SENTENZA N. 219
ANNO 1984
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
composta dai signori:
Prof. Leopoldo ELIA, Presidente
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv Albero MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale della
legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego) promossi con
ricorsi dei Presidenti delle regioni Trentino-Alto Adige, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Valle d'Aosta, dei
Presidenti delle provincie autonome di Bolzano e di
Trento e del Presidente della Regione Liguria, notificati il 5 e 6 maggio 1983,
depositati in cancelleria rispettivamente nei giorni 11, 12, 13 e 16 maggio
1983, ed iscritti ai nn. 12, 13, 15, 16, 17, 18, 19 e
20 del registro ricorsi 1983.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 22 novembre 1983
il Giudice relatore Oronzo Reale;
uditi gli avv.ti Umberto Pototsching e
Valerio Onida per le Regioni Trentino-Alto Adige e
Lombardia, l'avv. Gaspare Pacia per
Ritenuto in fatto
1. - Con distinti ricorsi, le regioni a statuto speciale Trentino-Alto
Adige, Valle d'Aosta e Friuli-Venezia Giulia, le
province autonome di Trento e Bolzano e le regioni a statuto ordinario
Lombardia, Veneto e Liguria sollevano varie questioni di legittimità
costituzionale in via principale concernenti la legge 29 marzo 1983, n. 93,
Legge quadro sul pubblico impiego, sia nel suo complesso, sia
riferite a singole disposizioni contenute nella legge suddetta.
2. - In particolare,
Tanto premesso, sempre con riferimento al dettato del secondo comma
dell'art. 1 della legge, si assume che sarebbe contrastante con i principi
desumibili dalle stesse norme statutarie surrichiamate
che vengano considerate norme di riforma
economico-sociale parametri non identificati puntualmente ed esattamente ma
solo "desumibili" dalle disposizioni della legge e ciò in quanto
l'individuazione di tali norme verrebbe, di fatto, demandata o alle scaturenti
successive leggi regionali o alle decisioni del governo in sede di controllo su
tali leggi regionali.
Ma, si osserva ancora, non sarebbe legittimo che venga
riconosciuta tra le norme fondamentali della Repubblica una legge che,
riferendosi ad aspetti salienti e numerosi di una normativa di siffatta
portata, rimette ogni disciplina al riguardo ad una fonte di natura non
legislativa, quali gli accordi di lavoro, rendendo la stessa vincolante anche
nei confronti del legislatore regionale. Si tratterebbe pertanto di vere e
proprie norme in bianco, destinate ad essere riempite
con i futuri accordi; questi sarebbero dunque vincolanti per le regioni, mentre
sarebbe innegabile che le norme di riforma economico-sociale debbano
necessariamente riguardare materia riservata alla legge.
Si osserva poi che una lettura sistematica dell'intero art. 1 porterebbe
a concludere che tutte le disposizioni della legge in
questione siano da considerare principi fondamentali, sicché tautologica
sarebbe la portata del primo e del secondo comma; la diversa formulazione non
comporterebbe perciò diversità sostanziali, ma sarebbe stata originata dalla
consapevolezza del legislatore statale che i limiti alla potestà legislativa
delle regioni a statuto speciale e quelli relativi alle regioni a statuto
ordinario sono diversi e necessitano perciò di definizione differenziata. Che
questo sia il senso da attribuire all'art. 1
discenderebbe dagli artt. 5,
secondo comma, 14, terzo comma, 15, ultimo comma, e 27, quarto comma,
ove non v'é alcuna differenziazione tra le regioni a statuto speciale e quelle
a statuto ordinario; lo stesso criterio parrebbe seguito anche negli artt. 2, che menziona le province
autonome di Trento e Bolzano, e 3, che é in rapporto complementare con il
citato art. 2. Non sarebbe decisiva in senso contrario la constatazione
che l'art. 10 parli espressamente delle sole regioni a statuto ordinario per
quanto attiene agli accordi sindacali per i dipendenti regionali.
Una lettura interpretativa da parte della Corte che escludesse tale
argomentazione sarebbe comunque appagante per la
regione, che, anche in siffatta ipotesi, lamenta che gli artt.
3 (riserva agli accordi delle materie ivi elencate), 5 (determinazione dei
comparti), 11 (divieto di concedere trattamenti integrativi non previsti dagli
accordi intercompartimentali), 12 (definizione degli accordi
intercompartimentali) nonché 6 (competenza del
Consiglio dei ministri a verificare la compatibilità finanziaria di qualunque
accordo), 8, 9, 10, 12 e 14 (in quanto stabiliscono un vincolo che a seguito
dell'accordo colpisce le regioni chiamate ad approvare passivamente una disciplina
stabilita da altri) sarebbero comunque lesivi della competenza legislativa
primaria della regione stessa in tema di ordinamenti degli uffici regionali.
Siffatta lesione si risolverebbe in una sostanziale espropriazione di
tale potestà legislativa, atteso che le norme suindicate
devolverebbero "stabilmente e per intero" ai futuri accordi sindacali
la disciplina di aspetti rilevanti non solo del
trattamento giuridico ed economico del personale, ma anche di profili
direttamente concernenti l'organizzazione amministrativa.
La lamentata incostituzionalità permarrebbe anche ove si
interpretasse la normativa de qua nel senso che le regioni debbano
procedere alla definizione di accordi su scala regionale nel rispetto delle
norme e delle procedure previste dalla legge stessa; si avrebbe in fatto un pressocché "totale svuotamento dell'autonomia
regionale" nelle materie ivi disciplinate, con particolare riguardo alle
procedure previste per la stipulazione degli accordi.
Infatti, laddove viene dettata la disciplina
prevista per gli accordi concernenti il personale delle Camere di commercio,
delle USL e dei Comuni, senza far contestualmente salva la speciale competenza
della Regione Trentino-Alto Adige, ne risulterebbe che aspetti rilevanti del
pubblico impiego presso amministrazioni pubbliche soggette al potere ordinamentale della regione stessa verrebbero ad essere
disciplinati con atto e procedura di esclusiva competenza statale. Tale rilievo
si evidenzierebbe in maggior misura in riferimento
all'art. 12 della legge, che prevede un modo centralistico
di disciplinare aspetti rilevanti per il pubblico impiego.
L'art. 10 della legge sarebbe poi in contrasto con lo statuto speciale di autonomia, in quanto, ad avviso della regione, si
sostanzierebbe in un esproprio, con contestuale trasferimento dell'esercizio
della potestà legislativa regionale ad una sede negoziale, condizionata per un
verso alla volontà di soggetti estranei all'organizzazione costituzionale dello
Stato e delle regioni, e dall'altro, ad +una volontà del negoziatore di parte
pubblica alla cui formazione ciascuna regione può rimanere del tutto estranea
od avere una parte comunque non decisiva.
La regione ricorrente lamenta altresì la violazione:
- dell'art. 4, n. 7, dello statuto speciale, che attribuisce alla regione
stessa potestà legislativa primaria in materia di ordinamento
degli enti sanitari ed ospedalieri, in quanto l'art. 9 della legge dispone che,
per gli accordi sindacali dei dipendenti delle USL si applichino i procedimenti
previsti dall'art. 8, accordi considerati fonte normativa anomala, cui la
regione é estranea;
- degli artt. 5, n. 1, e 65 dello statuto, in
quanto l'art. 8 della legge n. 93 del 1983 lederebbe la competenza legislativa
concorrente in materia di ordinamento del personale
dei comuni, in quanto vincolerebbe i comuni del Trentino-Alto Adige a recepire
un accordo stipulato in sede nazionale, estromettendo la legge regionale dalla
disciplina della materia in modo totale; ad analoghe conclusioni si perverrebbe
qualora la detta norma fosse interpretata nel senso che l'accordo debba essere
stipulato in sede regionale per essere poi approvato o recepito dalla regione
senza possibilità di modifiche;
- dell'art. 4, n. 8, dello statuto, in quanto l'art. 26 detta norme per
il personale delle Camere di Commercio, per la cui disciplina impone i
procedimenti previsti dalla legge n. 93 del 1983. La citata norma statutaria
attribuisce invece alla regione competenza legislativa primaria al riguardo.
Si lamenta infine che il quarto comma dell'art. 27 della legge n. 93 del
1983, laddove prevede una sorta di controllo sull'attività della regione da
parte di cinque ispettori e cinque funzionari alle dipendenze della Presidenza
del Consiglio, onde verificare la corretta applicazione degli accordi
collettivi, introdurrebbe una forma di controllo non
prevista dallo statuto speciale e pertanto illegittima costituzionalmente.
3. - Nel suo ricorso,
Nella sostanza, si assume che la legge de qua non avrebbe le
caratteristiche di una riforma economico-sociale, in quanto le disposizioni ivi
contenute, e per la materia cui attengono e per il
loro contenuto concernente previsioni normative già operanti nel settore del
pubblico impiego, avrebbero le caratteristiche del coordinamento, non quelle di
una normativa innovatrice, tale da rivestire i caratteri di una riforma.
Si rileva altresì che la legge nel suo complesso sarebbe volta a limitare
la competenza normativa delle regioni a statuto speciale, che si ridurrebbe ad
una legiferazione di carattere attuativo
ed integrativo, se non addirittura di natura pressoché regolamentare, cosa
questa in contrasto con l'art. 2 dello statuto, relativamente
alle materie per cui é prevista competenza legislativa primaria.
La legge in questione, d'altronde, parrebbe imporre alla regione come
principi dell'ordinamento dello Stato principi desumibili non dall'intero
ordinamento, ma da una singola e particolare legge; l'impugnato art. 1 ed il
complesso della legge sono di portata tale da lasciare
margini ben ridotti al legislatore regionale, sicché ne risulterebbe svuotata
di reale e sostanziale contenuto la competenza legislativa primaria spettante
alla regione, con violazione, oltreché del ricordato
art. 2 dello statuto, dell'art. 117 della Costituzione.
4. - Analoghe ragioni adduce
Giulia (n. 15 del reg. ric. 1983) a proposito della autoqualificazione, contenuta nella legge n. 93 del 1983,
al secondo comma dell'art. 1, di norme fondamentali di riforma
economico-sociale ai principi in essa legge contenuti.
Si rileva altresì al riguardo che tali non potrebbero comunque
essere disposizioni estranee alla disciplina sostanziale della materia, rivolte
soltanto a trasferire competenze regionali ad altri soggetti dell'ordinamento
statale; altro senso non avrebbe il n. 1 dell'art. 3 della legge de qua che
tenderebbe a sottrarre "il regime retributivo di attività" alla
competenza della regione per attribuirlo ai soggetti della contrattazione
collettiva.
Si conclude perché venga dichiarata
l'illegittimità costituzionale della legge n. 93 del 1983 nella parte in cui
attraverso le statuizioni dell'art. 1 e dell'art. 3 ed "ogni altra
statuizione che ad essa si ricolleghi", lede le competenze della regione
ricorrente in materia di stato giuridico ed economico del personale.
5. -
Si lamenta, in primo luogo, come il legislatore statale tenda ad operare
una sorta di parificazione che, si sostanzia principalmente nella normativa
impugnata, tra la competenza legislativa primaria in materia di
ordinamento degli uffici del personale che spetta alla Provincia di
Bolzano e la competenza legislativa, concorrente, che, al riguardo, spetta alle
regioni a statuto ordinario ex art. 117 della Costituzione.
Premesso ancora che, come é del resto esplicitato nel primo comma
dell'art. 1 della legge n. 93 del 1983, la stessa é una legge quadro, si nega
che ad essa possano altresì essere riconosciute le
caratteristiche di legge di riforma economico-sociale
La legge in argomento infatti sarebbe
prevalentemente diretta non tanto ad innovare, quanto ad uniformare la
disciplina del pubblico impiego, generalizzando regole e procedure già previste
per singoli settori.
Mancherebbero, nella legge di cui si parla, quei caratteri di generalità
e di effettiva ed incisiva innovatività
nell'ordine dei rapporti economico - sociali, che sarebbero necessari per
qualificare una legge come "di riforma economico-sociale". A nulla
serve opporre a tali rilievi la dizione del secondo comma dell'art. 1, che
qualifica come tali i principi desumibili dalle disposizioni della legge de
qua, in considerazione anche del fatto che le caratteristiche sopraelencate non
possono essere surrogate da una qualificazione meramente esteriore del
legislatore.
In considerazione di quanto sin qui esposto, risulterebbe
evidente che la disciplina scaturente dalla legge impugnata non sarebbe idonea
a limitare la competenza legislativa primaria della Provincia di Bolzano; la
norma (art. 1, comma secondo) che parrebbe imporre tale vincolo sarebbe viziata
di incostituzionalità per violazione delle norme statutarie.
Si osserva ancora che il limite dei principi fondamentali stabiliti dalla
legge dello Stato é un limite ulteriore rispetto a
quello delle norme di riforma economico-sociale, in quanto la disciplina
costituzionale presuppone una differenziazione tra i due limiti (in caso
contrario non avrebbe senso la separata disciplina degli artt.
4 e 5 dello statuto del Trentino-Alto Adige) e non consente tra essi alcuna assimilazione.
Neppure potrebbe sostenersi che le norme fondamentali richiamate
dal secondo comma dell'art. 1 della legge n. 93 del 1983 siano cosa diversa dai
principi fondamentali di cui al primo comma, siccome non identiche a questi, ma
da esse desumibili solo in via interpretativa. La lettura di tutto l'art. 1 porterebbe, secondo la difesa della regione ricorrente, ad una
chiara tautologia tra il primo ed il secondo comma, di talché nessuna
distinzione potrebbe operarsi tra i "principi fondamentali"
del primo e le "norme fondamentali" del secondo donde
l'incostituzionalità della disciplina stessa.
Tale rilievo, quale da ultimo estrinsecato, porta
altresì la difesa della provincia ricorrente a formulare un ulteriore dubbio di
incostituzionalità, ex art. 3 della Costituzione, nella disposizione di cui
all'art. 1 della legge n. 93 del 1983, che peccherebbe di intrinseca
contraddittorietà e di irragionevolezza conseguente, laddove pretenderebbe di
"attribuire contemporaneamente ad una stessa realtà normativa due distinte
qualificazioni giuridiche tra loro non assimilabili". Tale violazione
dell'art. 3 della Costituzione viene ritenuta
"intrinsecamente connessa e strumentale rispetto alla violazione delle
succitate disposizioni statutarie" relative alle attribuzioni della
provincia ricorrente, e può pertanto essere fatta valere in questa sede.
Anche gli artt. 2 e 3
della legge in questione si porrebbero in contrasto con gli artt.
8, n. 1, n. 19 e n. 29 che prevedono competenza legislativa primaria della
Provincia di Bolzano in materia di rapporto di impiego,
e 16, primo comma, dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, che prevede
la "corrispondente pienezza di potestà amministrativa"; tali articoli
infatti contengono una disciplina dettagliata della materia cui non può
riconoscersi il carattere di norme o principi fondamentali (ex artt. 4 e 8 dello statuto), ma gli stessi, in base alla
legge che li contiene, sarebbero vincolanti nei confronti delle
potestà legislativa e amministrativa della Provincia di Bolzano.
La "pretesa" del legislatore statale ordinario di limitare la
competenza normativa e regolamentare della provincia al riguardo sarebbe
manifestamente lesiva dell'autonomia provinciale, siccome in contrasto con gli artt. 3, terzo comma, 8, n. 1, n. 19, n. 29, e 16, primo
comma, dello statuto speciale di autonomia.
Si evidenzia inoltre una presunta incostituzionalità della disciplina
introdotta in forza dell'art. 27, comma quarto, della legge in questione,
laddove tale norma prevede l'esercizio da parte di funzionari dello Stato di
funzioni ispettive in relazione alla corretta
applicazione degli accordi collettivi stipulati. Infatti, ogni forma di controllo
relativa all'attuazione della disciplina concernente
l'attuazione degli accordi sindacali riguardanti i propri dipendenti, sia
l'esercizio del controllo stesso, devono ritenersi attribuiti all'esclusiva
competenza della provincia stessa.
Si denunziano ancora di incostituzionalità
l'art. 9 della legge n. 93 del 1983, per violazione dell'art. 9, n. 10, dello
statuto della Regione Trentino-Alto Adige, in quanto in forza della norma
citata per ultima,
L'art. 9, della cui costituzionalità si dubita, stabilisce che anche per
quanto concerne gli accordi sindacali dei dipendenti delle USL si applicano le
norme e i procedimenti di cui alla stessa legge; orbene, tale disposizione
sarebbe incostituzionale laddove e nella misura in cui intenderebbe regolare
con una analitica disciplina di carattere sostanziale
e procedurale la competenza legislativa concorrente della provincia autonoma
nonché la correlativa sua potestà amministrativa. Si tratterebbe di norme che
nel delineare dettagliatamente ed analiticamente la
materia, non avrebbero affatto quel carattere di principi fondamentali
richiesti dalla disciplina costituzionale, ma piuttosto quello di norme di
dettaglio, assolutamente inidonee a condizionare l'autonomia della provincia
ricorrente.
Anche gli artt. 5,
secondo comma, 6, quarto comma, 8, 9, 12, terzo comma, 14, 25 e 30, terzo
comma, della legge in questione sarebbero viziati di incostituzionalità
perché contravverrebbero al dettato dell'art. 89 dello statuto speciale e delle
relative norme di attuazione; tutte queste disposizioni, infatti, nel
disciplinare la composizione delle delegazioni sindacali che debbono
partecipare alla stipulazione degli accordi previsti nella legge, attribuiscono
il potere di far parte delle delegazioni ed organismi sindacali in questione ai
soli rappresentanti delle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente
rappresentative ovvero alle confederazioni maggiormente rappresentative su base
nazionale.
Ad avviso della difesa della provincia ricorrente, tali norme sarebbero
incostituzionali laddove siano ritenute vincolanti nei suoi confronti; infatti,
il citato art. 89 stabilisce principi peculiari ed inderogabili in ordine all'organizzazione dei pubblici Uffici nella Provincia
di Bolzano, rivolti, tra l'altro, alla tutela delle minoranze linguistiche
tedesche e ladine.
Infine, incostituzionale sarebbe anche la disciplina contenuta nell'art.
14 della legge n. 93 del 1983, concernente gli accordi decentrati riguardanti tra
l'altro la formulazione di proposte per l'attuazione degli istituti concernenti la formazione professionale e l'addestramento
nonché tutte le altre misure volte ad assicurare l'efficienza degli uffici, per
preteso contrasto con l'art. 89 dello statuto speciale di autonomia e delle
relative norme di attuazione; infatti, in forza dei peculiari principi, in
precedenza ricordati, che regolano l'organizzazione dei pubblici uffici, anche
statali, della Provincia di Bolzano, le norme di attuazione del citato art. 89
dello statuto speciale statuiscono la necessità di una intesa tra il
commissario del Governo e
6. -
In particolare con riferimento all'art. 2 della legge in questione, si fa
notare che la norma de qua ha, se posta in relazione con il successivo art. 3,
anche una funzione di limite, individuando l'area al di là
della quale la legge non dovrebbe intervenire a dettare direttamente la
disciplina del rapporto.
Considerato che la legge contiene una disciplina
dettagliata della materia cui non può certo riconoscersi il carattere di norme
(o principi) fondamentali ex artt. 4 e 8 dello
statuto speciale del Trentino-Alto Adige, deve osservarsi come la competenza
legislativa spettante alla provincia comporta che questa possa disciplinare per
legge (o in base alla legge) qualsiasi aspetto dell'ordinamento del proprio
personale come pure individuarne gli aspetti da disciplinare eventualmente sulla base di previ accordi con le
organizzazioni sindacali (vedi la legge 29 aprile 1983, n. 12). Sarebbe
pertanto incostituzionale la pretesa della legge statale di limitare questo
fondamentale aspetto dell'esercizio dell'autonomia provinciale, stabilendo cosa
debba o non essere disciplinato dalla legge e cosa
invece debba o non debba essere disciplinato con accordo sindacale da recepire
poi in un atto provinciale (amministrativo o legislativo), siccome lesiva
dell'autonomia provinciale sancita al riguardo dai ricordati artt. 3, terzo comma, 8, n. 1, e 16,
primo comma, dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige.
7. -
Deve ritenersi, secondo l'avviso della regione ricorrente, che
l'intervento legislativo statale in materia non potrebbe essere giustificato
che dalla necessità di disciplinarne aspetti per i quali sussista una esigenza di uniformità di trattamento su base nazionale.
Se tale esigenza é stata attuata mediante le norme
contenute nel titolo II della legge, la disciplina contenuta nel titolo I non
sarebbe né omogenea né di competenza statale. Infatti, la
disciplina demandata agli accordi sindacali é tutta di competenza
esclusivamente regionale.
Mentre la regione, pur con le riserve insite nelle caratteristiche
pubblicistiche proprie dell'impiego presso enti pubblici, riconosce la validità
del metodo della contrattazione collettiva anche in campo regionale, nello
scendere all'esame delle singole norme lamenta che la legge impugnata avrebbe dettagliatamente regolato aspetti procedurali,
ambiti, contenuti ed effetti di tale contrattazione, sì da pervenire ad un
totale svuotamento dell'autonomia regionale in materia.
Si rileva ancora che dallo spirito della legge parrebbe potersi evincere
che l'eventuale volontà contraria all'accordo di una o più regioni, almeno sino
a che non assurga alla maggioranza delle regioni stesse, non potrebbe impedire
la conclusione dell'accordo; inoltre, non sarebbe previsto alcun sistema di
designazione delle delegazioni regionali, sicché parrebbe dubbio che la volontà
manifestata in sede di accordo possa essere
considerata il frutto della volontà "formatasi in modo
costituzionale" delle regioni stesse.
Si osserva ancora che il confronto tra l'ultimo comma dell'art. 10 e
l'ultimo comma dell'art. 6 dimostrerebbe che la introduzione
della disciplina contenuta nell'accordo nella legislazione regionale altro non
sarebbe che un recepimento puro e semplice
dell'accordo stesso, in quanto la regione dovrebbe limitarsi ad approvare
quanto statuito in sede negoziale senza poter regolare la materia in modo
difforme.
Una riprova del completo esautoramento della
potestà legislativa regionale verrebbe dal primo comma dell'art. 3, secondo il
quale "in ogni caso" la disciplina degli oggetti ivi indicati deve
essere quella prevista dalle procedure e dagli accordi previsti
nella legge stessa; ciò dimostrebbe che l'accordo si
sostituisce alla legge regionale nel ruolo di fonte normativa, relegandola ad
un compito di formale recezione del contenuto
dell'accordo stesso.
Si osserva ancora che i poteri riconosciuti alle regioni quanto alla
contrattazione e alla recezione degli accordi per il
personale non sono assimilabili a quelli che la legge n. 93 del 1983 riconosce
agli organi statali. Il Governo conserva infatti una
serie di poteri circa la formulazione dell'accordo, la verifica delle
compatibilità finanziarie e l'autorizzazione alla sottoscrizione dell'accordo
medesimo che non trova riscontro in analoghe facoltà delle regioni; l'accordo
inoltre non vincola affatto il legislatore nazionale, che rimane libero di
disciplinare la materia come crede, anche in difformità da esso. L'accordo,
recepito nel d.P.R., vincola
solo la potestà amministrativa e regolamentare del Governo, non la potestà legislativa
del Parlamento.
Per ciò che attiene agli enti locali o strumentali, si deve rimarcare che
questi non hanno potestà legislativa né autonomia costituzionalmente garantita in ordine al rapporto di lavoro dei propri dipendenti. Per
contro, nel caso del personale regionale, l'accordo ha efficacia vincolante per
lo stesso legislatore regionale, efficacia che viene
definita "superlegislativa" e quale non si dà in alcuna delle altre
ipotesi nelle quali tali accordi sono contemplati dalla legge, con conseguente
violazione degli artt. 117-121 della Costituzione.
Se l'autonomia incontra il limite dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato, dall'esame delle disposizioni della legge n. 93 del
1983 discenderebbe che da essa non possono trarsi
questi limiti, quanto meno da gran parte delle sue norme.
Secondo la difesa della Regione Lombardia l'art.
117 della Costituzione conterrebbe una riserva di legge statale in ordine ai
principi; né la legge dello Stato potrebbe legittimamente rinviare, ai fini
della statuizione dei principi (con rinvio che viene definito formale e non ricettizio siccome formulato nei riguardi di tutti i futuri
accordi) ad altre fonti diverse e subordinate alla legge, quali gli accordi in
questione, che risalgono per un verso alla volontà di organi estranei allo
Stato e per la parte residua a decisione non del Parlamento ma dell'esecutivo
statale.
Ancora, si evidenzia che, nel prevedere gli accordi sindacali, la legge
demanda ad essi la disciplina di interi settori della
materia del pubblico impiego, anche regionale; ciò non sarebbe conforme ai
principi costituzionali di riserva di legge nell'organizzazione degli uffici,
di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui
all'art. 97 della Costituzione.
Secondo
Ma il sistema della legge n. 93 del 1983 violerebbe altresì l'autonomia
finanziaria regionale laddove prevede che la valutazione complessiva e
preventiva delle risorse da destinare al pubblico impiego anche regionale e
degli oneri finanziari discendenti dalla disciplina contrattuale dello stato
giuridico ed economico del personale regionale sia
"sostanzialmente riservata al Governo e al Parlamento". Le regioni,
considerata la disciplina di cui agli artt. 15,
primo, secondo, terzo e quarto comma, cui fa rinvio l'art. 10, secondo comma,
6, ottavo comma, cui si richiamano gli artt. 10, secondo comma, 11, secondo e terzo comma, e 15,
sesto comma, dovrebbero solo provvedere a stanziare in
bilancio le somme necessarie per l'esecuzione dell'accordo, senza poter
incidere preventivamente ed in modo autonomo sulle scelte di ordine
finanziario, che conseguono all'accordo stesso.
Del resto, ciò comporta che le regioni non hanno alcuna garanzia di poter
disporre delle risorse finanziarie aggiuntive necessarie
per far fronte all'accordo; cosa questa resa ancora più onerosa e preoccupante
dal fatto che gli accordi non sono recepiti con leggi o atti dello Stato sicché
non potrebbe neppure trovare applicazione l'art. 27 della legge n. 468 del
1978, che impone, a norma dell'art. 81 della Costituzione, come le leggi che
comportano oneri a carico degli enti del settore pubblico allargato debbono
indicare la copertura finanziaria. Una tale situazione comporterebbe una evidente violazione dell'autonomia finanziaria e di
spesa delle regioni, nonché del principio costituzionale della copertura.
Viene inoltre sottolineata la differente realtà,
sociale e locale, delle diverse regioni, in cui l'impiego pubblico ha finalità
ed esigenze diverse a seconda dei singoli casi; un vincolo assoluto, scaturente
dall'accordo sindacale stipulato a livello nazionale e imposto al recepimento delle singole regioni finirebbe per travalicare
lo status dei dipendenti per attingere a importanti aspetti dell'organizzazione
amministrativa.
Le stesse considerazioni svolte nei confronti dell'art. 10 della legge
valgono anche in ordine alla disciplina degli accordi
sindacali intercompartimentali, nella cui negoziazione le regioni hanno, a
norma dell'art. 12, lo stesso ruolo minoritario e marginale già evidenziato:
pertanto anche il citato art. 12 viola gli stessi principi costituzionali già
ricordati.
Per ciò che attiene ancora agli accordi sindacali per i dipendenti del
servizio sanitario nazionale si osserva che nel previgente sistema le regioni partecipavano alla formazione
dell'accordo, cosa questa che ben lasciava intendere che il rapporto di impiego
del personale sanitario era considerato dallo stesso legislatore statale
materia in cui le regioni esplicano ampie e rilevanti competenze. La legge
attuale sembra comportare l'applicazione, in ordine alla
stipulazione degli accordi, delle norme generali di cui all'art. 6 e di quelle
specifiche di cui all'art. 8; con la conseguenza che le regioni sarebbero
escluse dalla delegazione delle pubbliche amministrazioni, con violazione della
competenza regionale in tema di assistenza sanitaria, quale definita dall'art.
117 della Costituzione, e poi determinata dall'art. 27 del d.P.R.
n. 616 del 1978 e dalla legge n. 833 del 1978; il tutto in
violazione degli artt. 117, 118, 119 e 97
della Costituzione.
Infine l'art. 27 della legge n. 93 del 1983, prevede che cinque ispettori
di finanza e cinque funzionari dell'amministrazione dell'interno,
particolarmente esperti in materia, svolgano un ruolo di controllo sulla
corretta applicazione degli accordi anche presso le regioni.
Poiché l'attività di tali ispettori non si raccorda in nessun modo con
quella degli organi cui é demandato il controllo sugli atti amministrativi
delle regioni né si pone come strumento ad essa, né si
raccorda con l'attività degli organi (i Commissari del Governo) cui
8. -
Si assume che, secondo le norme di cui agli impugnati artt.
10 e l2 della legge 29 marzo 1983, n. 93, i fondamentali aspetti
dell'organizzazione del lavoro e del rapporto di impiego
regionale (nelle incisive parti di cui all'art. 3 e negli specifici istituti
contemplati nell'art. 12) devono essere disciplinati da accordi collettivi
compartimentali e intercompartimentali, che, salva l'autorizzazione (esclusiva)
del consiglio dei ministri, devono essere senz'altro recepiti in provvedimenti
regionali, con un "puro atto formale di integrale recezione"
senza possibilità di varianti e adeguamenti e neppure con riserva di accordi
articolati, negoziati con rappresentanze sindacali a livello regionale. Una
tale situazione normativa sarebbe in palese contrasto con l'art. 117 della
Costituzione, in quanto escluderebbe sostanzialmente qualsiasi competenza della
regione in materia attinente all'ordinamento dei propri uffici.
Ad avviso della regione ricorrente, non può pertanto assolutamente
parlarsi di enunciazione di principi generali entro i
quali dovrebbe pur sussistere una potestà decisionale puranco
con metodo negoziale, in quanto non verrebbe lasciato nessuno spazio alle
autonomie regionali, neppure di integrazione, in ipotesi, con una
contrattazione articolata della materia.
Pur accettando il principio della contrattazione collettiva, si rileva
che la disciplina contenuta nella legge n. 93 annulla ogni autonomia; il
ricorso a tale metodologia dovrebbe quanto meno essere
armonizzato col rispetto della norma costituzionale che impone autonomia
normativa della regione in materia, in ragione di specifici interessi e di
situazioni particolari, presenti all'attenzione del Costituente nel momento in
cui ritenne a questi prestare tutela, sancendo l'autonomia regionale al
riguardo.
Assolutamente inidonea a giustificare tale trattamento normativo sarebbe
l'esigenza di garantire una uniformità di trattamento,
in quanto proprio gli istituti regoIati dalla legge
attengono direttamente all'organizzazione del lavoro, la quale ben può
atteggiarsi diversamente a seconda delle esigenze presenti nelle singole
regioni, cosa questa che renderebbe evidente l'esigenza di specifiche
discipline.
Con riferimento all'art. 27, quarto comma, della
legge in questione, si rileva che in forza di tale disposizione si vorrebbe
realizzare un sistema di controllo (e di controllori) che andrebbero ad
"incidere" sull'attività della regione senza "alcun precisato
carattere definitorio" e con una discrezionalità
ancor meno precisata, alla dipendenza della Presidenza del Consiglio dei
ministri. Ciò contrasterebbe, oltreché con l'art.
117, anche con gli artt. 124 e 125 della Costituzione
che statuiscono un ben definito sistema di controllo
nelle regioni.
9. -
Le norme contenute nella legge 29 marzo 1983, n. 93, sono qualificate in
forza dell'art. 1 come principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione; si osserva che le norme stesse non contengono enunciazioni di
principio ma vere e proprie prescrizioni di dettaglio, univocamente e
rigidamente vincolanti per la regione che non potrebbe se non applicarle in via
immediata ovvero farne oggetto di legiferazione
veramente attuativa e integrativa. Da ciò discenderebbe la violazione dell'art. 117 della Costituzione, in
quanto, per le materie ivi elencate, l'autonomia regionale ha come solo
limite i principi fondamentali e non le norme di dettaglio stabiliti nelle
leggi dello Stato.
Si rileva inoltre che l'art. 3 della legge n. 93 del 1983 demanda ad
accordi nazionali vincolanti per le regioni non solo la determinazione del
trattamento economico ma anche l'attuazione della previsione delle leggi
regionali di cui all'art. 2 della stessa legge, le quali "ovviamente"
possono contenere soluzioni normative assolutamente diverse tra
di loro.
Al riguardo si prospetta una lesione del "costituzionale principio
di ragionevolezza"; non avrebbe infatti senso
disciplinare nel dettaglio, con unico accordo nazionale, oggetti che
diversamente si atteggiano nei singoli ordinamenti regionali e quindi non
possono essere suscettibili di identica normazione attuativa,
contrattata da tutti i rappresentanti delle regioni.
Si evidenzia altresì che gli accordi nazionali previsti dal combinato
disposto degli artt. 3, 6 e 10 della legge sono
vincolanti nei confronti della potestà legislativa regionale, prevista
dall'art. 58 dello statuto. La legge in questione si proporrebbe di limitare
l'autonomia regionale in forza di una fonte giuridica estranea all'ordinamento
regionale che non ha né la sostanza né la forma della legge ordinaria di enunciazione dei principi.
Non v'ha dubbi, ad avviso della difesa della
Regione Liguria, che l'accordo e il conseguente d.P.R.
costituirebbero un atto di natura sicuramente non legislativa. il cui contenuto non può essere certamente considerato
principio fondamentale ex art. 117 della Costituzione.
Le norme stesse contrasterebbero inoltre con l'art. 97 della
Costituzione, in quanto gli oggetti indicati nell'art. 3 devono essere
disciplinati direttamente con legge e non con accordo sindacale o atto
amministrativo ricettivo dell'accordo stesso, per di più vincolante per il
legislatore.
Si evidenzia ancora come le norme suindicate
della legge n. 93 del 1983 conferirebbero all'accordo di lavoro un'efficacia
obbligatoria generale senza che sia garantito il
rispetto della condizione di contrattazione prevista dal quarto comma dell'art.
39 della Costituzione, con cui le norme stesse sarebbero in contrasto.
Anche l'art. 5, che prevede il frazionamento in
comparti, determinati con decreto del Presidente della Repubblica, della
disciplina del pubblico impiego, comprimerebbe l'autonomia regionale in materia
ed é contrastante con gli artt. 97, 118 e 119 della
Costituzione per le stesse ragioni già espresse.
L'art. 11, secondo comma, fa divieto alle pubbliche amministrazioni ed
agli enti pubblici cui l'accordo si riferisce di concedere trattamenti
integrativi non previsti dall'accordo stesso e comunque
comportanti oneri aggiuntivi. Tale prescrizione limiterebbe l'autonomia
regionale sancita dalle stesse norme costituzionali (artt.
39, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione) per le stesse
ragioni già esposte.
L'art. 15, nel sancire che il bilancio pluriennale dello Stato,
predisposto ex art. 4 della legge 5 agosto 1978, n. 468, determina le
compatibilità generali di tutti gli impegni di spesa da destinare al pubblico
impiego, esproprierebbe la regione della capacità di spesa
in materia; tale norma conseguentemente si porrebbe in conflitto con l'art. 119
della Costituzione che garantisce l'autonomia finanziaria.
Infine, l'art. 27 della legge n. 93 del 1983, che attribuisce a dieci
ispettori di svolgere il compito di verificare la corretta applicazione degli
accordi collettivi presso le regioni, introduce un procedimento di controllo
del tutto atipico non rientrante tra quelli indicati in via tassativa dagli artt. 124, 125, 126 e 127 della Costituzione, che ne risulterebbero violati.
10. - Si é costituito in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri per il tramite dell'Avvocatura dello Stato, chiedendo
articolatamente la reiezione di tutti i ricorsi.
Nell'atto di costituzione si sostiene che il punto fondamentale da
affrontare é quello della natura della legge 29 marzo 1983, n. 93; e l'intento
di portare omogeneità nelle posizioni giuridiche dei dipendenti pubblici, come
condizione essenziale per perequarne i trattamenti economici e delineare il metodo per pervenire a fissare i contenuti
della disciplina del pubblico impiego in modo da poter conseguire questi
risultati non potrebbe non essere considerato che l'oggetto di una riforma
economico-sociale. La raggiunta omogeneità dei trattamenti
economici e normativi nell'ambito del pubblico impiego, nel realizzare i
precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e
36 della Costituzione, consentirebbe inoltre una stabilizzazione a medio tempo
e la programmazione delle modifiche, sì da ottenere, per il tramite di un minor
costo dell'apparato amministrativo, la possibilità di attuare una diversa
ripartizione delle risorse finanziarie dello Stato in favore delle spese di investimento.
La disciplina attuata mediante la legge n. 93 del 1983, per la sua
generalità e completezza, sarebbe idonea ad ovviare una riscontrata carenza normativa, evidenziata anche in alcune precedenti
pronunce della Corte costituzionale, venendo a risolvere nel suo ambito la
precedente frammentaria normazione sulla contrattazione collettiva.
Venendo a dire delle singole censure formulate dalle diverse regioni
ricorrenti, l'Avvocatura osserva come la prospettata interpretazione secondo
cui vi sarebbe coincidenza tra la portata del primo e del secondo comma
dell'art. 1 sarebbe contraddetta, non solo dalla
lettera delle due disposizioni, ma anche dal "tenore dell'art. 10",
che espressamente restringerebbe alle sole regioni a statuto ordinario la
disciplina del procedimento di formazione dell'accordo ivi considerato.
Le censure relative agli artt.
2 e 3 della legge investono in primo luogo il fatto che il legislatore statale
ha dettato una norma non già di disciplina di un rapporto, ma sul modo di disciplinarlo,
sicché il contenuto della regolamentazione, coperto da riserva di legge
regionale, risulterebbe fissato attraverso determinazioni sottratte a quella
competenza, o comunque tali da imporsi ad esse.
Se la disposizione posta dal legislatore statale
costituisce momento o necessario sviluppo logico della disciplina di riforma ed
ha natura di legge formale, questa può e deve essere qualificata legge di
riforma non rilevando in contrario che la stessa ponga solo un limite procedimentale.
In secondo luogo, deve osservarsi che poiché il legislatore nazionale ha
inteso imporre come norma fondamentale di riforma non la regolamentazione
dettata con gli artt. 6 e 10, ma il principio da essi desumibile, non sarebbe giustificato il rilievo secondo
cui il contenuto dell'accordo dovrebbe essere recepito nella sua interezza.
Inoltre, l'approvazione prevista dal terzo comma dell'art. 10 della legge non
si presterebbe ad essere intesa nel senso che fonte del regolamento dei
rapporti sia da considerarsi l'accordo.
In questa ottica, perderebbe di rilievo anche la
censura secondo cui, in contrasto con le norme statutarie, una parte della
materia coperta da riserva di legge regionale subirebbe un processo di delegificazione. Difatti, sarebbe solo vero che,
nell'ambito individuato dall'art. 3 della legge n. 93, la disciplina
legislativa del rapporto può solo esercitarsi in quanto sia stato svolto
"un procedimento inteso ad individuare i contenuti della nuova disciplina
attraverso la contrattazione collettiva".
Venendo alla principale censura mossa dalla Regione Lombardia, si osserva
che il fulcro della questione é costituito dalla interpretazione
del terzo comma dell'art. 10. Tale norma comporta che, a norma dell'art. 3
della legge, gli aspetti dell'organizzazione del lavoro e del rapporto di impiego in esso considerati sono, in ogni caso,
disciplinati con i procedimenti e gli accordi contemplati dalla stessa legge.
Ciò significherebbe però che il procedimento preveduto per pervenire
all'individuazione dei contenuti della disciplina deve essere necessariamente
percorso e che il contenuto dell'accordo viene anche a porsi come termine di
riferimento della successiva disciplina posta dalla regione, ai fini della
valutazione del rispetto dei principi di omogeneizzazione
di cui all'art. 4 della legge. Non si deve invece concludere
che con l'accordo si sia voluta creare una fonte di produzione autonoma e
giuridicamente sovraordinata alla legge regionale,
che dovrebbe limitarsi a riprodurne pedissequamente i contenuti a pena di illegittimità.
Le disposizioni dettate dagli artt. 6 e 10
della legge non impedirebbero infatti ai competenti
organi regionali di predeterminare la propria posizione in merito ai temi da
trattare in sede di contrattazione sindacale, vincolando i propri rappresentanti
al rispetto delle determinazioni assunte e pertanto a rifiutare l'assenso alla
conclusione dell'accordo. Se la recezione
dei contenuti dell'accordo ben potrà essere la normale conclusione di un
procedimento di produzione normativa con la partecipazione della regione; se la
legge prevede che il contenuto dell'accordo non rilevi sull'ordinamento
regionale se non in quanto approvato nelle forme prevedute
dallo stesso ordinamento, ciò comporta che la regione stessa ben potrà valutare
i risultati dell'accordo, eventualmente rifiutando la recezione
di punti che si pongano in contrasto con considerazioni scaturenti dal proprio
ordinamento o anche di merito. La previsione del metodo della
contrattazione collettiva non violerebbe pertanto né l'art. 117 né l'art. 97
della Costituzione.
Il procedimento di approvazione previsto
dall'art. 6 con riferimento all'art. 15 non contrasta neppure con il principio
dell'autonomia finanziaria delle regioni: "al riguardo va considerato che,
a norma dell'art. 16, comma sesto, della legge 27 febbraio 1967, n. 48, sub
art. 34 della legge 5 agosto 1978, n. 468, le regioni determinano gli obiettivi
programmatici dei propri bilanci pluriennali in armonia con gli obiettivi
programmatici risultanti dal bilancio pluriennale dello Stato, alla
predisposizione del quale partecipano poi nei modi previsti dal comma quarto
dello stesso art. 16".
Peraltro la verifica delle compatibilità finanziarie da parte del
Consiglio dei ministri, compiuta con riferimento all'indicazione di spesa, quale
é contenuta nel bilancio pluriennale dello Stato, non può comportare una incidenza sulla finanza delle singole regioni che non
sia già prevista dai rispettivi bilanci pluriennali e ciò in forza del disposto
del già richiamato art. 16 della legge n. 48 del 1967.
Infine, il fatto che il metodo della contrattazione collettiva sia stato
previsto non regione per regione, ma in sede unica, a
livello nazionale, con la partecipazione di rappresentanti regionali trova
ragione nella "maggiore idoneità" di tale forma a consentire la
perequazione retributiva nell'ambito del pubblico impiego ed é pertanto
costituzionalmente legittima.
Si conclude perché tutte le questioni sollevate
siano dichiarate infondate.
11. - Nell'imminenza della discussione, le regioni Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia e Liguria, oltreché l'Avvocatura generale dello Stato, hanno
presentato memorie con cui ribadiscono ed ampliano le
argomentazioni già esposte a sostegno delle rispettive regioni.
Alla pubblica udienza, dopo che il giudice Oronzo Reale aveva svolto una dettagliata relazione sull'oggetto delle
questioni sollevate, le parti hanno oralmente illustrato i rispettivi ricorsi.
Considerato in diritto
1. - Gli otto ricorsi delle regioni autonome Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, delle province
autonome di Bolzano e di Trento, delle regioni Lombardia, Veneto e Liguria,
indicati in epigrafe, sottopongono alla Corte
questioni tutte attinenti alla legge 29 marzo 1983, n. 93 nel suo complesso o
in sue singole disposizioni. Tali questioni sono in parte
eguali o diseguali solo nei parametri invocati, in parte connesse. I
ricorsi possono dunque essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. - Le regioni a statuto speciale Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia e le province autonome di Bolzano e
Trento con i loro ricorsi, il cui contenuto é largamente esposto in narrativa,
denunciano in primo luogo come costituzionalmente illegittimi, ciascuna in riferimento alle disposizioni del rispettivo statuto
speciale di autonomia, l'art. 1 della legge 29 marzo 1983, n.
Innanzi tutto viene negato che la natura di
legge di riforma economico-sociale possa desumersi dalla semplice affermazione
del legislatore anziché dall'effettivo contenuto della legge, del quale si
esclude il carattere innovatore sostanziale (e non meramente procedimentale) proprio di ogni normativa che voglia
assurgere a "riforma economico-sociale".
3. - É evidente che la natura di riforma
economico-sociale di una normativa non può essere determinata dalla sola
apodittica affermazione del legislatore e che essa deve invece ricercarsi
nell'oggetto della normativa, nella sua motivazione politico-sociale, nel suo
scopo, nel suo contenuto, nella modificazione che essa apporta nei rapporti
sociali.
Ora la considerazione di tutti questi elementi consente di attribuire
alla legge n. 93 la portata di riforma economico-sociale.
La legge costituisce, come é noto, il punto di approdo
di un dibattito politico, sociale e dottrinale ultra decennale. A partire dalle note denunce della "giungla delle
retribuzioni", attraverso la istituzione di una Commissione parlamentare
di inchiesta (
La stessa Corte costituzionale, del resto, non aveva mancato l'occasione
di sottolineare la necessità di una "disciplina
generale che presuppone evidentemente la possibilità di definire una
corrispondenza abbastanza precisa tra qualifiche, mansioni e trattamenti
economici", aggiungendo che in tal modo si sarebbe realizzato "nel
rispetto delle autonomie regionali e provinciali, quel contenuto essenziale di
eguaglianza (in relazione agli artt. 3 e 36 della Costituzione) che é richiesto dall'assetto unitario
della Repubblica e dal principio del buon andamento della pubblica amministrazione"
(sent. n. 21/1978).
In quale misura le finalità della legge n. 93, corrispondenti
all'auspicio della Corte costituzionale e alle conclusioni del prolungato dibattito
politico-sociale, verranno realizzate, non può essere
ancora verificato, a poco più di un anno dall'emanazione della legge stessa.
Certo é, però, il proposito del legislatore e finalizzati al suo raggiungimento
sono gli strumenti che egli ha scelto e che realizzano sicuramente un novum nel rapporto di pubblico impiego.
Negare che la legge realizzi una grande riforma
economico-sociale non si può senza dimenticare i principi da essa desumibili,
quali sono certamente quello della "disciplina in base ad accordi"
sia nella sede nazionale che in quella delle regioni e province a statuto
speciale (art. 3), con la definizione della materia riservata a
"disciplina di legge" (art. 2); il "principio di
omogeneizzazione" delle posizioni e trattamenti (art. 4), quello della
"mobilità" (art. 19), quelli in tema di responsabilità (art. 22,
secondo comma).
4. - Le difese delle ricorrenti regioni e province a statuto speciale
negano la "novità" di tali principi (e quindi la loro attitudine a
sostanziare una "riforma"); ma
Nella relazione al disegno di legge poi approvato veniva
evidenziata la "svolta di rilievo storico nell'ambito del pubblico
impiego, in quanto (la legge) sanziona il definitivo abbandono di un sistema
che fino a pochi anni fa era tutto incentrato sul momento autoritativo
in favore di un altro sistema che al contrario fa perno sul consenso dei
soggetti interessati".
E, quanto al valore di principio di riforma economico-sociale che deve
essere riconosciuto alla omogeneizzazione dei
trattamenti prevista dalla legge, si deve sottolineare che già
5. - Le difese delle ricorrenti affermano che di
riforma economico-sociale non si può parlare a proposito di una riforma
meramente procedimentale, quale sarebbe appunto
quella della legge n. 93. Senonché
i principi di questa legge non sono soltanto quelli relativi ai
"procedimenti" ed agli "accordi contemplati nella presente
legge", ma sono tutti quelli sostanziali, che dalla legge si desumono. E inoltre, anche una riforma di contenuto cosiddetto procedimentale (si pensi, fra l'altro, alla procedura della
programmazione) ben potrebbe assurgere a riforma economico-sociale.
Le difese delle ricorrenti osservano ancora che i "principi"
dovrebbero essere espressi, non "desumibili dalla disciplina", come
dispone il secondo comma dell'art. 1 della legge. Ma si tratta di un falso
problema, una volta che si riconosca che nella legge i principi ci sono, né
costituisce obiezione di pregio il fatto che, come tante altre norme generali o
particolari, essi debbano essere individuati e
qualificati in via interpretativa.
Le difese delle ricorrenti affermano infine che primo e secondo comma
dell'art. 1 finiscono col dare diversa definizione
("principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione";
"norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica")
alla stessa materia normativa, col conseguente rischio di vincolare ai principi
fondamentali di cui all'art. 117 anche le regioni e province a statuto
speciale. Sostanzialmente analoga é la censura svolta dalla
Regione Valle d'Aosta con riferimento all'art. 2 dello statuto e all'art. 117
della Costituzione. Ma anche questa affermazione
va respinta.
Quale che sia il grado di perfezione tecnica che
si voglia riconoscere alla formulazione dell'art. 1 della legge, la confusione
non é possibile quando - come si deve - tutta la legge, e non solo un articolo,
venga presa in considerazione.
Tanto meno é possibile supporre che anche le regioni e
province a statuto speciale siano soggette all'applicazione degli accordi
sindacali raggiunti in sede nazionale. Su questa ipotesi,
prospettata dalle regioni ricorrenti e contestata dall'Avvocatura dello Stato,
hanno insistito le parti anche nella discussione all'udienza. Ma l'ipotesi é
inconsistente, dipendendo da una errata lettura
dell'art. 10 della legge n. 93, il quale - benché nell'epigrafe parli di
"accordi sindacali per i dipendenti delle regioni e degli enti pubblici
non economici da esse dipendenti" - nel testo regola solo gli accordi
"riguardanti il personale delle regioni a statuto ordinario nonché degli
enti pubblici non economici da esse dipendenti", escludendo quindi dal
procedimento le regioni a statuto speciale.
Ciò, del resto, é confermato anche dalla circostanza
che nel disegno di legge n. 678 il testo dell'art. 9 (poi diventato art. 10
della legge n. 93) prevedeva la partecipazione alla delegazione regionale di
"sette membri in rappresentanza delle regioni anche a statuto
speciale" e che, invece, il testo approvato non menziona in alcun modo le
regioni stesse.
7. - La difesa della Regione Trentino-Alto Adige afferma inoltre che in
ogni caso l'accordo non costituirebbe solo un vincolo all'autonomia regionale,
ma di fatto si sostituirebbe alla legge delle regioni,
la quale dovrebbe limitarsi ad "approvare" la disciplina contenuta
nell'accordo. E ciò perché se "anche l'art. 10 della legge fosse ritenuto
non applicabile direttamente alle regioni a statuto speciale, si deve presumere
che esso esprima un "principio" desumibile dalla legge e che come tale esso vincoli anche il Trentino-Alto Adige".
Ma questa "presunzione" non é fondata
per le ragioni sopra esposte: l'art. 10 si riferisce letteralmente alle sole
regioni a statuto ordinario, e non é possibile desumerne un principio da
applicare anche alle regioni e province a statuto speciale. Che se poi la
difesa della regione intendesse riferirsi non già agli accordi sindacali
nazionali, ma a quelli regionali, per sostenere che anche il cosiddetto loro
"recepimento" nella legge regionale
costituirebbe violazione della potestà legislativa della regione, la quale verrebbe vincolata dagli accordi medesimi, basterebbe per
dimostrare l'inconsistenza della doglianza, il rilievo che in tale ipotesi le
regioni finirebbero con l'approvare per legge il contenuto di accordi da esse
medesime liberamente contratti.
Ma ad escludere, in ogni caso, che la legge regionale debba
puramente, semplicemente e addirittura formalmente accogliere il contenuto
degli accordi sindacali, come la ricorrente asserisce al fine di dimostrare lo
svuotamento della sua potestà legislativa, stanno (a fortiori
per le regioni e le province a statuto speciale) le conclusioni cui
8. - Sempre a sostegno della presunta illegittimità costituzionale
dell'art. 1 della legge n. 93 (questa volta con riferimento all'art. 3 della
Costituzione)
Lo stesso é a dirsi per la denunzia di incostituzionalità
che
9. - A questo punto
10. -
La censura é fondata. L'art. 5, n. 1, infatti, attribuisce alle province
della regione la "potestà di emanare norme legislative" in materia di
"ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto", e l'art. 65 stabilisce che
"l'ordinamento del personale dei comuni é regolato dai comuni stessi,
salva l'osservanza dei principi generali che potranno essere stabiliti con
legge regionale".
Trattasi di una competenza legislativa tipica, che lo statuto attribuisce
alla regione.
11. -
La stessa censura é rivolta all'art. 9 della legge n. 93 dalla Provincia
autonoma di Bolzano con riferimento all'art. 9, n. 10, dello statuto e anche in relazione alle peculiari esigenze derivanti nella
provincia dalla proporzionale etnica e dalla parificazione delle lingue
italiana e tedesca.
Infine anche
La questione così variamente sollevata può essere
unitariamente esaminata.
L'Avvocatura dello Stato, per negare la denunciata illegittimità della
norma, afferma che, essendo le Unità Sanitarie Locali gestite dalle regioni per
disposizione del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 e
dell'art. 47 della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, il
procedimento da applicare per gli accordi sindacali per i dipendenti delle USL
sia, per le regioni a statuto ordinario, quello
previsto dall'art. 10 della legge n. 93.
Senonché il testo del
denunciato art. 9 non consente questa interpretazione.
I dipendenti delle USL non sono dipendenti delle regioni: l'art. 9,
infatti, parla di "dipendenti delle Unità Sanitarie Locali",
mentre l'art. 10 si riferisce al "personale delle regioni a statuto
ordinario". Né, d'altra parte, le USL possono venire
assimilate a quegli enti "dipendenti dalle regioni, dei quali si tratta
nello stesso art. 10 (trattandosi invece, di "una struttura operativa dei
comuni, singoli o associati, e delle Comunità montane", ai sensi dell'art.
15, primo comma, della legge n. 833 del 1978). Pertanto il procedimento
richiamato dall'art. 9 risulta non quello dell'art. 10,
ma quello centralizzato che l'art. 8 prescrive per i dipendenti dei comuni e
delle province e che si conclude col decreto presidenziale di cui all'ultimo
comma dell'art. 6 della legge n. 93.
Il procedimento esclude, quindi, le regioni e viola lo spazio di
competenza che
Nella lettura che il suo testo impone l'art. 9 della legge é
costituzionalmente illegittimo, conclusione che vale
sia per quanto riguarda le regioni a statuto ordinario, che, a fortiori, per quanto riguarda le regioni e province a
statuto speciale.
12. -
Ma tale contrasto non sussiste sulla base di una
corretta interpretazione della norma impugnata e del suo ambito territoriale di
operatività.
In effetti
Ciò non esclude, tuttavia, che in applicazione del principio generale
della disciplina in base ad accordi che vale anche, come si é visto, per le
regioni e province a statuto speciale, queste debbano
legiferare anche in materia di personale delle Camere di Commercio col
presupposto dell'accordo sindacale in sede regionale.
13. -
La stessa impugnazione viene proposta dalla
Regione Lombardia con riferimento agli artt. 118, 124 e 125 della Costituzione; dalla Regione Veneto con
riferimento agli artt. 117,
124 e 125 della Costituzione; dalla Regione Liguria con riferimento agli artt. 124, 125 e 127 della Costituzione. Quello
disposto dall'art. 27, quarto comma, della legge n. 93, sarebbe infatti un controllo anomalo, lesivo dell'autonomia
regionale legislativa e amministrativa perché diverso dal controllo che si
esprime nel visto del Commissario di Governo per le leggi e dal controllo di
legittimità di cui all'art. 125 della Costituzione.
La censura di illegittimità non ha fondamento.
L'art. 27, comma quarto, della legge n. 93, infatti, attribuisce agli
ispettori solo lo svolgimento di una attività
conoscitiva, di verificazione, che può essere utilizzata dal Dipartimento della
funzione pubblica sia ai fini del coordinamento e della programmazione, sia ai
fini della predisposizione della relazione al Parlamento di cui all'art. 16
della legge n. 93; ed é a questa attività conoscitiva che inerisce
l'obbligo di denunciare alla Procura Generale della Corte dei conti le
eventuali irregolarità amministrative riscontrate.
Questa attività conoscitiva attribuita agli ispettori é cosa ben diversa
dal controllo sulle leggi regionali, ai fini del visto, disposto dall'art. 127
della Costituzione e dal controllo di legittimità sugli atti amministrativi di
cui all'art. 125 della Costituzione, e non può ritenersi che essa violi
l'autonomia delle regioni.
13. -
La incostituzionalità delle disposizioni
impugnate deriverebbe dal fatto che esse "attribuiscono il potere di far
parte delle delegazioni ed organismi sindacali in questione ai soli
rappresentanti delle organizzazioni nazionali di categoria maggiormente
rappresentative, ovvero alle confederazioni maggiormente rappresentative su
base nazionale", senza tenere conto dei "principi rivolti in
particolare alla tutela delle minoranze tedesca e ladina", dai quali
discende, come specificato nell'art. 9 delle Norme di attuazione dello statuto
che, in ordine all'esercizio di qualsiasi attività sindacale, alle associazioni
sindacali costituite esclusivamente tra lavoratori delle minoranze linguistiche
tedesca e ladina "debbano essere garantiti tutti i diritti riconosciuti
alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul
piano nazionale".
14. -
Poiché il citato art. 14 stabilisce nel secondo comma che tali accordi
sono stipulati fra la delegazione sindacale, da un lato, e, "qualora
l'accordo riguardi una pluralità di uffici locali
dello Stato", da una delegazione statale presieduta "dal Commissario
del Governo o dal corrispondente organo nelle regioni a statuto speciale"
15. - Passando a trattare delle censure contenute nei ricorsi delle
regioni Lombardia, Veneto e Liguria non ancora esaminate unitamente a quelle
delle regioni e province a statuto speciale, occorre innanzitutto
darsi carico di una questione proposta dalla Regione Liguria.
La legge n. 93, prevedendo all'art. 3 una disciplina in base ad accordi
sindacali e prevedendo che la delegazione sindacale é
composta dai rappresentanti delle categorie maggiormente rappresentative per
ogni singolo comparto e dalle confederazioni maggiormente rappresentative su
base nazionale, violerebbe l'art. 39, quarto comma, della Costituzione,
relativo alla facoltà dei sindacati registrati aventi personalità giuridica di
stipulare, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti,
contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria.
La questione é inammissibile. Nel ricorso della Regione Liguria manca,
infatti, ogni motivazione non solo in ordine alla
supposta identificazione della "disciplina in base ad accordi" di cui
all'art. 3 della legge n. 93, con la contrattazione collettiva, direttamente
operante, di cui all'art. 39 della Costituzione; ma anche in merito alla
attinenza del parametro invocato alla lamentata lesione dell'autonomia
regionale (che costituisce l'oggetto e il limite della impugnazione diretta
della regione).
Del pari inammissibili, perché non sorrette da
alcun riferimento specifico alle norme censurate, sono le questioni relative
agli artt. 12, 23, secondo comma, 24 e 25 della legge
n. 93, globalmente impugnati in relazione all'art. 117
della Costituzione.
16. -
In effetti, tuttavia, l'ultimo comma dell'art. 10 della legge n. 93, il
quale stabilisce che "al fine del rispetto dei principi della presente
legge, la disciplina contenuta nell'accordo é approvata con provvedimento
regionale in conformità ai singoli ordinamenti", non lascia spazio alcuno alla autonomia regionale. Ciò, se non addirittura una
negazione, costituisce una non necessaria e inammissibile forzatura del sistema
di disciplina "in base" ad accordi regolata nell'art. 3 della legge. E a quanto risulta, nella prassi applicativa della legge n.
93, si pretende una perfetta corrispondenza delle leggi regionali (naturalmente
delle regioni a statuto ordinario) al contenuto dell'accordo. Il che non può essere considerato conforme all'art. 117 della
Costituzione, il quale attribuisce alle regioni la potestà di emanare nei
limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato norme
legislative relative agli ordinamenti degli uffici.
Ora il principio della disciplina in base ad accordi
desunto dall'art. 3 della legge n. 93 non può essere identificato senza
tener conto che, nel regolare la disciplina in base ad accordi, l'art. 3
richiama la necessaria "osservanza dei principi di cui all'art. 97 della
Costituzione e di quanto previsto dal precedente art. 2". E ciò significa
che, nella sua operatività, il principio della disciplina in base ad accordi va
conciliato col principio enunciato nell'art. 2 della stessa legge n. 93,
secondo il quale, nelle regioni, deve essere regolato con legge, l'ordinamento
degli uffici e del personale ad essi addetto, quanto
agli ambiti indicati nel medesimo articolo.
Ne consegue che spetta alle leggi regionali non la pura e semplice
riproduzione dell'accordo sindacale in sede nazionale, ma il suo adeguamento,
quando sia necessario, alle peculiarità dell'ordinamento degli uffici ed alle
disponibilità del bilancio regionale.
Conclusione questa che rende superflua la considerazione della generica
doglianza, pure sollevata dalla Regione Liguria, di "confliggenza
della norma appena citata (art. 3 della legge n. 93) con il costituzionale
principio di ragionevolezza".
Nella sua formulazione, il terzo comma dell'art. 10 della legge n. 93
esclude ogni flessibilità, ogni possibilità di adattamento
dell'accordo sindacale nazionale alle peculiarità regionali. Per questo ed in
questi limiti esso deve reputarsi in contrasto con l'art. 117 nonché con l'art. 97 della Costituzione.
Questa conclusione dispensa
17. - É invece non fondata la specifica censura della Regione Liguria
all'art. 11, comma secondo, della legge n. 93, che fa divieto (anche alle
regioni) di concedere ai dipendenti trattamenti integrativi e comunque importanti oneri aggiuntivi. Questo divieto
costituisce non una proposizione eventuale degli accordi sindacali di cui parla
l'art. 10, ma un principio stabilito dalla legge n. 93 e come tale operante
prima in sede di accordo, poi in sede di legislazione
regionale. Escluderne, dunque, la illegittimità
costituzionale non é in contrasto con le conclusioni cui
18. - A questo punto, raccogliendo le cose fin qui dette con lo scarso
ordine sistematico consentito dal numero, dalla sovrapposizione e
dall'intreccio delle questioni sottopostele,
PER QUESTI MOTIVI
1. - dichiara inammissibili la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 3, 6 e 10 della legge
29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Regione Liguria col ricorso n. 20 del
reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in
riferimento all'art. 39, comma quarto, della Costituzione, e le questioni
sollevate dalla stessa regione, degli artt. 12, 23,
secondo comma, 24 e 25 della legge n.
2. - dichiara la illegittimità costituzionale
dell'art. 8 della legge 29 marzo 1983, n. 93, nella parte in cui non fa salva
la competenza della Regione Trentino-Alto Adige in materia di ordinamento del
personale dei comuni prevista dall'art. 65 dello statuto speciale della
regione;
3. - dichiara la illegittimità costituzionale
dell'art. 9 della legge 29 marzo 1983, n. 93;
4. - dichiara la illegittimità costituzionale
dell'art. 10, terzo comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93 nella parte in cui
non prevede che la legge regionale approvativa
dell'accordo possa apportare gli adeguamenti resi necessari dalla
"disciplina di legge" in materia di ordinamento degli uffici
regionali e del personale ad essi addetto, prevista dal precedente art. 2 e
quelli richiesti dalle altre peculiarità del rispettivo ordinamento, nonché
dalle disponibilità del bilancio regionale;
5. - dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 5, secondo
comma, 6, quarto comma, 8, 9, 12, terzo comma, 14, 25 e 30, terzo comma, della
legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata in riferimento
all'art. 89 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige dalla Provincia
autonoma di Bolzano col ricorso n. 18 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe;
6. - dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 29
marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Provincia autonoma di Bolzano con ricorso n.
18 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in
riferimento all'art. 89 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige;
7. - dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 26, primo comma,
della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Regione Trentino-Alto Adige
con il ricorso n. 12 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in
riferimento all'art. 4, n. 8, dello statuto regionale;
8. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 1 della legge 29 marzo 1983, n. 93,
sollevata dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle province autonome di
Bolzano e di Trento con i ricorsi nn. 12, 18 e 19 del
reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento agli
artt. 4 e 5 dello statuto speciale della Regione
Trentino-Alto Adige;
9. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 1, comma secondo, della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalle
regioni Trentino - Alto Adige, Valle d'Aosta, Friuli-Venezia
Giulia e dalle province autonome di Bolzano e di Trento, con i ricorsi nn. 12, 17, 15, 18 e 19 del reg. ric.
1983, di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 4 e 5 dello statuto speciale della Regione Valle
d'Aosta e 4, n. 1, dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia
Giulia;
10. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 1 della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Regione Liguria
con il ricorso n. 20 del reg ric. 1983 di cui in
epigrafe, in riferimento all'art. 117 della
Costituzione;
11. - dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 3, 5, 6, 10, 11 e 15 della legge 29 marzo
1983, n. 93, sollevate dalla Regione Liguria con il ricorso n. 20 del reg. ric.
1983 di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 117, 118, 119, 3 e 97 della Costituzione;
12. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del
titolo I della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata
dalla Regione Lombardia con il ricorso n. 13 del reg. ric. 1983 di cui in
epigrafe, in riferimento agli artt.
117, 118, 119, 120 e 121 della Costituzione;
13. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 27, quarto comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalle
regioni Trentino - Alto Adige, Lombardia e Liguria nonché
dalla Provincia autonoma di Bolzano con i ricorsi nn.
12, 13, 20 e 18 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in
riferimento allo statuto della Regione Trentino-Alto Adige ed agli artt. 118, 124, 125 e 127 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 1984.
Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI
Depositata in cancelleria il 25 luglio 1984.