Sentenza n. 15 del 1964
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SENTENZA N. 15

ANNO 1964

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge 2 luglio 1952, n. 703, promosso con ordinanza emessa 11 marzo 1963 dal Tribunale di Bergamo nel procedimento civile vertente tra la Società per azioni "Terme di San Pellegrino" e il Comune di San Pellegrino Terme, iscritta al n. 71 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 94 del 6 aprile 1963.

Visti l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e gli atti di costituzione in giudizio della Società per azioni "Terme di San Pellegrino" e del Comune di San Pellegrino Terme;

udita nell'udienza pubblica del 20 novembre 1963 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

uditi l'avv. Mario Cassola, per la Società "Terme", l'avv. Arturo Carlo Jemolo, per il Comune di San Pellegrino Terme, e il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Con atto di citazione in data 28 luglio 1961 la S. p. A. "Terme di San Pellegrino" conveniva davanti al Tribunale di Bergamo il Comune di San Pellegrino e la Società a r. 1. "S.A.G.A.C.I.C.A.", perché venissero dichiarate illecite ed illegittime le deliberazioni del Comune stesso concernenti l'applicazione a carico della attrice del "diritto speciale" previsto dall'art. 6 della legge 2 luglio 1952, n. 703. Essa chiedeva fra l'altro che venisse dichiarata non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione citata, nonché dell'art. 22 del T.U. per la finanza locale, in relazione agli artt. 120, 23, 24, 103 e 3 della Costituzione, con conseguente sospensione del giudizio e rimessione degli atti alla Corte costituzionale.

I convenuti, costituiti in giudizio, resistevano a tali domande, proponendo anzitutto una eccezione di difetto di giurisdizione del giudizio ordinario e opponendosi poi a tutte le conclusioni della attrice.

Con sentenza parziale in data 1 marzo 1963 il Tribunale dichiarava la giurisdizione del giudice ordinario e la conseguente propria competenza, ritenendo la questione di legittimità costituzionale pregiudiziale al merito; con separata ordinanza di pari data esso proponeva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge 2 luglio 1952, n. 703, in relazione agli artt. 3, 23 e 120 della Costituzione, sospendendo il giudizio in corso ed ordinando la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione di legittimità.

Nei riguardi della norma che aveva istituito il "diritto speciale" sulle acque da tavola minerali e naturali il Tribunale osservava che essa é sicuramente lacunosa e viola uno dei principi fondamentali, ai quali deve informarsi la norma tributaria, perché la lacuna riguarda i criteri, i limiti e i mezzi idonei all'accertamento; definiva il "diritto speciale" come un tributo locale, avente le caratteristiche della imposta reale diretta sui redditi di capitale puro, e riteneva pertanto impossibile una assimilazione di esso alle imposte di consumo e conseguentemente l'applicazione analogica al primo delle disposizioni dettate per le seconde.

Considerava infondata e anche non rilevante la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22 del T.U. per la finanza locale in relazione all'art. 24 della Costituzione.

L'ordinanza era regolarmente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati. Essa é stata poi pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 6 aprile 1963, n. 94.

Davanti a questa Corte si sono costituiti il Presidente del Consiglio dei Ministri, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, la Società "Terme di San Pellegrino", difesa dall'avv. Mario Cassola, e il Comune di San Pellegrino, difeso dagli avvocati Carlo Majno e Arturo Carlo Jemolo. Tutti hanno depositato nei termini le proprie deduzioni e memorie.

La difesa della Società, nelle proprie deduzioni, illustra le argomentazioni contenute nell'ordinanza del Tribunale e deduce l'incompiutezza legislativa dell'intero rapporto di imposta, nonché le disparità di trattamento conseguenti in pratica all'applicazione del tributo. Sostiene poi che questo, riguardando prodotti esportati dal Comune di origine, viene a violare il divieto posto dall'art. 120 della Costituzione, da ritenere valido non solo per le Regioni, ma anche per le Province e per i Comuni. Si richiama infine alla giurisprudenza della Corte costituzionale per sostenere che i criteri indicati dal Ministero delle finanze con le sue circolari e seguiti dal Comune non corrispondono ai principi definiti dalla Corte.

La difesa del Comune, che contesta fra l'altro anche la invocabilità delle norme contenute negli artt. 3 e 120, nonché la forma con la quale esse sono state richiamate nell'ordinanza del Tribunale, sostiene che le lacune rilevate da questo non sussistono, o sono facilmente colmabili data la inclusione del "diritto speciale" fra le "imposte stabilite sul valore", di cui parla il testo vigente dell'art. 22 del T.U. sulla finanza locale, così che le istruzioni ministeriali risolvono legittimamente i dubbi sollevati in merito.

A conclusioni analoghe perviene nelle proprie deduzioni l'Avvocatura generale dello Stato, dopo un'ampia esposizione della storia della legislazione sull'argomento e della letteratura giuridica in tema di imposte di consumo, fra le quali si dovrebbe includere, o alle quali dovrebbe comunque essere assimilato, secondo le direttive ministeriali, il "diritto speciale" in questione.

Nelle memorie, depositate tutte successivamente alla pubblicazione della sentenza 18 giugno 1963, n. 93, della Corte costituzionale, le parti hanno tenuto conto naturalmente degli insegnamenti della Corte, di modo che l'oggetto della discussione é venuto a limitarsi considerevolmente.

La difesa della Società si é impegnata in particolar modo a dimostrare "due proposizioni, non adeguatamente agitate in precedenza", e cioè che l'errore di apprezzamento del valore imponibile si sottrarrebbe, secondo la ormai ultradecennale applicazione in concreto dell'art. 6, ad ogni possibile censura del contribuente, e che, per mezzo degli "incontrollati e incontrollabili errori di apprezzamento", l'aliquota del 3 per cento verrebbe di fatto ad essere aumentata ad arbitrio dell'ente impositore.

Essa rileva che la determinazione del valore é stata demandata dalle circolari ministeriali ad organi collegiali provinciali, nei quali sono rappresentati i Comuni della Provincia, ma non i contribuenti; che la delibera di tali commissioni provinciali può essere impugnata, "nel caso di determinazione di valori non corrispondenti alla realtà di mercato", soltanto dal Comune, e non mai dal contribuente, neppure in via gerarchica (art. 22, ultimo comma); che le deliberazioni del Comune sono impugnabili davanti al Consiglio di Stato solo per motivi di legittimità, e non anche di merito; che, per giurisprudenza costante e autorevole, il contribuente non può ricorrere nemmeno alle Commissioni tributarie previste dall'art. 278 del T.U. della finanza locale; che non esistono neppure regolamenti comunali in materia, né sembra esperibile il ricorso alla tutela giurisdizionale ordinaria per questioni di estimazione semplice.

Sul secondo punto la difesa della Società richiama le divergenze che esisterebbero da Provincia a Provincia nell'apprezzamento della misura del valore delle acque alla sorgente, insistendo sul fatto che l'applicazione di un criterio di apprezzamento erroneo renderebbe inoperante quel limite massimo del 3 per cento stabilito dalla legge a garanzia dei contribuenti.

La difesa del Comune contesta nella sua memoria che le critiche della Società abbiano a che vedere con la costituzionalità della norma, mentre, se fondate, aprirebbero l'adito alla possibilità di rimedi in tutt'altra sede; richiama gli insegnamenti contenuti in alcune decisioni del Consiglio di Stato a proposito della interpretazione dell'art. 6 della legge del 1952 e dell'art. 22 del T.U. più volte ricordato; riconnette il regolamento del modo di determinazione del valore al sistema delle norme più generali in materia.

L'Avvocatura generale dello Stato osserva nella propria memoria che la censura di illegittimità costituzionale della norma denunciata in relazione all'art. 23 della Costituzione dovrebbe essere considerata preclusa dalla sentenza n. 93 della Corte; in quanto a quelle che fanno richiamo agli artt. 3 e 120, esse non sarebbero fondate perché nella specie non verrebbe minimamente in questione il principio della eguaglianza dei cittadini, né potrebbe riferirsi ai Comuni un limite dettato esclusivamente per le Regioni. Verrebbe comunque a cadere ogni possibile censura per quanto riguarda la "sperequazione tributaria", così come prospettata nell'ordinanza del Tribunale.

All'udienza i difensori hanno ampiamente illustrato oralmente le tesi esposte nelle deduzioni e nelle memorie.

 

Considerato in diritto

 

L'ampio dibattito svoltosi fra i difensori delle parti nelle deduzioni e nelle memorie e poi nella discussione all'udienza ed il conseguente riesame compiuto dalla Corte di tutte le questioni prospettate non sono valsi ad indurre questa a modificare il giudizio emesso sulle questioni risolte con la precedente sentenza 18 giugno 1963, n. 93, alla cui motivazione deve farsi pertanto riferimento.

I dati di fatto esposti dalla difesa della Società "Terme di San Pellegrino", e non contestati dalle parti avversarie, hanno indubbiamente messo in luce talune notevoli diversità nei metodi adottati dai vari Comuni nella applicazione del tributo, per quanto concerne la determinazione del valore delle acque asportate dal territorio dell'uno o dell'altro Comune. Le differenze nella determinazione del valore delle acque asportate compiuta dalle Commissioni provinciali rispetto ai diversi Comuni, che si ripercuotono sulla misura dei tributi versati dai contribuenti dell'uno o dell'altro di questi, pur rimanendo contenuta entro il limite massimo del 3 per cento l'aliquota del tributo, sono risultate effettivamente notevoli. Si tratta però di un inconveniente che, come ha già rilevato la Corte nella sentenza sopra ricordata, non viola il precetto contenuto nell'art. 23 della Costituzione, dovendosi considerare soddisfatto il principio, che esige una sufficiente specificazione legislativa dei poteri di imposizione tributaria conferiti all'autorità amministrativa, attraverso la fissazione, nella legge, di un limite massimo in misura non elevata.

Né sembra sostenibile la tesi della violazione dell'art. 120 della Costituzione, affacciata per la prima volta nella ordinanza del Tribunale di Bergamo, ma sulla quale la difesa del contribuente non ha insistito particolarmente, poiché quella norma costituzionale pone esclusivamente limiti alla potestà legislativa delle Regioni, né consente una estensione analogica che la renda applicabile a provvedimenti in materia tributaria di competenza dei Comuni.

La difesa stessa si é invece diffusa ampiamente nel sostenere la tesi che la legge non prevederebbe alcuna possibilità di riesame delle determinazioni compiute dalle Commissioni provinciali, su ricorso del contribuente, consentendo solamente al Comune la facoltà di ricorrere al Ministro delle finanze nel caso di determinazione di valori non corrispondenti alla realtà di mercato, a norma dell'ultimo comma dell'art. 22 del T.U. della finanza locale; e, a questo proposito, ha menzionato un decreto 10 giugno 1959, n. 3-A-6454, del Ministro stesso, che dichiarò inammissibile un ricorso 21 gennaio 1959 della Società "Terme di San Pellegrino". Ha insistito poi, nel corso della discussione orale, sul punto che la disposizione citata contiene una esplicita ammissione della possibilità di errori di valutazione da parte delle Commissioni provinciali, errori considerati dal legislatore tali da richiedere una correzione, seppure soltanto per iniziativa del Comune e non del contribuente, in conseguenza della mancanza di una disposizione esplicita in materia.

La Corte ha peraltro già affermato esplicitamente, nella sentenza sopra ricordata, che "la mancanza di disposizioni particolari, e la inapplicabilità della disciplina relativa ad altri tributi, non farebbe venir meno comunque, in ordine al tributo de quo, la garanzia della tutela giurisdizionale assicurata dall'art. 113 della Costituzione".

Il principio enunciato in questa norma, secondo la quale "contro gli atti della pubblica Amministrazione é sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa" e "tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti", é applicabile ad ogni caso in cui un cittadino si ritenga leso da un atto amministrativo, senza che occorra una speciale ed espressa disposizione di attuazione, anche in virtù della completezza dell'ordinamento.

Si potrà discutere sulla individuazione dell'organo giurisdizionale, ordinario od amministrativo, competente nell'uno o nell'altro caso, ovvero sulla rilevabilità di un denunciato vizio di violazione di legge o di eccesso di potere e, in particolare, sulla estensibilità ai casi come quelli discussi delle garanzie giurisdizionali previste per altri tributi, quali - ad esempio - le imposte di consumo (questioni tutte, la cui soluzione non rientra però evidentemente nella competenza della Corte costituzionale); ma per il chiaro dettato dell'art. 113 citato non si può dubitare che l'ordinamento giuridico consenta che alcun diritto o interesse legittimo possa restare privo della tutela giurisdizionale garantita dalla Costituzione;

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione, sollevata dall'ordinanza indicata in epigrafe, della legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge 2 luglio 1952, n. 703, in relazione agli artt. 3, 23 e 120 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 1964.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 1964.