SENTENZA
N. 33
ANNO
1960
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori
Giudici:
Dott. GAETANO
AZZARITI, Presidente
Avv. GIUSEPPE CAPPI
Prof. TOMASO PERASSI
Prof. GASPARE
AMBROSINI
Prof. ERNESTO
BATTAGLINI
Dott. MARIO COSATTI
Prof. FRANCESCO
PANTALEO GABRIELI
Prof. GIUSEPPE
CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO
PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI
CASSANDRO
Prof. BIAGIO
PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell'art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, promosso
con ordinanza emessa il 12 giugno 1959 dal Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, Sezione IV, su ricorso di Oliva Rosa contro il Ministero
dell'interno, iscritta al n. 125 del Registro ordinanze 1959 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 307 del 19 dicembre 1959.
Vista la
dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza
pubblica del 6 aprile 1960 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;
uditi l'avv.
Costantino Mortati, per Oliva Rosa, e il sostituto avvocato generale dello
Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e il
Ministro dell'interno.
Ritenuto
in fatto
1. - Nel corso di un
giudizio davanti al Consiglio di Stato su ricorso della dottoressa Rosa Oliva
contro il Ministero dell'interno, fu sollevata questione di legittimità
costituzionale della norma contenuta nell'art. 4 del R.D. 4 gennaio 1920, n.
39, nonché dell'art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, sul quale quella
norma si fonda. L'illegittimità di questi articoli sarebbe derivata dal
contrasto in cui essi si trovano con l'art. 3, primo comma e l'art. 51, primo
comma, della Costituzione, dato che la potestà che l'art. 51 conferisce al
legislatore di determinare i requisiti per l'ammissione agli uffici pubblici
non si riferirebbe al requisito del sesso. La violazione dell'art. 51 si
sarebbe avuta anche nel caso in cui si potesse interpretare la norma contenuta
in quest'articolo come quella che consente di considerare il sesso come ragione
di differente capacità, stante che una limitazione siffatta non potrebbe essere
contenuta in una norma priva di efficacia formale di legge come quella di un
regolamento.
Il Consiglio di Stato
ha precisato la questione di costituzionalità, limitandola alla norma dell'art.
7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, e più esattamente alla parte che esclude
le donne dagli impieghi pubblici "che implicano... l'esercizio di diritti
e di potestà politiche... secondo la specificazione che sarà fatta con apposito
regolamento", ritenendo che non é certo risponda alla volontà della
Costituzione "l'aver affidato al potere normativo del Governo, e per di
più con ampia discrezionalità, la determinazione degli impieghi pubblici non
accessibili ai cittadini di sesso femminile". Così specificata, il
Consiglio di Stato ha ritenuto la questione non manifestamente infondata e tale
che il giudizio non potesse essere definito indipendentemente dalla sua
risoluzione e in conseguenza, con ordinanza emessa il 12 giugno 1959, ha sospeso
il procedimento e trasmesso gli atti a questa Corte.
L'ordinanza
notificata alle parti in causa, al Presidente del Consiglio dei Ministri e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, é stata pubblicata
per disposizione del Presidente della Corte sulla Gazzetta Ufficiale del 19
dicembre 1959, n. 307.
2. - Nel giudizio si
é costituita la dottoressa Rosa Oliva, rappresentata e difesa dall'avv.
Costantino Mortati, depositando le sue deduzioni l'8 gennaio 1960. La tesi
della difesa della dottoressa Oliva é la seguente. La norma contenuta nell'art.
51, primo comma, della Costituzione, pone una "riserva assoluta" di
legge. Lo si dovrebbe dedurre già dalla stessa dizione letterale -
"secondo i requisiti stabiliti dalla legge" -, che non potrebbe avere
alcun altro significato se non dell'attribuzione al legislatore del potere -
dovere di disporre esso soltanto "in ordine ai requisiti stessi". Ma
se ne avrebbe la riprova considerando la formulazione diversa dell'art. 97
della Costituzione che impone di provvedere all'organizzazione dei pubblici
uffici "secondo disposizioni di legge", con che risulterebbe chiara
la volontà del legislatore di differenziare la forma necessaria per la
disciplina dei requisiti di ammissione ai pubblici uffici da quella richiesta
per l'organizzazione degli uffici.
Da ciò discenderebbe
il divieto per il legislatore di rimettere ad una qualsiasi fonte secondaria
anche soltanto parte della disciplina della materia e l'illegittimità dell'art.
7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che ha rinviato ad apposito regolamento,
con una formula generica che non potrebbe valere neppure quale determinazione
dei criteri direttivi richiesta per la "riserva relativa" di legge,
la specificazione degli impieghi i quali implichino l'esercizio di diritti e
potestà politiche.
Né potrebbe opporsi a
questa conclusione che la Costituzione sopravvenuta non può determinare vizi
formali di norme anteriori, dato che l'eccezione sollevata tende al rispetto
non già di una norma di procedimento ma di una sostanziale quale é quella che
vuole tutelare i diritti fondamentali del cittadino condizionandone ogni limite
all'intervento diretto ed esclusivo del legislatore.
3. - Nel giudizio si
é costituito il Ministro dell'interno ed é intervenuto il Presidente del
Consiglio dei Ministri, entrambi rappresentanti e difesi dall'Avvocatura dello
Stato, depositando le proprie deduzioni il 30 novembre 1959.
L'Avvocatura dello
Stato, premesso che la sola questione di costituzionalità é quella dell'art. 7
della legge 17 luglio 1919, n. 1176, "sotto il profilo delle concrete
modalità di attuazione od esplicazione della riserva legislativa"
dell'art. 51 della Costituzione, sostiene che la questione sarebbe palesemente
infondata sotto un duplice profilo: preliminare e di merito.
In via preliminare,
infatti, la proposta questione di legittimità sarebbe infondata perché al
momento dell'emanazione della legge del 1919 non esisteva riserva di legge,
posta poi dall'art. 51 della Costituzione. Non si potrebbe pertanto imputare alla
legge la trasgressione di una norma che "all'epoca non esisteva". E
quando anche la norma dell'art. 7, che conferisce una delega di poteri
all'esecutivo, fosse da ritenere attualmente illegittima, "il regolamento
emesso in base a tale delega sarebbe da considerare pur sempre valido".
Più specificamente,
sostiene l'Avvocatura che la riserva di legge altro non sarebbe se non una
norma di ripartizione di competenze tra i due poteri (legislativo ed esecutivo)
ai quali nel nostro ordinamento é attribuita la produzione delle norme
giuridiche, e, come tale, sarebbe efficace per il nuovo ordinamento introdotto
dalla Costituzione, ma non potrebbe invalidare un atto posto legittimamente in
base a una diversa ripartizione di competenza esistente al momento della produzione
dell'atto stesso.
Comunque, la
questione sarebbe infondata pure se si superasse questo profilo preliminare,
dato che il precetto costituzionale dell'art. 51 sarebbe rispettato egualmente
se il legislatore considerasse e regolasse il sesso come un requisito,
rimettendo al potere esecutivo le modalità di applicazione. E questo sarebbe
appunto il caso della norma impugnata che avrebbe posto in via generale
categorie di impieghi inibiti alle donne, demandando al potere esecutivo
soltanto la specificazione di codeste categorie, tanto più che questa
specificazione sarebbe stata compiuta nel regolamento col rispetto dei limiti
espressamente segnati dalla legge.
4. - In una memoria
depositata il 24 marzo di questo anno la difesa della dottoressa Oliva, a illustrazione
della sua tesi difensiva, sostiene che l'esistenza di una riserva assoluta o di
legge si ricava in generale dal concorso di due elementi, quello della forma
nel quale essa viene espressa e l'altro della materia alla quale essa si
riferisce e che deve essere relativa ai valori fondamentali ai quali la
Costituzione si ispira, e, più precisamente, ai diritti che essa proclama
inviolabili. Orbene, nel caso in questione, che é quello della norma contenuta
nell'art. 51 della Costituzione, con - corrono tutte e due questi elementi:
quello formale - "requisiti stabiliti dalla legge" -, e quello
sostanziale, che é dato dalla natura del diritto che il precetto costituzionale
vuole regolato, il quale rientra tra quelli da considerare fondamentali
"perché con - feriscono la caratteristica allo Stato democratico". Il
riaffermato carattere di riserva di legge che sarebbe del caso presente
potrebbe consentire al massimo l'intervento della fonte secondaria soltanto per
la specificazione di dettagli, che implichi l'esercizio di una discrezionalità
tecnica, non di una discrezionalità amministrativa, e rende di conseguenza
illegittima la norma dell'art. 7 della legge 1919, n. 1176, che é ben lungi dal
porre limiti concreti e insuperabili alla normazione affidata all'Amministazione.
Quanto poi alla tesi
dell'Avvocatura, secondo la quale la riserva di legge non potrebbe essere fatta
valere nei confronti delle norme emanate prima dell'entrata in vigore della
Costituzione, la difesa della dottoressa Oliva obietta:
1) che tale riserva
era già nella Costituzione albertina, proclamata solennemente nell'art. 24,
anche se era consentito al legislatore di affidare al regolamento esecutivo di
disporre anche praeter legem;
2) che la riserva di
legge non si risolve sempre in una semplice norma di competenza, ma che assume
valore di principio sostanziale e deve sempre seguire la sorte delle norme
sostanziali, tutte le volte in cui, come nel caso, essa é imposta quale
condizione per poter limitare validamente la sfera dei diritti fondamentali
riconosciuti ai cittadini dalla Costituzione e dichiarati
"inviolabili";
3) che ad ogni modo
la Corte in due sentenze (n. 4 e n. 47 del 1957)
avrebbe già ammesso il principio dell'efficacia della riserva di legge nei
confronti di norme emanate anteriormente alla Costituzione.
5. - In una memoria
depositata anch'essa il 24 marzo di quest'anno l'Avvocatura dello Stato
riprende e svolge le sue tesi e quella, preliminare, della non applicabilità
del precetto dell'art. 51 alle norme anteriori alla Costituzione e l'altra, di
merito, della costituzionalità della norma impugnata, si tratti di riserva di
legge, assoluta o relativa.
In particolare
l'Avvocatura sostiene che anche quando la norma dell'art. 51 avesse efficacia
sulle norme anteriori alla Costituzione non ne conseguirebbe la caducazione del
regolamento, per il motivo che nell'ordinamento precedente, nel caso di
abrogazione della norma di autorizzazione, veniva a cessare la potestà che la
norma stessa riconosceva al potere esecutivo, non già il regolamento emanato
sul fondamento di questa medesima potestà. La caducazione del regolamento
discenderebbe dalla illegittimità costituzionale della norma che l'ha previsto,
soltanto nel caso di illegittimità costituzionale sostanziale conseguente
all'entrata in vigore della Costituzione. Ma non sarebbe il caso dell'art. 7 della
legge 1919, dato che la Costituzione, come del resto avrebbe già affermato
questa Corte, con la sentenza
n. 56 del 1958, non avrebbe inibito al legislatore di stabilire con
riferimento al sesso esclusioni da impieghi e funzioni pubbliche. Dal che
l'Avvocatura trae la conseguenza che la questione di legittimità dell'art. 7 si
verrebbe sostanzialmente a ridurre alla questione di legittimità del
regolamento del 1920 e come tale sarebbe manifestamente inammissibile. Infine,
e, come asserisce, "per compiutezza di difesa", l'Avvocatura dello
Stato sostiene che l'esclusione delle donne dalla carriera dell'Amministrazione
dell'interno sarebbe pienamente giustificata sia alla stregua delle categorie
fissate nell'art. 7 della legge del 1919, sia in base ad una valutazione delle
differenti attitudini delle persone dei due sessi quale potrebbe essere
compiuta dal legislatore anche oggi in base ai principi fissati nella sentenza
n. 56 di questa Corte.
6. - Nell'udienza del
6 aprile 1960 le parti hanno confermato le loro tesi e insistito nelle
conclusioni già prese.
Considerato
in diritto
1. - Nell'ordinanza
la questione di costituzionalità sembra prospettata principalmente, se non
esclusivamente, sotto un profilo particolare: quello, cioè, secondo il quale la
norma contenuta nell'art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, si porrebbe in
contrasto col precetto del primo comma dell'art. 51 della Costituzione, per il
fatto che attribuisce al regolamento la potestà di specificare gli impieghi
pubblici che implicano l'esercizio di diritti e di potestà politiche,
l'ammissione ai quali é preclusa alle donne. E anche le parti hanno trattato
prevalentemente questo punto e negli scritti difensivi e nella discussione
orale.
Senonché la Corte non
può non osservare che la norma impugnata dispone in primo luogo l'esclusione
delle donne da tutti i pubblici uffici che comportano l'esercizio di diritti e
potestà politiche, riservando alla legge di determinare i casi eccezionali di
ammissione delle donne a taluno di essi, e, viceversa, al regolamento di
specificare quali siano quelli ricompresi nella categoria generale: una riserva
che inerisce strettamente al precetto principale posto dalla norma e che ha
senso appunto in ragione di questo legame. La Corte deve pertanto portare il
suo esame sulla norma tutt'intera, così, del resto, come l'ordinanza stessa
l'ha enucleata dall'art. 7, non già soltanto su una sua parte. Ora, non può
essere dubbio che una norma che consiste nello escludere le donne in via
generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata
incostituzionale per l'irrimediabile contrasto in cui si pone con l'art. 51, il
quale proclama l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli
appartenenti all'uno e all'altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo
principio é stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di
sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di
discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso
degli appartenenti all'uno o all'altro sesso davanti alla legge. Una norma che
questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello
posto dall'art. 3, del quale la norma dell'art. 51 é non soltanto una
specificazione, ma anche una conferma.
2. - Senonché,
l'Avvocatura dello Stato ritiene che la Corte abbia dato dell'art. 51
un'interpretazione che consentirebbe al legislatore di stabilire esclusioni o
ammissioni a pubblici uffici, muovendo dall'appartenenza all'uno o all'altro
sesso di coloro che aspirano ad accedervi. Ma non é questa, così genericamente
definita, la portata della sentenza n. 56 del 26
settembre 1958. L'art. 51 o, più esattamente, l'inciso "secondo i
requisiti stabiliti dalla legge" non sta punto a significare che il
legislatore ordinario possa, senza limiti alla sua discrezionalità, dettare
norme attinenti al requisito del sesso, ma vuol dire soltanto che il
legislatore può assumere, in casi determinati e senza infrangere il principio
fondamentale dell'eguaglianza, l'appartenenza all'uno o all'altro sesso come
requisito attitudinario, come condizione, cioè, che faccia presumere, senza
bisogno di ulteriori prove, l'idoneità degli appartenenti a un sesso a
ricoprire questo o quell'ufficio pubblico: un'idoneità che manca agli
appartenenti all'altro sesso o é in possesso di costoro in misura minore, tale
da far ritenere che, in conseguenza di codesta mancanza, l'efficace e regolare
svolgimento dell'attività pubblica ne debba soffrire. Ora che questo non sia il
caso della norma impugnata é di tutta evidenza. In essa, infatti, il sesso
femminile é assunto come tale a fondamento di incapacità o di minore capacità, non
già a requisito di idoneità attitudinale, per una categoria amplissima di
pubblici uffici (e, ch'é più, di incerta definizione e, in conseguenza, di
vaghi confini), in via di regola, non già in via di eccezione e con riferimento
concreto a particolari situazioni, ponendosi, anzi, in via d'eccezione e con
rinvio alla legge, il caso di ammissione delle donne a taluno degli uffici
ricompresi nella categoria generale di esclusione. La sua illegittimità
costituzionale é pertanto evidente al lume della giurisprudenza di questa
Corte.
Con che, peraltro, si
é anche detto come il legislatore possa intervenire a regolare l'ammissione ai
pubblici impieghi in ragione dell'appartenenza all'uno o all'altro sesso, per
dare all'intera materia la necessaria disciplina richiesta dal sopravvenuto
precetto costituzionale.
3. - Stando così le
cose, la questione intorno alla quale si sono affaticate le parti, perde ogni
rilievo nel presente giudizio. Poco importa, infatti, ricercare la legittimità
di una disposizione che attribuisce al potere regolamentare la potestà di
elencare gli uffici che "implichino l'esercizio di diritti e di potestà
politiche" e che pertanto respingono da sé le donne, quando é in primo
luogo illegittima la norma, della quale quella disposizione é parte
inscindibile, che esclude le donne da quella categoria di uffici pubblici e in
ragione di siffatta esclusione. E poco importa, in conseguenza, esaminare il
quesito proposto dalla difesa della dottoressa Oliva se e come una norma di
procedimento o una norma attributiva di competenze possa assumere il valore e
l'efficacia di una norma sostanziale e, in quanto tale, spiegare i suoi effetti
anche in confronto di norme anteriori all'entrata in vigore della Costituzione.
Né, infine, la Corte può pronunciarsi sull'altro quesito - proposto
dall'Avvocatura dello Stato -, che é della validità di un regolamento emanato
in base a una norma promulgata prima dell'entrata in vigore della Costituzione
e poi dichiarata illegittima, quesito che é di competenza del giudice amministrativo.
PER
QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l'illegittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 7 della legge 17
luglio 1919, n. 1176, che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che
implicano l'esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento
all'art. 51, primo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 maggio
1960.
Gaetano AZZARITI -
Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI -
Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO -
Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI -
Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA.
Depositata in
Cancelleria il 18 maggio 1960.