contro, l'aver conferito in materia poteri amministrativi e
normativi al Ministro per la sanità, senza nemmeno predeterminare limiti e
criteri, sarebbe non solo invasivo delle attribuzioni regionali ma anche lesivo
del "principio della riserva di legge", al quale andrebbe soggetta la
stessa funzione governativa di indirizzo e
coordinamento: anche se in questo specifico caso - aggiungono le difese regionali
- detta funzione non assumerebbe alcun rilievo, trattandosi di un completo
"esautoramento" delle Regioni, attuato nel
campo dell'"assistenza sanitaria ed ospedaliera", senza il sostegno
di alcuna effettiva esigenza di carattere unitario. Ed
analoghe motivazioni si rinvengono nel ricorso del Veneto, sebbene quest'ultima Regione impugni unicamente il capoverso
dell'articolo in esame.
a) Secondo
Effettivamente, che sul punto sussista una competenza propria dell'ente
Regione, non é stato negato dall'Avvocatura dello Stato; ed anzi rappresenta il
naturale presupposto della tesi per cui l'art. 31,
comma primo, conferirebbe al Ministro della sanità una pura funzione di
indirizzo e coordinamento. Ciò che più conta, la legge n. 833 del 1978 dispone
con chiarezza che, nell'ambito delle norme statali di principio e ferme
restando le competenze specificamente riservate allo Stato, spetta alla Regione
disciplinare "l'organizzazione, la gestione e il funzionamento delle unità
sanitarie locali e dei loro servizi", con particolare riguardo alla
contabilità (cfr. gli artt. 15, comma nono, e 50, comma
primo). E che i "contratti di fornitura" facciano
in tal senso parte della contabilità - poco importa se in base ad un concetto
più o meno preciso ed aggiornato di tale materia - risulta testualmente
dall'art. 50, comma primo, n.
S'intende che leggi statali successive possono bene dettare nuove norme
di principio e possono anche soddisfare ulteriori
esigenze di carattere unitario, emerse in un momento posteriore all'istituzione
del servizio sanitario nazionale. Ma tale non é il caso dei poteri ministeriali
previsti dalla norma in questione: sia perché la legge finanziaria 1984 si é limitata a conferirli, senza fissare in proposito
principi di sorta; sia perché
b) Al contrario, le impugnative delle Regioni ricorrenti vanno respinte,
per ciò che riguarda il capoverso del medesimo articolo. Diversamente dal primo
comma, quest'ultima disposizione introduce una nuova
disciplina di principio,, vincolante la legislazione
regionale, senza per altro esaurire la competenza già spettante alle Regioni.
Viene infatti prevista, sull'intero territorio
nazionale, l'istituzione di appositi albi regionali dei fornitori del servizio
sanitario nazionale; ma rimane implicitamente fermo che l'istituzione stessa,
come pure la tenuta degli albi in questione, compete alle Regioni e non al
Ministro della sanità. Quanto invece al Ministro, é vero che la norma impugnata
gli conferisce espressamente la potestà di stabilire, in via amministrativa, le
"tipologie" e le "classi di appartenenza",
nonché i "requisiti per l'iscrizione" dei fornitori del servizio; ma
tali previsioni devono venire interpretate e valutate, considerando che il
Ministro ha l'obbligo di assicurare il "rispetto della normativa vigente
nazionale e comunitaria", in vista dei soli requisiti minimi, atti a
garantire - ancora una volta - la fondamentale uniformità delle prestazioni
sanitarie. Così ricostruito, dunque, il secondo comma dell'art. 31 sfugge alle
censure proposte dai ricorsi in esame.
13. - Da ultimo,
Per effetto di tale disposto, nell'art. 21, comma
quarto, del d.l. n. 463 del 1983 (convertito nella legge n. 638 del
medesimo anno), le parole "per un importo superiore al 12 per cento
dell'ammontare" sono sostituite dalle altre "per un importo superiore
al 6 per cento..." e le parole "che
costituisce il limite del 12 per cento" sono del pari sostituite dalle
altre "che costituisce il limite del 6 per cento": con il che si
riducono ulteriormente le disponibilità che le Regioni possono depositare,
"a qualunque titolo", presso le aziende di credito di cui all'art. 5
del r.d.l. n. 375 del 1936 e successive modificazioni. E di qui discende -
secondo il ricorso - la violazione dell'autonomia finanziaria garantita
dall'art. 119 Cost.:
violazione che verrebbe perpetrata attraverso un "inaccettabile
aggravamento di un anomalo controllo della finanza regionale".
Ma la questione si dimostra non fondata, per le stesse ragioni già svolte
dalla Corte nella sentenza
n. 162 del 1982 e poi ribadite nella sentenza n. 307 del
1983. Mediante la prima di tali decisioni, é stata infatti affermata la
legittimità dell'esercizio di "questo potere di controllo e di regolamentazione"
da parte dello Stato, al fine di "limitare l'onere derivante dalla
provvista anticipata dei fondi rispetto all'effettiva capacità di spesa degli
enti"; ed é stato chiarito che una siffatta disciplina "non preclude
alle Regioni la facoltà di disporre delle proprie risorse..., ma si limita a
consentire il controllo del flusso delle disponibilità di cassa coordinandolo
alle esigenze generali dell'economia nazionale, nel quadro di quella
regolamentazione del credito che é dovere peculiare dello Stato" stesso.
Rispetto alla questione allora risolta dalla Corte, l'attuale impugnativa
differisce soltanto per ciò che riguarda la diminuita percentuale delle
disponibilità depositabili presso le tesorerie delle Regioni; ma, sotto questo
profilo, si tratta di un problema di politica economica, che non si presta ad
essere preso in esame nell'ambito di un giudizio di legittimità costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
riuniti i procedimenti iscritti ai nn. da
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 27 della legge 27 dicembre 1983, n. 730, intitolata
"Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato (legge finanziaria 1984)", promossa dalla Regione Sicilia, in riferimento agli artt. 17 e 20
dello Statuto della Regione medesima;
2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, comma
tredicesimo, della legge n. 730 del 1983, nella parte in cui prevede che, per
la copertura dei disavanzi delle aziende di trasporto pubblico locale, non
ripianabili con i contributi regionali di esercizio di
cui all'art. 5 della legge n. 151 del 1981, le Regioni sono tenute - anziché facoltizzate - a prelevare i fondi necessari dalla quota
del fondo comune di cui all'art. 8 della legge n. 281 del 1970, quanto alle
Regioni a statuto ordinario, e dalle corrispondenti entrate di parte corrente
previste dai rispettivi ordinamenti, quanto alle Regioni a statuto speciale ed
alle Province autonome;
3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, comma terzo,
della legge n. 730 del 1983, nella parte in cui non prevede che siano le
Regioni - anziché il Presidente del Consiglio dei ministri, previa
deliberazione del Consiglio stesso, sentito il Ministro del tesoro - a
determinare, valutate le eventuali necessità, i singoli casi in cui sia
indispensabile procedere ad assunzione di personale presso gli enti
amministrativi dipendenti dalle Regioni medesime, ferme restando le funzioni di indirizzo e coordinamento previste per le amministrazioni
regionali dall'art. 9, comma quinto, della legge n. 130 del 1983;
4) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 29, comma secondo,
n. 1, della legge n. 730 del 1983, nella parte in cui prevede che, per ripianare
il disavanzo delle unità sanitarie locali, le Regioni sono tenute - anziché facoltizzate - a prelevare i fondi necessari dalla quota
del fondo comune di cui all'art. 8 della legge n. 281
del 1970, quanto alle Regioni a statuto ordinario, e dalle corrispondenti
entrate di parte corrente previste dai rispettivi ordinamenti, quanto alle
Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome;
5) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma primo,
della legge n. 730 del 1983;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 7, comma undicesimo, della legge n. 730 del 1983, promossa dalle
Regioni Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, in riferimento agli artt. 5, 81, comma quarto, 117, 118 e 119 della Costituzione;
7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 7, comma dodicesimo, della legge n. 730 del 1983, promossa dalle
Regioni Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, in riferimento agli artt. 5, 81, comma quarto, 117, 118 e 119 della Costituzione;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 19, comma terzo, della legge n. 730 del 1983 (nella parte concernente
le amministrazioni regionali, di cui all'art. 9, comma quinto, della legge n.
130 del 1983), promossa dalla Regione Veneto, in
riferimento agli artt. 5, 115, 117 e 118 della
Costituzione;
9) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 19, comma quarto, della legge n. 730 del 1983, promossa dalla Regione
Veneto, in riferimento agli artt.
5, 115, 117 e 118 della Costituzione;
10) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 24, comma primo, lett. b), della legge n. 730 del 1983, promossa
dalla Regione Toscana, in riferimento all'art. 117
della Costituzione;
11) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 25, comma secondo, della legge n. 730 del 1983, promossa dalla
Regione Trentino-Alto Adige e dalle Province di Trento e di Bolzano, in riferimento agli artt. 4, n. 7, 9 n. 10, 16 e 54 n. 5, del d.P.R.
n. 670 del 1972 (Statuto speciale per il Trentino- Alto Adige);
12) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 25, comma terzo, della legge n. 730 del 1983, promossa dalla Regione
Sicilia, in riferimento agli artt.
32, comma primo, e 119 della Costituzione ed all'art.
19 dello Statuto della Regione siciliana;
13) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma terzo, ultimo periodo, della
legge n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle
Province di Trento e di Bolzano, in riferimento agli artt. 4 n. 7, 8 n. 1, 9 n. 10 e 16 del d.P.R. n. 670 del 1972 (Statuto speciale per il
Trentino-Alto Adige);
14) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 27, primo ed ultimo comma, della legge n. 730 del 1983, promossa
dalle Province di Trento e di Bolzano, in riferimento
agli artt. 9 n. 10, 16 e 78 del d.P.R.
n. 670 del 1972 (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige);
15) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 28 della legge n. 730 del 1983, promossa dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 5, 115,
117, 118, 123 e 130 della Costituzione;
16) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 31, comma secondo, della legge n. 730 del 1983, promossa dalle
Regioni Veneto, Sicilia, Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna,
Lombardia, in riferimento agli artt.
5, 115, 117 e 118 della Costituzione ed agli artt. 17
e 20 dello Statuto della Regione siciliana;
17) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 32, comma quinto, della legge n. 730 del 1983, promossa dalla Regione
Toscana, in riferimento agli artt.
117 e 130 della Costituzione;
18) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 35, comma quattordicesimo, della legge n. 730 del 1983, promossa
dalla Regione Veneto, in riferimento all'art. 119
della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 ottobre 1984.
Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Antonio LAPERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI
Depositata in cancelleria il 5 novembre 1984.