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DOMENICO CHIRICO

“TECNICA” E “POLITICA” NELLE DINAMICHE INTER-ORDINAMENTALI

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Rassegna dei problemi che giustificano il tentativo di un chiarimento concettuale. – 3. Metodo. – 4. Tecnica e politica, mezzi e fini. – 5. Politica, tecnica, interessi. – 6. Quadro costituzionale e dinamiche istituzionali. – 7. La dinamica istituzionale degli interessi in un sistema ad alto grado di complessità. – 8. Politica e tecnica tra interessi ed economia. – 9. La prospettiva comunitaria dell’ordinamento interno. – 10. Conclusioni.

 

1. Premessa

La lettura delle vicende che si snodano lungo le coordinate rappresentate dal processo di unificazione europea e dai tentativi di “aggiornamento” del quadro istituzionale e costituzionale in particolare, rappresenta un terreno molto fertile per ogni analisi dell’ordinamento giuridico nella fase attuale.

La realtà giuridica[1] che si osserva potrebbe rappresentarsi come il tentativo di adeguare l’ordinamento interno alle trasformazioni dell’ordinamento comunitario, se si assume che il principio del movimento si avvii da questo livello, con ciò implicitamente collocando sullo sfondo la matrice statuale degli assetti istituzionali e dei meccanismi decisionali di livello comunitario[2].

Ciò dovrebbe evidenziare una sorta di “circolarità” nell’innesco dei meccanismi di trasformazione, leggendo per intero i quali, una analisi rigorosa condurrebbe a più di un dubbio destinato ad investire quanto prefigurato da tutte le teorie sulla fine dello stato (e del diritto) nazionale[3], per “svelare”, all’opposto, una sorta di crescita ipertrofica dei poteri di natura statuale, ma di scala regional-comunitaria[4].

La stessa realtà giuridica può anche essere reciprocamente letta come il tentativo di modernizzare un assetto istituzionale[5] ritenuto (a torto o a ragione) non più idoneo a regolare il complessivo ordine sociale ed economico, poiché connotato da caratteri strutturali e funzionali (suppostamente) non più rispondenti alle esigenze di una “democrazia di mercato”, come quella che prefigurano convergentemente il diritto comunitario e una stratificazione normativa nazionale preordinata allo smantellamento di ogni potere pubblico di indirizzo in ambito economico e monetario, nel più ampio quadro del contenimento/riduzione dell’area pubblica[6]: da intendersi, quest’ultima, sia come dismissione dei profili proprietari (privatizzazioni)[7]; sia come eliminazione dei processi decisionali soggettivamente pubblicistici, in funzione di indirizzo[8]; sia, ancora, come ridefinizione della estensione del principio di legalità a vantaggio del ruolo cardine del diritto soggettivo (naturale)[9].

Ciò che sembra manifestarsi con le modalità accennate, può essere rappresentata, in sostanza, come una forma specifica della più generale antitesi tra democratizzazione e modernizzazione[10], segnando una inversione logico-analitica tra termini concettuali che, almeno sino alla metà degli anni novanta, apparivano composti in una diade consonante.

Democrazia e modernità filtrano e si scompongono nel rapporto tra norma e tecnica, tra regola e regolato, tra diritto ed economia[11].

Se si conviene di non restringere l’arco analitico alle dinamiche contingenti, schiacciate tra il rallentare del processo costituente europeo e il sostanziale fallimento di ogni ipotesi di riforma organica della vigente costituzione repubblicana[12] e troppo segnate da strumentali apparati argomentativi per poter consentire una analisi metodologicamente coerente, allora appare possibile concentrare l’attenzione – con la cautela del caso – su una ipotesi di lavoro di cui si intende anticipare alcune possibili linee e che potrebbe essere sintetizzata nella forma correntemente assunta del rapporto tra “politica” e “tecnica”.

La natura trasversale di questa tematizzazione offre la possibilità di riflettere, da una angolatura che appare non consueta, sulle tendenze in atto nella trasformazione della organizzazione del potere, del diritto e dello stato, alla luce della vigente costituzione.

 

2. Rassegna dei problemi che giustificano il tentativo di un chiarimento concettuale

In questa prospettiva, per convalidare con dati storico-analitici tale asse tematico, è possibile muovere dalla osservazione della natura ideologica[13], di portata antidemocratica, di quelle argomentazioni che utilizzano il criterio dell’efficienza decisionale (rapidità di reazione ad una azione) e, in parallelo, mostrano i supposti limiti degli assetti istituzionali di matrice rappresentativa, per sostenere soluzioni di tipo gerarchico e riduzionista[14].

Le riflessioni in tema di enti paralleli (come affermazione dell’autonomia del “tecnico”)[15] e sulla discrezionalità amministrativa[16]; la conseguente constatazione dell’incremento della operatività delle regole tecniche, che segnerebbe la fine della discrezionalità[17]; l’applicazione del principio di proporzionalità (che è principio tecnico) al rapporto tra mezzi e fini, come versione ristretta della teoria del bilanciamento dei valori[18]; la qualificazione del potere regolamentare come espressione tecnica nella attuazione della legge; il mutato contenuto della legge medesima, come forma della decisione generale e astratta, più frequentemente definito da provvedimenti materialmente circoscritti, in connessione con il relativo mutamento di ruolo assegnato al parlamento, rispetto al centro propulsore della funzione di indirizzo, sempre più identificato nel governo; per altro verso, la riduzione dell’ambito di operatività della legge, per effetto di strategie di delegificazione, che trasferiscono al potere regolamentare e alla sua fonte principale (l’esecutivo) la regolamentazione di ambiti crescenti di situazioni e rapporti giuridici; l’indebolimento che ne deriva del generale principio di certezza del diritto e del principio di legalità che lo fonda: tutto ciò impone, da un lato, la necessità stessa di riflettere sui caratteri specifici di regole giuridiche e regole tecniche[19]; dall’altro - ed è ciò che qui si intende affrontare -, suggerisce di rileggere questi temi alla luce delle modalità secondo cui il rapporto tra politica e tecnica è ricostruibile all’interno del quadro costituzionale vigente[20].

Dello stesso segno sono da ritenersi quelle analisi ancorate alla presunta neutralità delle decisioni tecniche, in particolare quando si sostenga (apoditticamente) la natura tecnica di decisioni direttamente o indirettamente a contenuto economico.

Una rapida (e, certamente, incompleta) rassegna delle questioni connotate dai caratteri sopra accennati può aiutare a focalizzare meglio l’ambito della tematizzazione proposta, anche su questo versante.

Tutta la materia degli enti pubblici economici, incentrata, tra l’altro, sul tipo di autonomia dell’ente (e delle società operative) in relazione al rapporto col potere di indirizzo, e che la letteratura giuridica ha analizzato lungo il crinale della qualificazione del potere di direttiva, arricchita sistematicamente con i contributi della “Commissione Chiarelli” e con il Rapporto “De Michelis”; la distinzione tra titolarità e gestione nel modello concessorio; il ruolo oggi assegnato alle autorità amministrative indipendenti, con le incertezze relative alla loro qualificazione giuridica[21]; la distinzione tra indirizzo e gestione come declinazione a livello amministrativo del rapporto tra potere tecnico e potere politico[22]; le regole del commercio internazionale (OMC); tutta la vicenda della riforma dell’ordinamento bancario dei primi anni novanta[23], che può essere letta in connessione al nuovo ruolo assegnato alle Banche centrali nazionali nel sistema di banche centrali, nella prospettiva della moneta unica, in forza del quale si registrerebbe la “dismissione” (formale e sostanziale) del potere monetario nazionale, affidato ad un organo tecnico comunitario indipendente[24].

La sommaria rassegna dei problemi sopra richiamati sembra, così, giustificare e richiedere il tentativo di un chiarimento concettuale, se si ritiene non pacificamente accettabile l’argomentazione della fungibilità delle tecniche (ossia dei mezzi) in relazione ai fini (politica), in presenza di una costituzione programmatica come quella vigente.

Invero, siffatta argomentazione assegnerebbe alla tecnica una primazia in funzione della quale amplissimi settori dell’ordinamento risulterebbero materialmente sottratti al controllo delle istituzioni rappresentative democratiche.

La proiezione estrema di questo processo prospetterebbe un ruolo oggettivamente eversivo della democrazia, almeno nella misura in cui rappresenta il fallimento (o la delegittimazione) della politica o della capacità della politica di vincolare e indirizzare l’azione tecnica: poiché a ogni prevalere della tecnica, aree crescenti di decisioni collettive sarebbero sottratte ad organi democratici e si ridurrebbe conseguentemente il grado di democrazia dell’ordinamento – misurabile con il criterio della riferibilità delle decisioni ad organi assembleari rappresentativi.

L’idea che sorregge questa ipotesi tematica muove esplicitamente dalla considerazione che tutta l’organizzazione istituzionale del potere (sociale) debba essere informata ai valori e ai criteri organizzativi fissati nella costituzione repubblicana, a tutti i livelli in cui alla collettività sono riconducibili gli effetti delle decisioni dei poteri pubblici e privati, (anche nell’ottica del multilevel costituzionalism)[25], se si concorda che, anche per queste ragioni, non sia ammissibile paragonare il ruolo del parlamento a quello di una mera assemblea degli azionisti; o se non si ritenga accettabile che il presidente del consiglio sia l’amministratore delegato di un consiglio di amministrazione di una società commerciale, per la quale la collettività sia semplicemente un mercato potenziale di consumatori-clienti.

 

3. Metodo

In presenza dei dati della realtà giuridica sopra richiamati come elementi di un possibile asse analitico, la ricostruzione del rapporto tra tecnica e politica, nel quadro delle complessive dinamiche istituzionali, impone, in termini generali sul piano metodologico, una qualificazione dei contenuti e dell'uso di concetti storicamente determinati - sebbene utilizzabili come sinteticamente operanti in ogni ordinamento, e perciò “universali” con una operazione di “astrazione” decontestualizzante - come “tecnica” e “politica”, la cui matrice culturale e scientifica, come è noto, sfugge ad un tentativo di sistematizzazione, che utilizzi una chiave di accesso ed un approccio unilateralmente giuridico-dogmatico.   

Il contributo scientifico che discipline di matrice sociologica[26], economicistica e politologica possono, infatti, offrire con le recenti indagini in tema di organizzazione dei sistemi, procedure di decisione pubblica e collettiva e analisi del rapporto tra decisione, razionalità, consenso[27] e compatibilità (finanziaria) delle decisioni collettive (pubbliche e private)[28], consente una dilatazione qualitativa dell'analisi anche in campo giuridico, ove non si accolga pregiudizialmente la definizione del contenuto scientifico di un campo di indagine in funzione della sua separazione da campi materialmente contigui di ricerca.

Diversamente, infatti, si può assumere la specificità degli strumenti giuridici di indagine più pienamente operante col contributo di campi del sapere autonomi, distinti, ma non separabili sotto la spinta del timore di inquinamenti di natura politologica o sociologica o economicistica: tenendo sempre in chiara considerazione come l’esito possibile di un tale approccio metodologico sia quello di una ricostruzione che, nel tentativo di sviluppare le potenzialità di un taglio interdisciplinare, per così dire “prismatico”, degradi verso uno sterile descrittivismo, che nulla aggiunge qualitativamente ad una lettura realistica - nel senso romaniano del termine[29] - dei processi socio-istituzionali in atto.

Una tale linea metodologica, ponendosi in alternativa agli specialismi e alle settorializzazioni indotte dalla divisione del lavoro scientifico non accompagnato da una riflessione unitaria, consente di assumere punti - in astratto, radicalmente simmetrici, ma “oggettualmente” - unificanti di lettura delle reali dinamiche istituzionali e consente di potenziare, indipendentemente dal profilo “normativo” del “dover essere” - nel senso delle indicazioni operative di soluzioni ai problemi aperti - la capacità di penetrazione conoscitiva dei profili dinamici del diritto, permettendo di identificare soggetti, poteri e interessi in un rapporto dinamico, di cui diviene possibile studiare i meccanismi di azione-interazione-reazione non meccanicisticamente prevedibili[30], se non al prezzo di semplificazioni condizionali e perciò stesso fuorvianti.

Sulla scia di queste rapide notazioni di tipo metodologico, è ora possibile inquadrare, in prima approssimazione, il contenuto concettuale dei termini “tecnica” e “politica”, allo scopo di analizzarne l'operatività entro il quadro delle dinamiche istituzionali, a partire dal modo in cui essi sono presenti e collocati nel disegno costituzionale repubblicano, quale fonte del vigente ordinamento positivo, in relazione alla determinazione del contenuto degli “interessi” ed alle molteplici “forme” che questi possono assumere ed hanno assunto nell'ordinamento vigente[31].

 

4.Tecnica, politica, mezzi, fini

In questa prospettiva, e nei limiti in cui è possibile in questa sede, si farà rinvio a riferimenti volta a volta relativi a settori normativi, di cui si avrà cura di enucleare il profilo strutturale/funzionale, più utile alla ricostruzione di un unitario - se possibile - quadro analitico, a partire dalla ricognizione di una stratificazione normativa non priva di contraddizioni sostanziali, ma leggibile ove si adotti una chiave di analisi capace di tener conto della realità storico-temporale in cui ciascuno “strato” deve essere collocato.

Sul punto, peraltro, risulta decisivo l’atteggiamento che si decide di assumere in relazione al generale e non agevole tema del rapporto tra fonti giuridiche nella tensione tra criterio cronologico, criterio gerarchico e contenuto delle norme, la cui ricomposizione unitaria ha indotto a dare soluzioni opposte al problema della “primazia” - un esempio per tutti - da attribuire al codice civile del 1942 rispetto alla Costituzione, o viceversa, a seconda che: si adotti il criterio cronologico come criterio di ordine angolare nella lettura della sequenza di norme, si che il contenuto innovativo dell'impianto costituzionale ne risulti sostanzialmente (e formalmente) condizionato, nella espressa convinzione che la costituzione interiorizzi surrettiziamente l'esperienza giuridica coagulata intorno alla elaborazione del codice; oppure, che si dia risalto al nuovo “modello” di società e, comunque, di trasformazione sociale di cui la costituzione repubblicana è espressione, tale da innovare (anche radicalmente) le preesistenti strutture ordinamentali, funzionalmente destinate ad essere riqualificate alla luce del nuovo quadro assiologico e istituzionale[32].

Con la cautela connessa alla opzione che si ritiene di privilegiare tra le due sinteticamente descritte e passando direttamente ad affrontare la questione del tentativo di una qualificazione concettuale storicizzata, è ineludibile un passaggio analitico che faccia riferimento - come si è accennato - alla matrice culturale di ciò che è “tecnico” diversa da quella strettamente enucleabile con strumenti giuridici.

E' importante osservare, infatti, che, come concetto di sintesi - in correlazione e contrapposizione al “politico” - ciò che è “tecnico” attiene prevalentemente al “mezzo”, rispetto al “politico”, che, in quanto elaborazione valoriale degli scopi da assegnare ad un sistema, induce alla determinazione di finalità[33].

Così posti, sia la determinazione del contenuto, sia il tipo di relazione tra politica e tecnica rappresentano una specificazione del rapporto tra fini e mezzi di un sistema sociale, in cui alla decisione politica segue (o meno) la attuazione tecnica[34] della medesima, mentre dal punto di vista di una valutazione del meccanismo stesso della “decisione” non è indifferente quale tecnica decisionale sia (assiologicamente) prescelta.

Contestualmente, nella misura in cui bisogni socialmente rilevanti (per l'ordinamento) fondano la definizione di finalità da assegnare al sistema, è necessario determinare per esso funzioni differenziate, la cui attivazione richiede l'adozione di modelli organizzativi diversi (o varianti di un modello base)[35].

Come si intuisce, i livelli possibili di sviluppo analitico sono molteplici, all'interno di un sistema istituzionale funzionante per azioni e controazioni, ad esito predeterminato solo ove si assumano schemi condizionali semplificabili, ma in realtà non predeterminabile - al limite, solo qualitativamente identificabile - se si procede ad arricchire il paradigma analitico con alcune altre rapide osservazioni.

 

5. Politica, tecnica, interessi

Intanto, è il caso di sottolineare che, in quanto riferito ai “mezzi”, ciò che è tecnico si articola in maniera diversificata in più direzioni: rileva il momento organizzativo, ossia il profilo dei rapporti tra soggetti cui è assegnato il compito di orientare la propria attività verso il conseguimento di alcune finalità (ad esempio, una pubblica amministrazione); rileva, in connessione, il criterio dell'efficienza nell'utilizzo dei mezzi, per cui, poste determinate finalità, alcuni di essi e non altri hanno carattere satisfattivo; rileva, inoltre, la qualificazione del contenuto del criterio efficientista in relazione al quadro valoriale di cui le “finalità” sono materiale specificazione.

In sintesi, il momento tecnico potrebbe essere qualificato come criterio organizzativo efficiente[36], sotto il profilo della “gestione” dei mezzi in relazione ai fini dati.

Posto in questa prospettiva, non è difficile non attribuire alla “tecnica” la medesima matrice razional-individualistica, che fonda il “moderno” assetto dei sistemi sociali nel mondo occidentale[37]: potendosi sottolineare come, da un punto di vista metodologico, proprio quest'ultima rappresenti la apertura più significativa alla complessificazione dei profili organizzatori, per effetto della progressiva adozione di modelli di natura privatistica, si che la frontiera astrattamente individuabile per la determinazione della dicotomia pubblico/privato si arricchisce di elementi non neutrali di qualificazione storicamente determinati[38].

Parallelamente, si è già accennato, “politico” è il momento della determinazione assiologica dei fini, ciò involgendo direttamente il sistema di decisioni individuali e collettive possibili in un sistema (sociale) complesso (nonché la tecnica della decisione medesima), in cui, astrattamente, sia le decisioni individuali, sia quelle collettive - tecnicamente equiparabili secondo il paradigma della neutralità dei meccanismi scelti - hanno pari valenza funzionale.

Questo quadro generale può specificarsi ulteriormente col riferimento al concetto di “interesse”, assunto come centro di imputazione di ruoli giuridicamente rilevanti in relazione al momento necessario di selezione di finalità, mezzi, e rapporto tra fini e mezzi[39].

D'altra parte, la stessa definizione dell'ambito concettuale dell'interesse riferisce ad un duplice ordine di fattori: per un verso, è riconducibile alla qualificazione di un sistema di finalità (individuali) strettamente connesse alla razionalità economica di matrice utilitaristica; e, per altro verso, ad un sistema di valori non direttamente economicamente qualificabili, capaci di definire un paradigma di socialità, utilizzabile indirettamente ed in via sintetica (attraverso una astratta decisione collettiva) per definire una razionalità economica diversa da quella individuocentrica e parametrata, invece, su finalità sociali[40].

In termini generali, dunque, interessi individuali/singolari e interessi superindividuali (sociali/collettivi) - capaci di esaurire dicotomicamente l'insieme categoriale degli interessi possibili in un sistema sociale complesso - rileverebbero allo stesso modo in relazione alla selezione di finalità e alla assunzione di decisioni, sia in virtù della diretta riferibilità a soggetti individuati (singoli o collettivi) degli interessi medesimi; sia, per altro verso, per effetto del meccanismo (individualistico o sociale) della loro formazione e selezione.

La sequenza analitica, che, in una visione di insieme, potrebbe delinearsi, parte dalla qualificazione degli interessi rilevanti per l'ordinamento (che fa proprie determinate finalità) in connessione alla qualità dei soggetti che ne sono portatori, e giunge alla identificazione di strumenti necessariamente correlati al conseguimento di finalità date, secondo un generale principio di adozione di modelli di azione organizzativamente differenziati.

Una tale sequenza analitica ha il vantaggio di enucleare le variabili decisive per l'assetto dinamico di un determinato sistema (sociale), e, metodologicamente, consente di essere svolta nelle diverse direzioni possibili, a seconda del punto di partenza prescelto: avvertendosi come, nel caso di una lettura effettuata a partire dalla analisi della varietà dei modelli organizzativi utilizzabili nel campo dell'azione pubblica, la adozione di "modelli" privatistici ha storicamente prodotto l'inserzione di settori di interessi "privati" (ossia "autoreferenti") nella finalizzazione di strumenti destinati, invece, a soddisfare le varie "forme" degli interessi sociali.

 

6. Quadro costituzionale e dinamiche istituzionali

Un tale ordine di riflessioni ed il coessenziale riferimento tematico al profilo della disciplina delle dinamiche istituzionali, inducono ad una rapida ricognizione del tipo di assetto che il rapporto tra fini e mezzi assume nel quadro costituzionale, rispetto al quale detto rapporto si articola su distinti versanti strumentali e perciò “tecnici”, dal punto di vista dell'unitarietà del sistema ordinamentale.

Nel quadro di una lettura della costituzione repubblicana, di cui la dottrina più autorevole ha da tempo evidenziato la necessaria unità interpretativa oltre che assiologica[41], la articolazione stessa del testo, strutturato a partire dai principi fondamentali aventi carattere ordinante e conseguentemente, in una “prima parte” esplicitante la qualità dei rapporti sociali e in una “seconda parte” relativa al profilo organizzativo del (nuovo) potere pubblico, suggerisce una sostanziale e formale sovraordinazione del “politico” al “tecnico”.

Ciò, proprio in quanto nei principi fondamentali e nella prima parte del testo sono indicati insieme il quadro assiologico di portata normativa[42] ed i soggetti sociali cui è assegnata la attivazione di un complesso articolato di strumenti (poteri) per l'avvio e la realizzazione di un progetto di trasformazione dei rapporti sociali complessivi.

In questa prospettiva, ne deriva che, da un lato, il momento tecnico è conseguente a quello politico; e dall'altro, entro una visione unitaria del patto fondante il nuovo potere sociale organizzato, che non è indifferente la qualità dei mezzi utilizzati per operare materialmente detta trasformazione. In sostanza, la “tecnica” non è neutrale. (come non è neutrale la scelta tra le soluzioni tecniche possibili)

In altri termini, è ipotizzabile e sostenibile che il modello disegnato in costituzione, sinteticamente espresso nei termini di “Ordinamento della Repubblica”, sia univocamente connesso alla prima parte, secondo un principio di bilanciamento asimmetrico dei valori e dei ruoli (poteri) assegnati agli attori socio-istituzionali[43] portatori dei valori medesimi.

Parallelamente, i principi di democratica partecipazione alle decisioni sono suscettibili di investire l'assetto organizzativo delle istituzioni e dei pubblici poteri a tutti i livelli possibili in cui si articola il pluralismo sociale, politico ed istituzionale[44] ed è conseguentemente possibile ipotizzare una interpretazione del modello costituzionale in forza della quale ogni modificazione (formale o sostanziale) prodotta nella seconda parte si rifletta sulla potenziale attuabilità delle finalità fissate nella prima, insieme al modificarsi della qualità della partecipazione stessa di determinati soggetti sociali.

Da questo punto di vista, la tematizzazione della disciplina degli interessi prospetta uno sdoppiamento analitico che, nei limiti di questo lavoro introduttivo, è appena possibile accennare. Occorre, cioè, osservare come, da un lato, la diade diritto soggettivo/interesse legittimo sia insufficiente ad esaurire la veste formale che la molteplicità possibile degli interessi può assumere (in una società complessa), poiché la costituzione introduce i diritti sociali (qualificabili in relazione ai fini sociali che le nuove forze sociali assegnano allo stato democratico), non dogmaticamente definibili per riduzione rispetto ai diritti soggettivi o interessi legittimi per il solo fatto di non essere giudizialmente azionabili[45].

Infatti, la riferibilità delle finalità sociali generali - nella rete dei diritti sociali - ai soggetti sociali agenti della trasformazione supera le strettoie di una cultura giuridica alla ricerca di nuovi paradigmi metodologici, come tutto il dibattito culturale dell'immediato dopoguerra può ampiamente documentare.

Dall'altro, ad una lettura neutrale del contrasto di interessi, individualisticamente definiti come pretesa verso un soggetto equiordinato (diritto soggettivo) [46], o come interesse legittimo verso la P.A. si sovrappone la assunzione di una visione conflittuale degli interessi medesimi, ciò rappresentando il riconoscimento che la crescente, nuova e diversa stratificazione sociale indotta dalla assunzione di un modello di sviluppo di tipo occidentale-industrializzato reca intrinsecamente un crescente grado di conflittualità sociale, epifenomenicamente visibile nelle lotte relative alla distribuzione del prodotto sociale[47].

Il riferimento costituzionale al principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, c 2 Cost.), da alcuni identificato come “token” intangibile del patto costituente[48], e la costituzionalizzazione (la prima nel mondo occidentale) del diritto di sciopero, come strumento “legittimo” di lotta per la trasformazione dei rapporti sociali a partire dai rapporti di produzione, sostanziano una tale linea interpretativa, in grado di evidenziare, per altro verso, la attualità del modello costituzionale vigente in connessione con la società pluralistica[49] a crescente grado di complessità sistemica[50].

L'assetto pluralistico del quadro istituzionale così disegnato, trova, rispetto al profilo della decisione e quindi del “politico”, lo strumento del partito politico (art. 49 Cost.), come soggetto capace di coagulare e preselezionare finalità e interessi sociali, attraverso un modello istituzionale di partecipazione organizzata alle decisioni.

Tale modello pluralistico converge nella individuazione del parlamento (e delle assemblee elettive di vario livello) come luogo di mediazione e sintesi tra interessi in conflitto e, al contempo, sostanzia un concetto di sovranità definito dalla qualità stessa della partecipazione popolare alla determinazione della politica nazionale: ciò che consente di comprendere, per inciso, come sia avvenuta la modificazione qualitativa della funzione della legge, che, disancorata dalla sua dimensione “normativa” - già inadeguata a regolare un conflitto sempre rinnovantesi - assume quella di bilanciare volta a volta gli interessi in gioco, all'interno della esplicitazione delle finalità (anche nuove) assegnate allo stato pluriclasse[51].

E' chiaro che il modello, così definito, di assetto istituzionale richiederebbe di essere letto dinamicamente nella dialettica tra attuazione e inattuazione costituzionale, i cui elementi di novità rispetto al previgente ordinamento a base statutaria risalterebbero con maggiore evidenza di quanto non emerga semplicemente sottolineando il carattere prima censitario e autoritario dello stato liberale e poi totalitario dello stato fascista; potendosi solo evidenziare, in quest'ultimo caso, come la gerarchizzazione del potere “pubblico” - concentrato nelle mani di un esecutivo “forte” - avvenga all'insegna di una ipotesi di organizzazione sociale come quella corporativa, che per definizione mira a superare il conflitto di classe entro una visione “collaborazionista”[52] tra ceti produttivi, il cui reciproco ruolo sociale risulta cristallizzato dall’operare della compressione delle libertà “liberali”, come prezzo dovuto ad una concentrazione economico-finanziaria, in grave crisi di sovrapproduzione[53].

 

7. La dinamica istituzionale degli interessi in un sistema ad alto grado di complessità

Se quello accennato appare un plausibile quadro generale del rapporto tra tecnica e politica espresso dalla costituzione repubblicana, è ora possibile evidenziare rapidamente alcune dinamiche istituzionali che la cultura più avvertita ha individuato nell’intreccio tra il ciclo di sviluppo di un tipico assetto democratico-occidentale e la dialettica tra attuazione e inattuazione costituzionale.

Ciò appare utile, come si cercherà di mostrare, anche alla comprensione del tipo di lettura aggiornata della costituzione stessa e del tipo di soluzioni adottate per la “gestione” delle grandi questioni istituzionali, all'ordine del giorno almeno a partire dagli anni ottanta, in un tornante nel quale si osserva il passaggio dalla strategia della riforma dello stato al pragmatismo (avaloriale) delle riforme istituzionali.

La matrice culturale di una analisi che, a partire dagli anni settanta, si occupa delle dinamiche dei sistemi sociali è riconducibile essenzialmente alla cultura sociologica[54] per un verso, e a quella economicistica [55] per altro. Entrambi i filoni di ricerca concentrano la loro riflessione sui sistemi di scelta collettiva in una società strutturata a base democratica, ed evidenziano convergentemente un punto critico di forte tensione tra sistema delle aspettative proprie di soggetti sociali eterogenei, meccanismo di selezione delle finalità collettive ancorate ad un criterio di compatibilità finanziaria delle medesime e consenso politico espresso dal rapporto tra sistema elettorale e forma di governo di un dato assetto istituzionale.

Non è qui possibile analiticamente ricostruire lo schema argomentativo utilizzato, ma è importante evidenziarne le conclusioni di sintesi (di carattere normativo), secondo le quali, nella misura in cui un assetto è democratico - esprimentesi attraverso un sistema di rappresentanza che dà la massima visibilità a tutti i soggetti organizzati, e nel quadro di un sistema decisionale che premia il luogo dell'assemblea rapprentativa rispetto all'esecutivo - si innescherebbe un circolo vizioso per effetto del quale gruppi minoritari nel sistema si scambierebbero consenso (voti favorevoli) sulle reciproche pretese/aspettative/vantaggi, scaricandone i costi (sociali e finanziari) sui gruppi non partecipanti (perché esclusi, indifferenti o minoritari rispetto) allo scambio[56], benché partecipanti alle decisioni.

L'efficienza diretta di questo meccanismo, combinato con la pretesa di partecipazione di un numero crescente di interessi singolarmente minoritari, avrebbe poi determinato la “crisi fiscale” dello stato, incapace di arginare e soddisfare richieste crescenti di gruppi specifici, minoritari nel sistema.

Sarebbe questo lo schema funzionale per il quale la democrazia “progressiva” si avvita su se stessa e genera le condizioni per una sua insostenibilità “finanziaria”.

A questa diagnosi, si fa poi seguire un insieme di indicazioni normative, relative a possibili riassetti istituzionali del sistema, tali da tamponare la “deriva” dei sistemi democratici e ricondurli all'alveo di un funzionamento fisiologico in grado di bilanciare i diversi interessi, equiparati tutti sotto il vincolo della compatibilità finanziaria.

E' questa l'origine di un generale progetto di “modernizzazione”, che investe il mondo occidentale nella fase più acuta di “crisi delle democrazie”, orientato a ridisegnare nuovi equilibri istituzionali, in cui il conflitto tra interessi è ridotto ad un minimo attraverso forme di preselezione della domanda sociale, da identificare con un criterio aggregante attraverso riforme di tipo maggioritario delle leggi elettorali, ed alle quali sia connesso un rafforzamento degli esecutivi, collocati in modo tale esprimere esclusiva soggettività nell'indirizzo politico (economico)[57].

In sostanza, a ciò che appare rappresentato come un evidente limite “tecnico” della democrazia, la risposta elaborata nell'ambito delle richiamate analisi consisterebbe nel “ridurre” l'area del conflitto democraticamente (auto)gestito, riconducendone la dimensione e la qualità alle esigenze “tecniche” di compatibilità (economico-finanziario)del sistema, in particolare spostando le decisioni economiche – in quanto tecniche – fuori dalle sedi politiche in quanto rappresentative.

Una tale chiave di lettura, ancorché non esaustiva, risulta tuttavia molto utile - nella indicata prospettiva tematica - a comprendere il tipo di disciplina, che interessi qualificati e astratti ricevono in distinti settori dell'ordinamento, dovendosi tuttavia distinguere almeno due possibili livelli di analisi, relativo, il primo, ai profili generali della organizzazione amministrativa, ed il secondo volta a volta definibile materialmente in relazione al settore che le norme intervengono a ri-disciplinare (delegificazione, deregolamentazione, deregolazione, liberalizzazione, privatizzazione).

Secondo questa generale distinzione, e come una autorevole dottrina non ha mancato di evidenziare, al primo livello si colloca il passaggio da una amministrazione “per atti” ad una amministrazione “per procedimenti”[58], consustanziale alla trasformazione dello stato monoclasse in stato “pluriclasse”: essa rappresenta la risposta di sistema per una nuova tecnica di ricomposizione (per gradi istruttori) degli interessi in gioco[59].

Da questo angolo visuale, anche in settori dell'ordinamento apparentemente lontani, ha operato sostanzialmente la medesima logica riduzionistica cui si è accennato, che, prospettando la “decisione” come meramente “tecnica”, la assegna ad un soggetto - l'esecutivo, che è anche vertice della amministrazione, ma non per questo è “impolitico” - con ciò sottraendo all'assemblea parlamentare una ampia sfera decisionale e creando strutturalmente le condizioni per una “gestione” tecnica di settori dell'ordinamento, perciò “separata” e sottratta, tendenzialmente, al controllo parlamentare.

Ciò che, in sostanza, si intende sottolineare è come, attraverso il preteso contenuto “tecnico” di determinate classi di decisioni in determinati settori materiali (economia e finanza), si creino ambiti separati di decisioni politiche, riservati a centri istituzionali di potere (l'esecutivo, la banca centrale), sottratti potenzialmente al controllo democratico dell'assemblea.

 

8. Politica e tecnica tra interessi ed economia

Questa schematizzazione, certamente non esaustiva e suscettibile di molteplici sviluppi analitici, è tuttavia utile a cogliere come in diversi e distanti punti dell'ordinamento sia operante una tendenza costante del segno identificato di tipo “riduzionistico” della complessità di sistema (sol che si pensi, non di meno, alle più recenti riforme del c.d. “pubblico impiego” e del SSN, entrambe di impronta “privatistico/manageriale”[60]), che emerge, tuttavia, con maggior chiarezza sul terreno del governo dell'economia, utilizzabile tematicamente come luogo elettivo per la lettura delle tensioni tra tecnica e politica.

Sul punto, appare utile richiamare come il disegno costituzionale prospetti un assetto di governo dei processi economici informati alla programmazione democratica delle decisioni a contenuto economico, in grado di coinvolgere dialetticamente eterogenei soggetti sociali intorno alla elaborazione ed identificazione di priorità e obiettivi (sociali), verso i quali orientare l'intero sistema produttivo[61].

Contestualmente, già in piena fase costituente, si compie il recupero dell'esperienza di “governo tecnico” (e perciò separato) del settore del credito (attraverso il CICR), che ha funzionato da paradigma funzional-organizzativo per la gestione di interi settori dell'Amministrazione dell'economia, cui i poteri di controllo del parlamento sono giunti parzialmente a incidere durante la vigenza dei regolamenti parlamentari elaborati nel 1971 e con la emanazione delle leggi per la ristrutturazione industriale e la amministrazione controllata delle grandi imprese in crisi, alla fine degli anni '70.

Questo modello di gestione per comitati interministeriali[62] ed enti pubblici economici di settore - in connessione al quale si è sviluppata la figura dello “stato finanziatore”[63] - ha storicamente espresso la forma prevalente di governo dell'economia, sino al “collasso” dell'intero sistema amministrativo, nel momento in cui non è più stato in grado di mediare - attraverso le strutture del “potere per enti” - col consenso organizzato le contraddizioni nascenti sia dagli squilibri strutturali dell'assetto produttivo del paese, sia dalla poderosa spinta modernizzatrice, che ha operato attraverso la lenta marcia di avvicinamento alla Unione Europea, maturata all'insegna del principio del “mercato”, utilizzato come pietra angolare del riassetto dei singoli sistemi economici nazionali, sia, istituzionalmente, come misuratore degli interessi e dei diritti “liberamente” espressi nella forma astratta di domanda e offerta di merci e servizi.

 

9. La prospettiva comunitaria dell’ordinamento interno

L'incidenza progressiva del “diritto comunitario”, prodotto da organi “tecnocratici” sulla falsariga del Trattato di Roma - che già formalizza l'assunzione del mercato come regola generale di funzionamento degli istituti economici e politici - svolge, con intensità crescente a partire dagli anni ottanta, un ruolo essenziale nella progettazione ed attuazione di un nuovo sistema istituzionale di “gestione” degli interessi (organizzati) tra tecnica e politica, tanto al livello degli stati membri quanto delle istituzioni comunitarie.

E' possibile, in questa sede, solo individuare a grandi linee le coordinate di sviluppo e attuazione di questa versione della modernità, aggiornata alle più intense dinamiche dei processi economici e finanziari.

Il quadro emergente può così essere schematizzato: nel presupposto generale della crisi fiscale dello stato di cui si è detto, lo stato, nel tentativo di risanare i propri conti nella prospettiva della competizione intrasistemica globale, deve liberarsi delle proprie attività produttive (di beni e servizi) e “restituirle” al settore privato, anche allo scopo di consentire un recupero produttivistico di tipo efficientista, nel presupposto indimostrato che il privato sarebbe più efficiente.

Contestualmente, in una economia come quella italiana, fortemente connotata dalla presenza pubblica - tanto da consentire di proporre la categoria concettuale di “economia mista”[64] - la spinta alla “privatizzazione” del settore pubblico favorirebbe la creazione di condizioni di mercato, ossia di concorrenza, in luogo di un sistema organizzato per oligopoli (pubblici/privati)[65].

Alla progressiva costruzione di una economia europea e nazionale di mercato, la scienza economica ortodossa ritiene di poter dimostrare essere associato un beneficio per il “consumatore”, derivante dal minor prezzo rispetto all'ipotesi di assetto di tipo oligopolistico.

Tuttavia, si è determinata l'esigenza di coprire un vuoto normativo, non essendoci nell'ordinamento vigente norme specifiche per la disciplina della concorrenza diverse da quelle codicistiche, ritenute insufficienti perché storicamente datate intorno al modello classico di impresa individuale[66].

Infine, non essendo utilizzabili gli strumenti amministrativi tradizionalmente noti nell'ambito dei controlli - perché burocratici -, si è avviata la realizzazione di un sistema di autorità amministrative indipendenti, destinate a “controllare” (in senso atecnico) - sulla falsariga della Consob, ma con poteri e contorni normativi in via di definizione - la “regolarità” del funzionamento dei mercati di beni e servizi.*(regolazione del mercato)

 

10. Conclusioni

Alla luce degli assetti normativi che così si vengono delineando, è allora possibile, conclusivamente, riassumere il quadro istituzionale prospetticamente operante nel medio periodo, solo potendo accennare, in questa sede, alla ricca problematicità che nel campo giuspubblicistico produce la acquisizione di concetti tipicamente privatistici (quali “mercato”, “concorrenza”, “impresa”), sui quali, tuttavia, gravano incertezze normative relative al profilo qualitativo e quantitativo degli attori in gioco, nonché all'ambito “spaziale” della loro efficacia.

In sostanza, il vigente modello costituzionale articola e prospetta il superamento della separazione tra democrazia economica, politica e sociale (strutturalmente propria dell'ordinamento statutario di tipo liberale-autoritario, e poi fascista), attraverso la predisposizione di strumenti di azione politica e sociale attivabili da qualificati soggetti sociali interessati alla trasformazione sociale. Il principio democratico è interpretato nella sua forza diffusiva verso gli strumenti tecnico-giuridici e organizzativi, e la soggettività degli interessi è qualificata unitariamente intorno al principio personalista e al principio lavorista, in modo tale da superare la previgente scissione tra suddito, lavoratore subordinato e cittadino.

Non di meno, il principio democratico investe - in quanto “politico” - la strutturazione della “tecnica” sotto il profilo decisionale, e prospetta una programmazione dell'economia co-decisa a tutti i livelli, senza luoghi sottratti al “controllo” democratico delle decisioni assunte.

Il modello in fieri, invece - archiviata definitivamente ogni ipotesi di programmazione che non sia di tipo meramente finanziario/monetario, orientata, ove possibile, a preservare la “stabilità” considerata come un valore la cui salvaguardia è affidata ad un ente “tecnico” indipendente, ossia alla banca centrale europea - assume il mercato come misura dei diritti e degli interessi, esprimentesi dentro una scissione riproposta tra consumatore, lavoratore e cittadino, atta a depotenziare la pervasività del principio democratico nella sua conquista, forse, più avanzata dell'unitarietà personalistica del cittadino-partecipe, e, per questa via - ma non solo - perpetuante la separazione tra democrazia politica, democrazia economica e democrazia sociale.

In questo modo, si afferma surrettiziamente quel primato della “tecnica” che, intervenendo a ristrutturare tutti i settori dell'ordinamento, informandolo ai criteri di efficienza, economicità ed efficacia (elevati, per l'occasione, al rango di princìpi), di fatto rende impermeabili alla partecipazione interi settori di decisioni coinvolgenti interessi eterogenei, così destinati a “subire” scelte altrui nella propria sfera operativa, senza potervi concorrere.

Si delinea, allora, come in tempi non sospetti una acuta dottrina ha anticipato[67], una democrazia dei produttori scissa da una democrazia dei consumatori, non comunicanti tra loro - mentre progredisce la concentrazione del potere economico-finanziario - se non nei rispettivi luoghi astratti rappresentati dai singoli mercati, sulla fluidità dei quali vigilano tecnocratiche “authorities”, irresponsabili politicamente, se non - al limite - verso l'organo che le insedia (attraverso il sistema delle nomine).

Nella dialettica tra tecnica e politica sul terreno degli interessi, o viceversa nella dinamica conflittuale/corporativa degli interessi tra tecnica e politica, ciò che attualmente si registra è il prevalere della “tecnica”, attraverso cui tendono ad assumere valenza assiologica i criteri organizzativi dell'impresa (“regno della tecnica”), assumibili essi stessi (economicità, profitto, gerarchia) a paradigma di modernizzazione sociale. in contrasto col progetto di trasformazione sociale in senso democratico, disegnato nella costituzione vigente.



[1] S. Romano, Voce Realtà Giuridica, in Frammenti di un dizionario giuridico, Cappelli, 1947

[2] E’ possibile sottolineare come le analisi elaborate dalla dottrina miranti a delineare processi decisionali e, ancor prima, modelli istituzionali per l’integrazione europea, non diano il dovuto rilievo all’origine statuale che rappresenta la fonte formale e sostanziale del potere decisionale medesimo, in particolare quando pone modelli istituzionali. Questo approccio metodologico non consentirebbe di impostare correttamente le indagini recentemente apparse in tema di sovranità, statualità e sopranazionalità, su cui cfr. G. Guarino, Pubblico e privato nell'economia. La sovranità tra costituzione e istituzioni comunitarie, in Q.C., n. 1, 1992

G. Guarino, Riflessioni sui regimi democratici, in Q.C., 1993. M.L. Salvadori, Stati e democrazia nell’era della globalizzazione, in Il Mulino, maggio-giugno 1996, p. 439. Più di recente, vedi AA.VV. Dallo Stato monoclasse alla globalizzazione, a cura di S. Cassese e G. Guarino, Giuffrè 2000. Sul piano più strettamente amministrativistico, cfr. AA.VV. Le riforme amministrative italiane: un confronto europeo, Atti del convegno Spisa, marzo 1999, Clueb, 1999.

[3] Cfr. J. Caillosse, La Modernizzazione dello Stato, in Problemi di Amm. Pubb., a. XVII, n. 3, 1992, p. 5 e ss; AA.VV., La crisi dello stato, Laterza, 1976; G. Guarino, Riflessioni sui regimi democratici, in Quad. Cost., 1993; P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Foro Italiano, n. 5, 2002, p.152 e ss..

[4] Osservazioni critiche in S. d’Albergo, Dalla democrazia sociale alla democrazia costituzionale, in www.costituzionalismo.it, 2006.

[5] Di particolare interesse per l’impianto metodologico che suggeriscono: S. Peltzman, La teoria economica della regolamentazione dopo un decennio di deregolamentazione, in Problemi di Amministrazione pubblica, n° 2, 1990, p. 297 e succ.; H.A. Simon, Organizzazione e mercati, in Problemi di Amministrazione pubblica, n° 1, 1993, p. 3; OCSE, Per servire meglio l’economia, in in Problemi di Amministrazione pubblica, n° 1, 1993, p. 73 e segg.. Benché non recentissimi, i richiamati contributi forniscono il quadro delle dinamiche strutturali dei processi di modernizzazione imposte agli assetti istituzionali. V. anche M. Mazzamuto, La riduzione della sfera pubblica, Giappichelli, 2000.

[6] M. Mazzamuto, La riduzione della sfera pubblica, Giappichelli, 2000.

[7] Per la comprensione dalla matrice teorica dei processi di privatizzazione, v. J. Brennan e J.M. Buchanan, La ragione delle regole, F. Angeli, 1991; J.M. Buchanan, Stato, Mercato e Libertà, Bologna, Mulino, 1989.

[8] Guarino, cit.

[9] Più esplicitamente, questa dinamica potrebbe essere rappresentata come dimensione del rapporto tra legge e mercato, osservandone l’andamento e le modificazioni per effetto dei processi di delegificazione, de-regolazione e ri-regolazione, e in connessione con i processi di privatizzazione e liberalizzazione, in atto dal oltre un ventennio.

[10] A. Baldassarre, Globalizzazione contro Democrazia, Laterza, 2002; F. Merusi, Diritto contro economia, Mulino, 2005; F. Galgano, L’economia nello specchio del diritto, Mulino, 2004.

[11] N. Irti e E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, 2001, delineano con chiarezza i nodi teorici del complesso atteggiarsi dei rapporti tra grandezze concettuali non reciprocamente riducibili, nel contesto del rapporto tra democrazia ed economia di mercato. Ineludibile, sul punto, appare il rinvio al “classico” E. Forsthoff, Stato di diritto in trasformazione, Giuffré 1973.

[12] Terreno sul quale la sociologia politica, per un verso, avrebbe modo di riflettere per evidenziare l’inadeguatezza di una classe dirigente complessivamente intesa; e, per altro verso, l’ingegneria istituzionale, nell’assumere il subalterno ruolo di un moderno “consigliere del principe” in assenza di un principe all’altezza, potrebbe fornire la misura del distacco tra modelli di ordine istituzionale e dinamiche socio-economiche reali.

[13] Riflessioni in tema di supposta neutralità delle soluzioni liberali in A. Verza, La neutralità impossibile, Giuffrè, 2000.

[14] Il rinvio alle analisi di Dahrendorf, R., Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, 1971, J. O'Connor, La crisi fiscale dello stato, Torino, 1977 e di C. Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, Milano, 1977 appare ancora di viva attualità, specie se letto in connessione con le ricostruzioni di tipo “sistemico”, per le quali sia consentito il rinvio a N. Luhmann, La differenziazione del diritto, Mulino, 1990. Non è possibile, in questa sede, ripercorrere il lungo dibattito culturale e politico-istituzionale che accompagna i tentativi di riforma organica dell’assetto costituzionale vigente. Tuttavia, è possibile far riferimento al più recente documento che nel corso della XIII legislatura configura un mix di Federalismo-Presidenzialismo, con un certo sacrificio della funzione democratizzante della rappresentanza a favore del rafforzamento del ruolo e dei poteri dell’esecutivo e, all’interno di quest’ultimo, del presidente del consiglio dei ministri. cfr. la nota di Russo sulla proposta di riforma costituzionale. Per questi profili, cfr.il Volume tematico “Tecnocrazia e democrazia” della rivista Democrazia e Diritto, novembre, 1993. Per una sintesi delle linee di riforma al centro del dibattito politico istituzionale da almeno un trentennio, v. A. Cantaro e F. Petrangeli, Guida alla Costituzione e alla sua riforma, Editori Riuniti, 1997. Sulla specificità del “caso italiano”, ancora attuale Crozier, Huntington, Watanuchi, La crisi della democrazia, Fondazione Agnelli, 1975.

[15] D. Serrani, Il potere per enti, F. Angeli, 1975.

[16] Che, in quanto attiene alla scelta del “mezzo” è “tecnica” rispetto alla decisione politica-amministrativa. Sulla distinzione tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica, v. D. Sorace, Il diritto delle amministrazioni pubbliche, Mulino, 2000, pp. 254 e segg.

[17] Di particolare interesse, sul punto, le analisi di J. A. Gazell e D. L. Pugh, La teoria amministrativa e le grandi organizzazioni del futuro: qual è il destino della burocrazia?, in Problemi di Amministrazione pubblica, a. XVI, n. 4, 1991, i quali, riflettendo sulle difficoltà di adattamento ambientale dei prevalenti modelli amministrativi, prefigurano l’irruzione di formule organizzatorie e modelli normativi connotati contestualmente da specializzazione e flessibilità.

[18] R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, 1992.

[19] F. Bilancia, La crisi dell’ordinamento giuridico dello stato rappresentativo, Cedam, 2000.

[20] Ancora di interessante attualità sul piano metodologico i contributi raccolti in AA.VV. Democrazia e amministrazione. In ricordo di Vittorio Bachelet, Giuffré, 1992. D’altra parte, una tale tematizzazione troverebbe agevoli sviluppi analitici sul versante della qualificazione giuridica dei c.d. “governi tecnici” o della presenza dei c.d. “tecnici” (esperti) nelle compagini di governo, con la possibilità di riflettere, in chiave diacronica, sulle forme assunte dal suddetto rapporto negli assetti ordinamentali a base statutaria, in parallelo ai quali interessanti osservazioni potrebbero trarsi dall’esperienza storica del regime fascista, specie se letto in connessione con l’esperienza di Waimar.

[21] A. Barbera C. Fusaro, Corso di diritto pubblico, Mulino, 2001, p. 340. In termini generali, si potrebbe osservare come dal punto di vista della natura del potere che pone la norma, sia in atto un passaggio dallo stato-legislatore allo stato-regolatore, per effetto del ridimensionamento dell’ambito di generalità e astrattezza della legge, in forza del quale alle Autorità amministrative indipendenti pare assegnato il ruolo chiave di presidio delle regole, con un corredo di “poteri” che attende ancora una stabile sistematizzazione, per effetto di ciò che appare come una distinzione meramente funzionale: il potere di porre regole, il potere di farle rispettare. Infatti, per sottolineare il carattere qualitativo differente che dà contenuto alle due forme di potere, si può osservare come accanto a funzioni di regolazione in senso tecnico – intese come “produzione” di norme atte a disciplinare i comportamenti degli attori del “mercato rilevante” -, sono assegnate funzioni paragiurisdizionali, meglio visibili nei casi di tutela dei “nuovi diritti” – cfr. F. Cocozza, Il diritto pubblico applicato all’economia, Giappichelli, 2003, p. 217 e segg. - imputati ad utenti e consumatori (R. Rinaldi, La posizione giuridica soggettiva dell’utente di servizi pubblici, in corso di pubblicazione), con il limite peculiare al nostro ordinamento della impossibilità di impugnare innanzi alla Corte Costituzionale le loro determinazioni. Così, l’ordinamento sembra orientarsi verso un approccio di tipo contrattualistico – cfr. anche F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, Giuffré, 2006. In tema, interessanti le notazioni di A. Ruggeri, “Nuovi” diritti fondamentali e tecniche di positivizzazione, in Politica del diritto, n° 2, 1993, p. 183 e segg.; e di M. Manetti, Poteri neutrali e Costituzione, Giuffré 1994. V. anche F. Merusi, Democrazia e autorità indipendenti, Mulino, 2000.

[22] G. Gardini, L’imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione, Giuffré, 2003.

[23] Per una visione sistematica dei processi di privatizzazione delle banche pubbliche, cfr. AA.VV, T.U delle leggi in materia Bancaria e creditizia, Commento al d.lgs. 1 settembre 1993, n° 385, Zanichelli, 2003. In termini generali, il punto chiave sembra poter essere individuato nelle ragioni che inducono a scegliere nell’alternativa tra ente pubblico e società commerciali, venendo in tal caso in rilievo il tema dei modelli organizzativi utilizzati, su cui, per la lucidità dell’analisi, è ancora utile il rinvio a Guarino, Scritti di diritto pubblico dell’economia e dell’energia, Giuffré, 1963.

[24] G. Bucci, Implicazioni dei rapporti tra ordinamento giuridico italiano ed ordinamento comunitario sul ruolo della Banca d'Italia, in Riv. Ital. Dir. Pub. Com., a.VIII, fasc. 1, 1998

[25] AA.VV, Dallo Stato monoclasse, cit.

[26] Tra queste, si segnala per la precocità delle questioni sollevate J. Meynaud, Tecnocrazia e politica, Cappelli, 1960, che evidenzia le chiavi dell’ideologia tecnocratica, sottolineando le tappe dello spossessamento di sfere decisionali ai danni dell’ambito politico.

[27] Cfr. J.M Buchanan e G. Tullok, Il calcolo del consenso. Fondamenti logici della democrazia costituzionale, Mulino, 1998. Per la distinzione metodologica tra “Public Choice” e “Law and Economics”, cfr. le annotazioni di F. Cocozza, Diritto Pubblico applicato all’economia, cit., in part. pp. 15 e segg.. Sul tema del rapporto tra impianto costituzionale di tipo democratico e scelte economiche razionali, v. C. B. Blankart, Where are we in the economic theory of constitution, in Economia delle scelte pubbliche, n° 3, 1985, p. 147. In relazione all’utilizzabilità metodologica dell’analisi economica del diritto, v. M. Abrescia, Le ricerche gius-economiche e la frontiera del diritto costituzionale, in Quaderni Costituzionali, n. 3, 2001, p. 635 e ss. Dello stesso A. v. anche Un diritto al futuro: analisi economica del diritto, Costituzione e responsabilità tra generazioni, intervento al Convegno “Un diritto per il futuro, Parma, 30 novembre 2006, dattiloscritto.

[28] Concettualmente rilevante per il consenso suscitato sul piano delle analisi in tema, in particolare, di servizi pubblici, è l’idea che la fruizione dei diritti sia condizionata dai concreti vincoli (finanziari) di erogabilità. Per questo approccio v. F. Merusi, I servizi pubblici instabili, Mulino, 1990.

[29] S. Romano, Voce Realtà Giuridica, in Frammenti di un dizionario giuridico, cit..

[30] Ad esempio, si pensi all’utilità analitica e normativa derivante da ciò che la teoria economica definisce come paradigma della “teoria dei giochi”.

[31] Da altro punto di vista, il problema può essere affrontato dal punto di vista dell’analisi del rapporto tra fonti, cioè tra poteri che le pongono, in funzione della qualità degli interessi cui si riferiscono. Una non convenzionale ricognizione degli interessi operanti in una società complessa si trova in M. S. Giannini, Il pubblico potere, Mulino, 1988. Per una recente riflessione in tema, cfr. M. Cammelli, Politica e apparati nella mediazione degli interessi: il ruolo della amministrazione, relazione al “S. Martino, Torino, aprile 2005, dattiloscritto. Dello stesso A., un quadro più articolato in La Pubblica Amministrazione, Mulino, 2004. Nella prospettiva della qualificazione degli interessi in relazione alle dinamiche istituzionali, cfr. G. Sapelli, L’Impresa, il mercato e la nuova sovranità popolare, in P. Basseti (a cura) Impresa e Stato, Mulino, 1995, p. 83 e segg..

[32] Poiché la gerarchia delle fonti è gerarchia tra poteri che le pongono, ordinate sistematicamente secondo i rapporti tra le forme che detti poteri assumono (attività o, più tradizionalmente, atti), in cui è espresso il rango del potere organizzato, è possibile evidenziare come alla pluralità delle fonti sia retrostante la pluralità dei poteri e degli interessi organizzati, cui ineriscono. L’attuale riflessione costituzionalistica intorno al processo di integrazione europea è sintomatica del tentativo di ordinare in nuove gerarchie formali lo strutturarsi di nuovi poteri sovrastatali, mediante l’impiego delle categorie analitiche esistenti, che forniscono esiti non sempre univoci e condivisi, con ciò mostrando l’improcrastinabilità di una ricerca sulla frontiera degli strumenti analitici impiegati. Sul punto, che meriterebbe una più accurata riflessione, è possibile, in questa sede, appena segnalare come la Corte Costituzionale abbia svolto un ruolo rilevante, ma non incontroverso, per effetto di posizioni assunte almeno sin dagli anni settanta, a difesa dell’autonomia dell’ordinamento interno non scevra da elementi contraddittori, approdando alla rappresentazione di un rapporto tra ordinamenti necessariamente distinti ma coordinati.

[33] V. G. Guarino, cit.. In questo senso, la proposta evidenzia come sia possibile riconfigurare il tradizionale tema del rapporto tra forme di stato, che è anche scelta di valori, e forme di governo, in quanto organizzazione del potere.

[34] O, meglio, di una tra le possibili soluzioni tecniche, come ambito di operatività di tipo discrezionale, nel quadro della dialettica attuazione/inattuazione.

[35] La chiave argomentativa richiamata in campo dal nesso tra complessità sociale e proposte riduzionistiche di tipo tecnico è ancorata all’idea che la democrazia sia economicamente inefficiente a meno che non se ne riduca la complessità, selezionando interessi con un qualche criterio

[36] I questa sede, si utilizza una definizione corrente di efficienza generalmente condivisa, da intendersi come rapporto tra risultati e risorse. Se si accedesse ad un approccio critico delle dinamiche organizzative, l’efficienza potrebbe essere rappresentata come grado di “espropriazione” del valore aggiunto socialmente prodotto.

[37] Cfr. R. C. Van Caneghem, Introduzione storica al diritto privato, Mulino, 1992. V. N. Luhman, La Differenziazione del diritto, Mulino, 1990.

[38] S. Cassese, Il sistema amministrativo, Milano, 1989

[39] Per una classificazione degli interessi sul piano dell’azione amministrativa, cfr. M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, Giuffrè, 1970. Dello stesso A., una rassegna più aggiornata dell’articolazione degli interessi, individuati in funzione delle modalità di riferibilità ad un interesse pubblico qualificato, v. Il pubblico potere, Mulino, 1989. Sia consentito soltanto evidenziare come appaia fondata l’utilità metodologica di qualificare gli interessi anche in funzione del tipo di organizzazione e delle modalità del rapporto con un pubblico potere.

[40] P. Barcellona, L’individualismo proprietario, Boringhieri, 1989.

[41] Pur in presenza della necessità di aggiornare l’interpretazione, alla luce del diritto comunitario.

[42] Per tutti, cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, 1970.

[43] Bin, cit.

[44] U. Allegretti, Il pensiero amministrativistico di Giorgio Berti: l’amministrazione capovolta, relazione al club dei giuristi e Centro Bachelet – Giornata in Onore di Giorgio Berti, Roma, 11 novembre, 2002.

[45] Bucci, ult. op. cit.

[46] P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Giuffré, 1985.

[47] Per questa rappresentazione delle dinamiche sociali e istituzionali, cfr. A.O. Hirschmann, I conflitti come pilastri della società democratica a economia di mercato, in Stato e mercato, n° 41, 1994, p. 133 e segg..

[48] M. Luciani La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Cedam, 1983.

[49] M. S. Giannini, Il pubblico potere, cit.

[50] N. Luhman, op. cit

[51] E’ appena il caso di evidenziare come la matrice teorica di una visione pluralistica risulti derivabile anche dalle teorizzazioni che negli anni trenta hanno inquadrato nel concetto di “costituzione materiale” il concreto atteggiarsi del potere organizzato, incarnandosi nella “funzione di indirizzo”, retta dal partito unico, a sua volta guidato dal leader. D’altra parte, nel porsi in una tale prospettiva, occorre necessariamente storicizzare le categorie analitiche utilizzate, per sottrarsi al rischio rappresentato dall’utilizzare una concettuologia pretensivamente universale e perciò sempre valida, per legittimare surrettiziamente una dinamica istituzionale non coerente con il nuovo ordine repubblicano. In tal senso, illuminante appare ancora oggi la lettura del testo fondamentale in cui la teorizzazione richiamata è stata articolata (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, 1975, ma v. La Costituzione in senso Materiale, 1940), per meglio cogliere una possibile forzatura derivante dall’utilizzo corrente del concetto medesimo.

[52] Risalente alla “Carta del Lavoro” del 1927.

[53] P. Grifone, Il Capitale finanziario, Einaudi, 1971.

[54] Luhman, op. cit.

[55] J.M. Buchanan e Tullock, op. cit.

[56] J. O’Connor, cit. e C. Offe, cit.

[57] Crozier, Huntington, Watanuchi, La crisi della democrazia, cit..

[58] M. S. Giannini, Diritto Amministrativo, cit.; v. anche G. Guarino, Quale amministrazione Giuffrè, 1985

[59] Sul punto si può appena ricordare che una disciplina unitaria del profilo formale del procedimento (in quanto decisione procedimentalizzata per l'acquisizione degli interessi rilevanti) è stata a suo tempo introdotta con la L. 7/8/90, n. 241 (come noto, recentemente organicamente riformata), i cui principi ispiratori, esplicitamente richiamati nella prima parte dell’articolato, rinviano chiaramente a quel generale criterio di economicità dell'azione amministrativa (tra gli altri), che può essere letto in chiave più chiaramente tecnico-economica, nella misura in cui i connessi criteri di efficienza e trasparenza (nella forma del diritto d'accesso e del responsabile del procedimento) trovano come proprio referente privilegiato l'impresa (in quanto attore sociale “forte”), se è vero che la pubblicità degli atti trova un limite insuperabile nel caso in cui involgano interessi imprenditoriali. Ora, se questa disciplina è relativa a ciò che si potrebbe definire come rapporto tra “microinteressi”, perché svolgentesi astrattamente tra singoli e amministrazione, su un piano più ampio si colloca la L. 23.08.88, n. 400, disciplinante l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che qui rileva essenzialmente in quanto espressione della prevalenza della tecnica sulla politica, nella misura in cui l'argomento dominante utilizzato per giustificare l'attribuzione di un ampio potere regolamentare al governo, nel quadro di una progrediente delegificazione di interi settori normativi (ciò che per inciso produce un rafforzamento implementare dell'esecutivo), è quello consistente nel sostenere la incompetenza e la impossibilità organizzativa dell'assemblea parlamentare “a provvedere”, disponendo norme molto dettagliate.

[60] Sul punto, sia consentito il rinvio a J. Burnham, La rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri, 1992.

[61] Cfr. S. d’Albergo, ult. op cit.

[62] Per tutti, si veda G. Quadri, I comitati di ministri, Giuffré, 1997.

[63] D. Serrani, Lo stato finanziatore, Ciriec, F. Angeli, 1971.

[64] V. Spagnuolo Vigorita L'iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Jovene, 1959.

[65] Sotto il profilo normativo, alla “legge Amato” per la privatizzazione del settore del credito è logicamente e sistematicamente leggibile, ad esempio, in connessione con la L. 10.10.1990 n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato, che concretamente recepisce le norme comunitarie in materia.

[66] La L. 10.02.91 n. 126 recante “Norme per l'informazione del consumatore”, interviene a colmare questa lacuna e rappresenta la matrice dell’attualmente vigente Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206, "Codice del consumo, a norma dell'articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229".

[67] Si veda F. Fenghi, Programmazione economica e modo di produzione capitalistico, in La Costituzione Economica, a cura di F. Galgano, Padova, Cedam, 1979. Cfr, inoltre, R. A. Dahl, La democrazia economica, Mulino, 1985.