Sentenza n. 30 del 1972

SENTENZA N. 30

ANNO 1972

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 26, lettere c e d, della legge 14 luglio 1965, n. 963 (disciplina della pesca marittima), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 13 novembre 1970 dal pretore di Massa nel procedimento penale a carico di Romani Pasquale e Cusignani Antonio, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 62 del 10 marzo 1971;

2) ordinanza emessa il 16 gennaio 1971 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Magliozzi Luigi, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Republica n. 112 del 5 maggio 1971;

3) ordinanza emessa il 14 maggio 1971 dal pretore di Piombino nel procedimento penale a carico di Morlé Attilio e Peluso Giuseppe, iscritta al n.246 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 233 del 15 settembre 1971.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 26 gennaio 1972 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Pasquale Romani e di Antonio Cusignani, per la contravvenzione di pesca a trazione meccanica a distanza inferiore di tre miglia dalla costa, il pretore di Massa, tenuto conto che, nell'ipotesi di condanna si sarebbero dovute applicare, con la pena principale, le previste pene accessorie - e fra queste, ai sensi della lettera d dell'art. 26 della legge 14 luglio 1965, n. 963, "l’interdizione di esercitare la pesca marittima in qualunque forma, anche alle dipendenze altrui" - da quindici giorni sino a due mesi e, in caso di recidiva, sino a un anno - con ordinanza del 13 novembre 1970 riteneva rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale di tale disposizione, in riferimento agli artt. 1, primo comma, 4 e 27, terzo comma, della Costituzione.

Ad avviso del pretore, le pene accessorie, pur distinguendosi da quelle principali per la prevalente funzione preventiva, non dovrebbero mai risolversi nell'esclusione di chi ne é colpito dallo svolgimento di un'attività che gli consenta di vivere.

Per altro, proprio a questo risultato si perverrebbe, di fatto, nel caso del pescatore cui venga comminata la suddetta interdizione, dato che egli, nell'odierna struttura sociale, caratterizzata dalla specializzazione dei vari mestieri, non potrebbe attendere ad altra attività se non quella sua propria. Il contrasto con i primi due precetti costituzionali (artt. 1 e 4) sarebbe tanto più evidente, in quanto al pescatore verrebbe inibito di esercitare, oltre a quel tipo di pesca mediante il quale é stato commesso il reato, anche qualsiasi specie di pesca marittima, pure nella forma di prestazione d'opera subordinata.

Per il fatto stesso di risolversi nella soppressione di una qualsiasi possibilità di lavoro e di onesto guadagno, la norma denunziata sarebbe pure contraria al senso di umanità, richiesto per la pena, ed al suo fine rieducativo (art. 27, terzo comma, Cost.).

2. - Analoga questione, limitatamente all'inciso "anche alle dipendenze altrui", contenuto nella medesima disposizione, é stata sollevata, in riferimento agli artt. 4 e 35 della Costituzione, con ordinanza del 16 gennaio 1971, dal pretore di Roma, nel corso di un procedimento penale, per identico reato, a carico di Luigi Magliozzi.

Anche in tale ordinanza si pone in rilievo il carattere preventivo della pena accessoria, ma si osserva che questa raggiungerebbe il suo specifico scopo, allorché sia ritenuto responsabile il capobarca o il comandante del peschereccio, dappoiché solo colui che riveste una di tali qualifiche, per la particolare disciplina vigente a bordo del natante, potrebbe violare le disposizioni legislative in materia ed essere, conseguentemente, indotto a non violarle. Al contrario, il pescatore che sia un lavoratore subordinato, dovendo eseguire gli ordini del capobarca o del comandante, non potrebbe mai, in via autonoma, infrangere la legge de qua. Nei suoi confronti, pertanto, la pena accessoria avrebbe solo carattere di afflittività, che, tuttavia non potrebbe spingersi fino alla privazione del diritto al lavoro, il quale ha riconoscimento e tutela costituzionali in tutte le sue forme ed applicazioni.

3. - Nei due giudizi innanzi a questa Corte non vi é stata costituzione di parte privata.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto con atto depositato il 10 marzo 1971, nel quale chiede che le questioni siano dichiarate non fondate.

Per quanto concerne la violazione degli artt. 1 e 4 della Costituzione, l'Avvocatura - dopo aver affermato che le continue trasformazioni sociali in atto smentirebbero l'asserita impossibilità di svolgere un'attività lavorativa diversa da quella intrapresa e seguita - si richiama alla giurisprudenza di questa Corte sui limiti del riconoscimento del diritto al lavoro, derivanti dall'esigenza di tutela di interessi generali, fra i quali va annoverata la prevenzione dei reati.

Aggiunge che detti artt. 1 e 4, come non garantiscono il diritto al conseguimento di un'occupazione, così non garantiscono quello alla conservazione del posto di lavoro.

La violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, poi, non sussisterebbe, sia per quanto riguarda il senso di umanità - essendo da escludere che dalla interdizione temporanea di una determinata attività lavorativa derivi il venir meno di qualsiasi altra lecita possibilità di lavoro; sia per quanto concerne la finalità rieducativa della pena, che non sarebbe illegittima pur se tale finalità mancasse o fosse presente solo in minima misura e che, inoltre, giusta la sentenza n. 12 del 1966 di questa Corte, assolve pure ad altre essenziali finalità.

A proposito dell'ulteriore profilo della questione avanzata dal pretore di Roma, anche in riferimento all'art. 35 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che l'interdizione da una professione, arte, industria, commercio o mestiere, per i quali sia richiesto uno specifico permesso o abilitazione o autorizzazione o licenza dell'autorità, debba, logicamente, di questi comportare la decadenza, quale conseguenza dell'abuso fattone.

Deduce, infine, l'Avvocatura che a difforme risultato non si potrebbe pervenire neppure limitatamente all'inciso "anche alle dipendenze altrui", perché il lavoratore subordinato, sebbene difficilmente potrebbe violare le norme sulla pesca di propria iniziativa, ben potrebbe concorrere nei fatti che tali norme incriminano. E ciò starebbe a dimostrare il carattere (anche) preventivo della disposizione denunziata.

4. - Altra questione di legittimità costituzionale della legge n. 963 del 1965, art. 26, lett. c - che prevede, come pena accessoria, la sospensione di validità del permesso di pesca (da quindici giorni sino a due mesi e, in caso di recidiva, sino a un anno) con divieto dell'uso per la pesca della nave o del galleggiante, con il quale é stato commesso il reato - é stata sollevata, con ordinanza del 14 maggio 1971, dal pretore di Piombino, in riferimento all'art. 27, primo comma della Costituzione, nel corso di un procedimento penale a carico di Attilio Morlé e di Giuseppe Peluso.

Nell'ordinanza si afferma che, nell'ipotesi di condanna, la pena accessoria colpirebbe persona diversa dall'imputato ed estranea al fatto contestato, quale, nella specie, é il titolare del permesso di pesca; questi risponderebbe così di fatto non proprio, in violazione del precetto costituzionale sulla personalità della pena.

Nel giudizio innanzi a questa Corte, nel quale non vi é stata costituzione di parte privata, é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 2 ottobre 1971 nel quale si chiede che la questione sia dichiarata non fondata.

L'Avvocatura deduce che la questione sollevata é frutto di mero errore di interpretazione della norma denunziata; e precisa che il permesso di pesca - la cui sospensione di validità é prevista come pena accessoria - é distinto dalla licenza di navigazione, rispetto alla quale si pone come ulteriore autorizzazione, al fine di evitare che la pesca o determinati tipi di essa possano essere esercitati con navi non adatte. Ed osserva che la sospensione di validità del permesso di pesca in tanto potrà essere comminata, per l'art. 20 del codice penale, in quanto sia stata irrogata la pena principale; mentre potrà essere inflitta al titolare del permesso di pesca, solo se ed in quanto questi sia autore o correo di uno dei reati previsti dalla normativa sulla pesca marittima. Non é, invero, concepibile che taluno, se non sia stato imputato, venga punito con una pena accessoria, dato che questa non può che conseguire ad una condanna a pena principale, come effetto penale di questa ultima (art. 20 cod. pen.).

Considerato in diritto

1. - L'ordinanza del pretore di Piombino riguarda la lett. c e quelle dei pretori di Massa e di Roma la lett. d dell'art. 26 della legge 14 luglio 1965, n. 963 (Disciplina della pesca marittima): pertanto, le cause possono essere riunite e decise con unica sentenza.

2. - Quanto alla disposizione contenuta nella lett. c dell'art. 26, che commina la pena accessoria della sospensione di validità del permesso di pesca, la questione é palesemente infondata. Emerge dalla stessa enunciazione dell'ordinanza del pretore di Piombino che il titolare del permesso non é imputato nel giudizio di merito. Di più: l'ordinanza muove proprio ed esclusivamente da tale circostanza per sollevare la questione.

Ora, non é concepibile l'applicazione di una pena accessoria - come giustamente osserva l'Avvocatura generale dello Stato - a carico di persona estranea al processo e diversa da quella cui sia irrogata o irrogabile la pena principale. Sul piano logico, prima ancora che sul piano giuridico, non é invocabile il principio costituzionale della responsabilità penale strettamente personale, rispetto a chi, non essendo stato sottoposto a procedimento, non può essere raggiunto da una sanzione accessoria, essendo questa vincolata all'irrogazione di una pena principale.

Occorre ricordare che conseguenze patrimoniali, collegate alle sanzioni penali, ma da esse distinte, non sono estranee alla legge n. 963 del 1965. Recita, infatti, l'art. 30 che "l'armatore e l'imprenditore di pesca sono solidalmente e civilmente responsabili per le multe e le ammende inflitte ai loro ausiliari e dipendenti per i reati commessi nell'esercizio della pesca marittima"; e l'art. 29 ammette la costituzione di parte civile dello Stato, in persona del Ministro per la marina mercantile, nei giudizi penali (con tutti gli effetti della responsabilità per danni a carico di quanti debbano risponderne alla stregua della legge civile - artt. 2043 e segg. cod. civ. - e della legge penale - art. 185, secondo comma, cod. pen.; artt. 22, secondo comma, 107 e segg. cod. proc. pen.).

Questi sono gli strumenti che predispone l'ordinamento giuridico per reprimere i fatti illeciti (indipendentemente dal campo penale) dell'armatore e dell'imprenditore di pesca.

Va da sé, tuttavia, che il permesso di pesca dell'art. 12 - sia esso da annoverare tra le concessioni, le autorizzazioni o le ammissioni - può essere revocato dalla pubblica Amministrazione in caso di abusi, anche se commessi dal personale di bordo e non direttamente dal titolare.

3. - La lett. d del medesimo articolo della legge, che commina, a sua volta, la pena accessoria della interdizione di esercitare la pesca marittima, é stata censurata, nell'intiero testo dal pretore di Massa e, limitatamente all'inciso "anche alle dipendenze altrui", dal pretore di Roma.

Argomenta il primo (e il secondo mostra di condividerne l'opinione pur con un breve accenno) che la pena accessoria qui prevista finirebbe con l'escludere colui che ne sia colpito da qualsiasi attività lavorativa, "stante l'odierna struttura sociale e in particolare il grado di specializzazione dei vari mestieri", cioé col determinare, per un pescatore, l'impossibilità pratica dell'inserimento in un diverso contesto operativo.

Per rimanere sul piano metagiuridico, si può obiettare in contrario che restano aperte al pescatore talune attività marittime marginali: e ciò a prescindere da una certa mobilità delle attività lavorative in generale.

Ma, più pertinentemente, si deve obiettare che l'esercizio di un'attività può ben essere - e spesso é - sottoposta a condizioni, limitazioni ed obblighi, in funzione di interessi ed esigenze sociali dall'ordinamento statuale ritenuti meritevoli di protezione (vedi sentenza n. 41 del 1971 di questa Corte): e lo sono, in sommo grado, gli interessi e le esigenze della biologia marina e dell'ecologia, che costituiscono la ratio di prescrizioni che, pur divenute ora più specifiche, più restrittive e più severe, si ricollegano a quelle della legge 4 marzo 1877, n. 3706, e successive modificazioni e del regolamento 13 novembre 1882, n. 1090, e successive modificazioni.

Né é a tacere che il ragionamento delle ordinanze varrebbe per tutte le pene accessorie della interdizione e sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte previste e disciplinate dal codice penale (artt. 30 e 35), dal codice di navigazione (es., art. 1082, primo comma, n. 1 e n. 2, e secondo comma, n. 1 e n. 2; art. 1083) e da leggi speciali.

4. - Del resto, nelle ordinanze di rimessione, i pretori di Massa e di Roma non dubitano del carattere illecito della condotta incriminata dall'art. 15 della legge 14 luglio 1965, n. 963, integrato dall'art. 111 del regolamento di esecuzione approvato con d.P.R. 2 ottobre 1968, n. 1639: e poiché non può certo rientrare nella protezione costituzionale un'attività penalmente illecita, non é a parlarsi di violazione degli artt. 1, primo comma, 4 e 35 della Costituzione. E ciò anche a non dire che la pena (sia essa principale od accessoria) é rimessa alla scelta del legislatore, insindacabile in questa sede, quando, rimanendo egli nei limiti della sua discrezionalità, non violi i precetti della Costituzione.

Non é invocabile neppure l'art. 27, terzo comma, specie per la breve durata della proibizione di esercitare la pesca marittima (da quindici giorni a due mesi e, in caso di recidiva, a un anno); e tenuto conto, altresì, dell'abbastanza ampio potere del giudice di adeguare la pena (per quel che ci riguarda, accessoria) alla particolarità del caso concreto, alla stregua dei criteri indicati nell'art. 132 cod. pen. e delle circostanze elencate nell'art. 133 dello stesso codice.

Né rileva la tesi del pretore di Massa che le pene accessorie partecipano della natura delle misure di sicurezza, dappoiché, anche a volerla ritenere esatta, non condurrebbe ad alcun risultato apprezzabile sul piano costituzionale.

5. - Il dubbio di costituzionalità dell'inciso "anche alle dipendenze altrui", prospettato dal pretore di Roma, sembra essere viziato da un equivoco.

La legge in esame punisce con la pena principale, cui fanno seguito talune pene accessorie, chi del reato sia responsabile.

Col che un comandante o un capo barca, il quale abbia violato od ordinato di violare i limiti di distanza dalla costa, fissati per la pesca, subirà la pena della proibizione di esercitare la sua attività lavorativa, sia come (attuale) comandante o capo barca, sia come (futuro ed eventuale) lavoratore subordinato.

Ciò non significa, ben s'intende, che il fatto, se commesso dal lavoratore dipendente, non sia penalmente sanzionato, ma lo é nell'ambito ed entro i confini delle disposizioni della parte generale del codice di diritto sostantivo, specie con riguardo agli artt. 110 e seguenti (partecipazione di più persone nel fatto illecito); all'art. 51, ultimo comma (sindacabilità o no dell'ordine); all'art. 47 (errore di fatto: estrema difficoltà e spesso impossibilità per il semplice pescatore di controllare l'esatta posizione del natante rispetto alla costa); all'art. 48 (errore determinato dall'altrui inganno) e via dicendo.

Il complesso tessuto del nostro sistema punitivo consente, quindi, di superare le obiezioni e le contestazioni del pretore di Roma, non tanto con riguardo alla pena accessoria - secondo la di lui circoscritta impostazione -, bensì a tutte le sanzioni penali nella loro globalità; e di superarle col pieno rispetto sia degli scopi della pena, sia della esclusione della responsabilità per fatto altrui, in riferimento all'art. 27, terzo e primo comma, Cost.: questioni, per altro, solo adombrate nella motivazione dell'ordinanza di rimessione del pretore di Roma e prospettate per implicito a questa Corte.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, lett. c, della legge 14 luglio 1965, n. 963 (disciplina della pesca marittima), sollevata, in riferimento all'art. 27, primo comma, della Costituzione, dal pretore di Piombino con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, lett. d, della stessa legge, sollevata, in riferimento agli artt. 1, primo comma, 4 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal pretore di Massa con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'inciso "anche alle dipendenze altrui", contenuto nell'art. 26, lett. d, della stessa legge, sollevata, in riferimento agli artt. 4 e 35 della Costituzione, dal pretore di Roma con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 1972.

Giuseppe CHIARELLI - Enzo CAPALOZZA

Depositata in cancelleria il 17 febbraio 1972.