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FRANCESCO DAL CANTO

 

MATRIMONIO TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO: LA PAROLA ALLA CORTE COSTITUZIONALE*

 

1. La vicenda. Il 3 aprile 2009 il Tribunale di Venezia, III sezione civile, ha promosso dinanzi alla Corte costituzionale la questione di legittimità degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis del codice civile “nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso”, in violazione degli artt. 2, 3, 29 e 117, comma 1, Cost.

A tale pronuncia ne sono seguite altre tre, nella sostanza analoghe, sebbene non del tutto coincidenti (sia per l’oggetto che per i parametri di costituzionalità invocati), tutte scaturite da giudizi promossi all’indomani di provvedimenti di rifiuto da parte dell’ufficiale dello stato civile di procedere alle pubblicazioni matrimoniali di due persone dello stesso sesso (Corte di appello di Trento, Sezione civile, ord. 29 luglio 2009; Corte di appello di Firenze, I Sezione civile, ord. 3 dicembre 2009; Tribunale di Ferrara, ord. 14 dicembre 2009).

 

2. I precedenti. In altre, pur rare, occasioni la rivendicazione di diritti da parte di coppie omosessuali è giunta dinanzi a giudici italiani. Già il Tribunale di Roma, il 28 giugno 1980, adottò un decreto camerale con il quale respinse un ricorso proposto da due giovani omosessuali avverso il rifiuto di procedere alle pubblicazioni matrimoniali (in Giur.it., I, 1982, 170ss., con nota di T. Galletto, Identità di sesso e rifiuto di pubblicazioni per la celebrazione del matrimonio). Più di recente la Corte di Appello di Firenze (ord. 628/2007) ha rigettato un reclamo promosso avverso un decreto emesso dal Tribunale di Firenze con il quale era stato rigettato il ricorso presentato da due persone dello stesso sesso contro il rifiuto di effettuare le pubblicazioni matrimoniali.

E ancora, con decreto della Corte d’Appello di Roma del 13 luglio 2006 (annotato da F. Bilotta, Un’inattesa apertura costituzionale nonostante la conferma di inesistenza, in Guida al diritto, n. 35 del 2006, 59ss.), è stato respinto il reclamo che due persone del medesimo sesso avevano proposto contro il provvedimento del Tribunale di Latina con il quale era stato rigettato il ricorso dei medesimi avverso il rifiuto dell’Ufficiale dello stato civile di trascrivere il matrimonio dagli stessi contratto all’estero.

Tuttavia le ordinanze del 2009 rappresentano senza dubbio una rilevante novità.

Per la prima volta, infatti, il tema del matrimonio omosessuale supera il filtro di “non manifesta infondatezza” operato dai giudici e viene sottoposto al giudizio della Corte costituzionale.

 

3. Il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Tutte le autorità giudiziarie remittenti dedicano la prima parte della motivazione a ricostruire il diritto italiano vigente, ricavando dalle disposizioni del codice civile la norma che vieta il matrimonio omosessuale, per poi farne oggetto di impugnazione.

Nella motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Venezia si osserva, in particolare, che “l’istituto del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano è inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi”. Il requisito della eterosessualità viene qualificato, richiamando alcuni rari precedenti della Corte di cassazione (Cass. n. 7877/2000, 1304/1990 e 1808/1976), alla stregua di un “presupposto indispensabile”, la cui assenza produce, non un mero impedimento alla celebrazione del matrimonio, ma la stessa “inesistenza della fattispecie”. 

Tale deduzione è il risultato di un processo argomentativo che si snoda su due momenti.

In primo luogo si fa ricorso all’argomento letterale. Pur ammettendo che “nel nostro sistema il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato espressamente”, si osserva che in diverse disposizioni del codice civile ci si riferisce al “marito” e alla “moglie” come attori della celebrazione (artt. 107 e 108) e protagonisti del rapporto coniugale (art. 143), con la conseguenza che “per il chiaro tenore delle norme sopra indicate non sia possibile - allo stato della normativa vigente - operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso”.

L’argomento letterale, da solo, appare probabilmente fragile ai giudici. Non è un caso, del resto, che il coacervo di disposizioni selezionate per delimitare il thema decidendum muti parzialmente da un’ordinanza all’altra. Il ragionamento, allora, viene rafforzato attraverso altre tecniche interpretative: si richiama la “tradizione” (ordd. Venezia e Ferrara), osservandosi che il mancato riconoscimento per le coppie dello stesso sesso del diritto di contrarre matrimonio si fonda su una “consolidata e ultramillenaria nozione”; si fa ricorso all’“etimologia” (Firenze), sottolineando, con ampia citazione dal dizionario Devoto-Oli, che “non v’è dubbio che nella lingua italiana per matrimonio s’intenda il rapporto di convivenza dell’uomo e della donna …”.

 

4. Le censure di incostituzionalità. Una volta ricostruita la norma di divieto del matrimonio omosessuale, le autorità remittenti passano ad esaminare le ragioni della sua illegittimità costituzionale. Viene notato, in via preliminare, che “nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali” (ord. Venezia).

Il primo riferimento costituzionale con il quale le motivazioni delle quattro ordinanze si confrontano è l’art. 2 Cost., laddove “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. I giudici segnalano che tra i diritti inviolabili deve senz’altro essere annoverato il diritto di sposarsi e, in particolare, di poter scegliere il coniuge a prescindere dalla sua identità di genere. Il riconoscimento di tale diritto è “un momento essenziale di espressione della dignità umana” (ord. Ferrara) e da esso non può essere lamentato “alcun pericolo di lesione ad interessi pubblici o privati di rilevanza costituzionale” contrapposti. A quest’ultimo proposito nelle ordinanze di Venezia e di Ferrara si ricorda come non entri in gioco, nei casi di specie, il diritto dei figli di crescere in un ambiente idoneo, dal momento che, a prescindere da ogni altra considerazione, la questione dell’adozione è distinta da quella del matrimonio, essendo esclusa ogni automaticità tra i due istituti.

Il secondo parametro di riferimento è rappresentato dall’art. 3 Cost., laddove vengono vietate irragionevoli disparità di trattamento tra individui, osservandosi che “la norma che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso non ha alcuna giustificazione razionale” (Venezia) e dunque si presenta come irragionevolmente discriminatoria. Ancora, si sostiene che, “siccome il baluardo eretto dall’art. 3 Cost. impedisce nel modo più categorico che la contingente inclinazione sessuale possa costituire motivo di discriminazione tra cittadini, bisogna ritenere che la libertà di scegliere un coniuge dotato di un certo sesso piuttosto che di un altro sia garantita dall’ordinamento …” (Firenze).

Onde rafforzare le censure riguardanti il profilo dell’uguaglianza alcuni giudici a quibus svolgono un parallelo con la situazione in cui si trovano le persone transessuali, le quali, ottenuta la rettificazione di attribuzione di sesso biologico ai sensi della legge n. 164/1982, possono contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso originario (cfr., per tutti, R. Romboli, La libertà di disporre del proprio corpo, sub art. 5, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, 257ss.). Ma tale richiamo, sia detto per inciso, non pare del tutto convincente; si potrebbe anzi chiosare come esso si presti ad essere utilizzato in senso contrario. E’ possibile infatti affermare che la previsione per la quale l’ordinamento italiano consente il matrimonio tra due persone del medesimo sesso biologico esclusivamente “a seguito di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali” (art. 1) di uno dei due, e della successiva attribuzione a quest’ultimo, con provvedimento dell’autorità giudiziaria, del sesso opposto, rafforzi anziché indebolire il paradigma tradizionale che vede nell’eterosessualità un presupposto essenziale del matrimonio.

Infine, un ulteriore rilievo di costituzionalità è quello che attiene all’art. 29, comma 1, Cost., ai sensi del quale “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Per quanto tale profilo sia affrontato per ultimo in tutte le ordinanze, appare subito evidente, anche dallo spazio dedicatogli nelle motivazioni, che esso gioca un ruolo decisivo. Tale censura si pone, in effetti, in una posizione di pregiudizialità rispetto alle altre, le quali possono essere prospettate soltanto a condizione che si acceda all’idea, condivisa in effetti da tutti i giudici a quibus, della neutralità della nozione costituzionale di matrimonio. Su tale problematica ci soffermeremo più avanti.

 

5. Il riferimento all’ordinamento sovranazionale. Tutte le ordinanze fanno largo utilizzo del rinvio all’ordinamento sovranazionale onde rafforzare gli argomenti a supporto della non manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità; rinvio che il giudice veneziano giustifica attraverso il diretto richiamo dell’art. 117, comma 1, Cost., nella formulazione novellata nel 2001, laddove si impone alla legislazione statale e regionale il rispetto dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Si richiamano dapprima una serie di risoluzioni del Parlamento europeo, che, già sedici anni orsono, ha ritenuto di dover esortare gli Stati a “porre fine agli ostacoli frapposti al matrimonio di coppie omosessuali” (cfr. la nota ris. 8 febbraio 1994, i cui contenuti sono stati successivamente ribaditi nel 2000, nel 2003 e nel 2006). Si fa rinvio, poi, tra le numerose disposizioni richiamate, in particolare all’art. 12 della C.E.D.U. (che integra, quale norma interposta, il parametro di costituzionalità ex art. 117, comma 1, Cost., come ha affermato Corte cost., sentt. nn. 348 e 349/2007) e all’art. 9 della Carta di Nizza (che, lo si ricorda, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, intervenuta nel dicembre 2009, ha assunto il medesimo valore giuridico dei Trattati comunitari), previsioni che, pur impiegando una terminologia lievemente diversa, fanno il medesimo espresso riferimento al “diritto di sposarsi” e di “costituire una famiglia”.

Tuttavia tali richiami appaiono indicativi ma non certamente conclusivi.

Quanto alle risoluzioni del Parlamento europeo, occorre notare come esse siano dirette a sollecitare gli stati membri, alternativamente, ad estendere l’istituto matrimoniale alle coppie formate da persone dello stesso sesso, oppure - lasciando agli stati la possibilità di scegliere soluzioni più “caute” - ad introdurre nelle legislazioni nazionali “istituti giuridici equivalenti”, e dunque non coincidenti con l’istituto matrimoniale (E. Rossi, L’Europa e i gay, in Quad.cost., 2000, 405). Del resto sono soltanto tre, ad oggi, gli stati dell’Unione europea che hanno esteso tout court il preesistente istituto matrimoniale alle persone dello stesso sesso - Belgio, Olanda e Spagna - mentre molti altri ordinamenti hanno preferito introdurre forme diverse di riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, per quanto talora anche assai simili al matrimonio (cfr. N. Pignatelli, I livelli europei di tutela delle coppie omosessuali tra “istituzione” matrimoniale e “funzione” familiare, in Rivista di diritto costituzionale, 2005, 264ss.).

Anche il richiamo degli artt. 12 CEDU e 9 della Carta di Nizza assume una forza relativa, tenuto conto che tali disposizioni fanno rinvio alle “leggi nazionali” per la disciplina delle modalità del concreto esercizio del diritto di sposarsi, cosicché può affermarsi che il sistema comunitario considera gli istituti della famiglia e del matrimonio come nozioni giuridiche presupposte, né impedendo né obbligando gli stati alla concessione dello status matrimoniale alle unioni omosessuali, favorendo in definitiva su questo tema il più ampio pluralismo culturale e legislativo (cfr. S. Rodotà, Presentazione a F. Grillini e M.R. Marella (a cura di), Stare insieme, Napoli, 2001, XIV).

E ancora, non può non ricordarsi come alla relativa “spregiudicatezza” delle risoluzioni del Parlamento europeo e alla tendenziale apertura delle Carte abbia fino ad oggi corrisposto un’evidente prudenza delle Corti europee, sia quella comunitaria che quella europea dei diritti dell’uomo, le quali, senza sostanziali cambiamenti di rotta negli ultimi anni, accolgono “pacificamente” il principio in base al quale la diversità di sesso tra i coniugi è elemento strutturale dell’istituto matrimoniale “alla luce della tradizione degli stati europei” (tra le altre, v. Corte europea dei diritti, 17 ottobre 1986, n. 106, Corte europea dei diritti, 27 settembre 1990, n. 184; Corte giust., 31 maggio 2001, C-122/99 P e C-125/99 P), tanto che si è parlato, a tale proposito, di una vera e propria “nozione comunitaria di matrimonio” (B. Pezzini, Matrimonio e convivenze stabili omosessuali, Resistenza del paradigma eterosessuale nel diritto comunitario e difficoltà del dialogo con le legislazioni nazionali (nonostante la Carta dei diritti fondamentali), in Riv.dir.pubbl., 2001, 1519).

Infine, anche nella nota decisione del 2002 della Corte di Strasburgo (caso Goodwin c. Regno Unito dell’11 luglio), ampiamente citata nella motivazione del Tribunale di Venezia, la dichiarazione di contrarietà alla CEDU del divieto per il transessuale di contrarre matrimonio con persona del suo stesso sesso originario non sembra in effetti sconfessare i ricordati precedenti orientamenti, ma anzi, come prima si accennava, indirettamente li rafforza: essa difatti si fonda proprio sul presupposto dell’intervenuto mutamento di sesso di uno dei membri della coppia, e la legislazione britannica viene censurata laddove, discriminatoriamente, non riconosce a tale mutamento alcun valore giuridico (L. TRUCCO, Il transessualismo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo alla luce del diritto comparato, in DPCE, 2003, 381).

 

6. La famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”. I giudici remittenti, come si è detto, danno credito alla tesi della neutralità dell’art. 29 con riguardo alla questione della definizione della nozione di famiglia e di matrimonio.

Si osserva, infatti, in motivazione che la formula “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” va intesa come esclusivamente volta a collocare tale formazione sociale all’interno di una sfera di autonomia dall’ordinamento statale, in quanto comunità originaria, preesistente alla Stato e al diritto. Del resto anche dalla lettura del dibattito svoltosi in seno all’Assemblea costituente - nota il giudice veneto, richiamando l’on. Aldo Moro - può evincersi come a tale locuzione non si sia inteso attribuire alcun valore definitorio e come al termine “naturale” si sia voluto riconoscere semplicemente il significato di “razionale”, nel senso di rispondente ad un bisogno primario della persona quale essere relazionale. Per la suddetta ragione - è la logica conclusione del ragionamento - la determinazione dei significati da attribuire a tale istituto deve essere rimessa esclusivamente alle trasformazioni della società. “Il fatto che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità dell’art. 29 Cost.” - prosegue ancora l’ordinanza veneta - “e che famiglia e matrimonio si presentino come istituti di carattere aperto alle trasformazioni (…) è poi indubitabilmente dimostrato dall’evoluzione che ha interessato la loro disciplina dal 1948 ad oggi ….”.

L’orientamento accolto dai giudici a quibus rappresenta un’“apertura costituzionale” di un certo rilievo, che va ad inserirsi in un dibattito che ha conosciuto di recente un rinnovato vigore. Tale dibattito è tutto incentrato sulla complessa esegesi dell’art. 29 Cost., in parte ripresa nelle motivazioni delle ordinanze, a partire dalla ricostruzione della faticosa genesi di tale disposizione.

Pur tenendo conto del rilievo relativo che deve essere attribuito all’intenzione del redattore nell’attività ermeneutica, può essere utile ricordare che in Assemblea costituente la definizione di famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” finì per rappresentare il punto di equilibrio rispetto ad una duplice esigenza manifestata - con il tiepido assenso dell’on. Togliatti, cui peraltro si deve la formulazione definitiva - per lo più dai Costituenti cattolici: da una parte, quella di affermare in modo esplicito che la famiglia doveva qualificarsi come una comunità preesistente allo Stato, cui quest’ultimo doveva limitarsi a “riconoscere” diritti; dall’altra, quella di individuare tale società naturale in una ben precisa forma di organizzazione sociale, cioè nella famiglia fondata sul matrimonio, tipico istituto giuridico regolato dallo Stato e dal diritto. Tuttavia, ciò che in seguito sarebbe apparsa a taluno come una palese contraddizione, al punto da sottolineare il carattere di ossimoro della locuzione contenuta nell’art. 29 (R. Bin, La famiglia: alla radice di un ossimoro, in Studium iuris, 2002, 1066ss.), venne alfine accolto dalla parte prevalente della Assemblea costituente, e non soltanto dalla componente cattolica, alla stregua di un’“endiadi”, anche per il motivo per il quale all’epoca non si immaginavano modelli “naturali” di famiglia realmente alternativi a quello riconducibile al matrimonio tradizionale. Pare difficile negare come anche lo stesso on. Aldo Moro, dal quale i giudici remittenti traggono ampie citazioni, avesse in mente un preciso modello familiare quando sottolineava, sempre nel dibattito in Assemblea costituente, il ruolo esclusivo e peculiare della famiglia quale “cellula creatrice della società”.

Vero è che l’evoluzione sociale, la crisi dei rapporti familiari tradizionali e il progressivo consolidarsi di modelli culturali differenziati hanno contribuito a rendere più marcata, almeno agli occhi di alcuni osservatori, la potenziale contraddizione presente nel dettato costituzionale. In verità, nel corso degli oltre sessant’anni che ci separano dall’entrata in vigore della Costituzione tale aporia è stata ora negata ora avvertita, nella dottrina e nella società civile, con intensità diverse.

Due, peraltro, sono le principali ricostruzioni che si sono contrapposte, cui sono andate ad aggiungersi diverse posizioni intermedie. Da una parte la tesi che, accentuando e probabilmente forzando il carattere pregiuridico dell’istituto familiare, lo intende quale organismo astorico ed immutabile, collocato al di fuori di qualsiasi possibile ingerenza dello Stato, il quale vede fortemente ridotto il proprio potere non soltanto di regolamentare ma anche di attribuire a tale istituto significati diversi da quelli trasmessi dalle tradizioni culturali e dalla coscienza comune, sul presupposto implicito che “la” tradizione conduca all’individuazione di un ben definito tipo di famiglia: appunto quello “naturale”, che è monogamico, eterosessuale e potenzialmente aperto alla procreazione (cfr., tra gli altri, C. Grassetti, voce Famiglia (diritto privato), in Nss.D.I., VII, 1961, 50ss.e G. Lombardi, La famiglia nell’ordinamento italiano, in Iustitia, 1965, 3ss.).

Dall’altra, in senso contrario, l’indirizzo seguito da chi, analogamente ai giudici remittenti, opta per un’interpretazione di tipo storicistico dell’art. 29 e legge l’aggettivo “naturale” collegato alla famiglia non nel senso della sua “originarietà” bensì della sua “essenzialità” o “socialità”, da intendere come capacità di rispondenza ad un bisogno fondamentale della persona. In questa diversa prospettiva la fisionomia della famiglia è destinata a mutare con il corso della storia e con l’evoluzione della società e conseguentemente il connesso modello assume connotati continuamente mutevoli. L’art. 29 diviene, in questa visione, disponibile in linea di principio ad ogni opzione interpretativa, una sorta di norma “in bianco”, “neutrale” appunto, un mero rinvio alla concezione di famiglia che si realizza in un dato momento storico, e quindi interamente nella disponibilità delle scelte del legislatore (cfr., tra gli altri, A. Pugiotto, Alla radice costituzionale dei “casi”: la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”, in www.forumcostituzionale.it e P. Veronesi, Costituzione, “strane famiglie” e “nuovi matrimoni”, in Quad. cost., 2008, 577ss.).

Vi sono, infine, ricostruzioni che si collocano su posizioni intermedie rispetto alle due precedenti e che, prescindendo qui dai diversi percorsi argomentativi seguiti, pur non disconoscendo la relatività e la storicità della nozione costituzionale di famiglia, postulano l’esistenza di un “nucleo duro” della stessa di cui il legislatore ordinario non potrebbe liberamente disporre. Tale contenuto minimo essenziale, definibile attraverso il ricorso alla tradizione, al radicamento nel tessuto sociale e al senso comune attribuito alle parole, consisterebbe proprio nell’elemento della diversità di sesso tra i coniugi (cfr., tra gli altri, F. Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv.dir.civ., 2002, spec. 520s. e A. Ruggeri, Idee sulla famiglia e teoria (e strategia) della Costituzione, in Quad.cost., 2007, 751ss. e, volendo, F. Dal Canto, Matrimonio tra omosessuali e principi della Costituzione italiana, in Foro it., 2005, V, 275ss.) 

 

7. Le prospettive. Proviamo, a questo punto, ad immaginare le soluzioni cui potrebbe giungere la Corte costituzionale. Il suo giudizio potrebbe concludersi, innanzi tutto, con una pronuncia di inammissibilità, semplice o manifesta.

In primo luogo tale dispositivo, pur con qualche forzatura, potrebbe essere motivato denunciando il carattere parzialmente contraddittorio delle ordinanze di remissione. Come si è notato, infatti, i giudici a quibus, allo scopo di ricavare, in via di interpretazione sistematica, la norma che vieta il matrimonio omosessuale, fanno ricorso, oltre che all’argomento letterale, anche alla tradizione e all’etimologia, e tali argomenti, come si è notato, finiscono per avere un peso determinante nella ricomposizione del tessuto legislativo. Ma se ciò è vero, potrebbe forse essere sottolineata l’incoerenza di rivolgersi alla tradizione, attribuendo ad essa una precisa “consistenza giuridica”, quando si tratta di giustificare, a livello legislativo, l’esistenza del divieto del matrimonio omosessuale, salvo poi negare la legittimità di tale richiamo quando si tratta di interpretare la nozione costituzionale di “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (nozione dai giudici ritenuta, infatti, “neutra”).

In secondo luogo, l’inammissibilità potrebbe essere argomentata in ragione della circostanza che i giudici a quibus avrebbero dovuto, anziché chiamare in causa la Corte costituzionale, prodursi nell’interpretazione adeguatrice delle disposizioni legislative censurate. Se è vero - potrebbe infatti osservare il Giudice delle leggi - che non esiste una disposizione del codice civile che esplicitamente vieta il matrimonio tra persone dello stesso sesso, e che anzi essa viene implicitamente dedotta attraverso un’interpretazione sistematica da un lungo, e non univoco, elenco di disposizioni, non si comprende la ragione per la quale non debbano essere gli stessi giudici a sottoporre il tessuto legislativo ad una interpretazione idonea a preservare la legalità costituzionale. Si lambisce qui la delicata e sempre più attuale questione riguardante la delimitazione degli esatti confini tra diritto politico e diritto giurisprudenziale, su cui non è il caso, in questa sede, di entrare.

Venendo ora all’ipotesi che la Corte giunga ad una decisione sul merito della questione di costituzionalità, si dovrebbe innanzi tutto scegliere una delle possibili letture dell’art. 29.

Accogliendo la prima, quella che fa leva sulla “tradizione”, la norma che vieta il matrimonio omosessuale non potrebbe essere considerata illegittima ma, al contrario, pienamente conforme alla nozione costituzionale di famiglia. Alla stessa soluzione, peraltro, si dovrebbe pervenire anche accogliendo una delle soluzioni intermedie, ritenendo cioè che la nozione costituzionale di famiglia, pur non insensibile ai mutamenti sociali, presupponga un nucleo duro che annovera l’eterosessualità tra i suoi caratteri essenziali. E tale soluzione potrebbe essere forse argomentata anche ricorrendo ad un’interpretazione sistematica delle disposizioni costituzionali dedicate alla famiglia, a partire dal riferimento all’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la quale parrebbe in effetti presupporre la differenza di genere (G. Grasso, “Dico” sì, “Dico” no: prime impressioni sul disegno di legge Pollastrini-Bindi, in www.forumcostituzionale.it). Per questa via, dunque, la Corte dovrebbe definire il giudizio con una decisione di infondatezza.

Accogliendo invece la soluzione opposta, quella che poggia sulla “neutralità” dell’art. 29, il Giudice delle leggi, pur dovendo riconoscere, a futura memoria, che nessun limite di legittimità può essere opposto al legislatore nell’ipotesi di un’eventuale innovazione del tipo indicato, non potrebbe tuttavia ricavare da tale lettura costituzionale l’illegittimità della norma di divieto del matrimonio omosessuale. Valutazione che, in questo caso, dovrebbe essere condotta con riferimento esclusivo agli altri parametri evocati nelle ordinanze di remissione (in particolare, gli artt. 2 e 3 Cost.).

Si aprirebbero, per questa via, altri due possibili scenari: in primo luogo, ancora l’adozione di un dispositivo di rigetto, qualora si dovesse ritenere che il mancato riconoscimento da parte del legislatore del diritto delle persone dello stesso sesso di unirsi in matrimonio non comporta una illegittima discriminazione nè viola un diritto fondamentale, rientrando peraltro nella discrezionalità del legislatore la scelta di provvedere, eventualmente, nel senso indicato. In secondo luogo, l’adozione di una dispositivo di accoglimento additivo, accertando la Corte la violazione dei richiamati parametri e sancendo l’incostituzionalità dell’omissione legislativa.  

 

8. Osservazioni conclusive. A parere di chi scrive, e in conclusione, sarebbe auspicabile che la Corte decidesse nel merito la questione di costituzionalità sollevata dai giudici remittenti, affrontando con coraggio il rischio delle polemiche e delle strumentalizzazioni che, in qualunque direzione vada la sua pronuncia, inevitabilmente seguiranno.

Su un tema così delicato, sul quale si concentrano molteplici aspettative, tensioni e sofferenze, non sarebbe augurabile rifugiarsi in soluzioni di tipo processuale, tanto più se le stesse dovessero andare nel senso di rinviare la soluzione del problema al pluralismo delle scelte dei giudici comuni.

Com’è stato condivisibilmente osservato (da E. Crivelli, Il matrimonio omosessuale all’esame della Corte costituzionale, in www.associazionedeicostituzionalisti.it), anche se la Corte dovesse orientarsi per una decisione di rigetto, potrebbe comunque essere questa l’occasione per ribadire la non ulteriore procrastinabilità di una soluzione legislativa che, magari sotto la copertura dell’art. 2 Cost., provveda ad una qualche forma di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali e dei diritti fondamentali a queste collegati.



* Riprende analogo contributo pubblicato su Famiglia e minori, Guida al diritto, n. 2/2010.