Sentenza n. 50 del 2019

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SENTENZA N. 50

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», promossi dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Bergamo, con ordinanze del 27 gennaio e del 26 settembre 2016, iscritte rispettivamente ai numeri 255 e 275 del registro ordinanze 2016 e pubblicate, rispettivamente, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2016, e n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di V. M. e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI);

udito nella udienza pubblica del 4 dicembre 2018 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Giulio Prosperetti;

uditi gli avvocati Alberto Guariso per V. M., Clementina Pulli per l’INPS e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 27 gennaio 2016, questioni incidentali di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», nella parte in cui subordina il diritto a percepire l’assegno sociale, per gli stranieri extracomunitari, alla titolarità della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo), in riferimento agli artt. 3, 38 e 10, secondo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Il giudice a quo riferisce di essere investito del ricorso che una cittadina albanese (legalmente soggiornante in Italia dal 2001 con permesso di soggiorno rilasciato per motivi familiari) aveva proposto avverso la determinazione amministrativa con cui l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) aveva respinto la sua domanda di riconoscimento dell’assegno sociale, perché «non in possesso della carta di soggiorno divenuta ora permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo».

Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 3 della Cost., introducendo «una ingiustificata disparità di trattamento tra cittadini italiani e cittadini stranieri, entrambi legalmente soggiornanti nel territorio nazionale, laddove soltanto per i secondi è previsto l’ulteriore requisito di essere in possesso della carta o del permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo»; contrasterebbe, inoltre, con l’art. 10, secondo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, disattendendo il divieto di ogni discriminazione in base all’origine nazionale; e violerebbe, infine, l’art. 38 Cost., «in quanto il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale del cittadino straniero, legalmente soggiornante in Italia da più di 10 anni […] viene limitato dal possesso di una certificazione di tipo amministrativo».

1.1.– L’INPS si è costituita in giudizio, concludendo per l’inammissibilità o, comunque, per la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

La difesa dell’Istituto ha rammentato come la Corte di cassazione, sezione lavoro, abbia ritenuto non irragionevole, nella parte che qui rileva, la previsione dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 6 dicembre 2016, n. 24981 e 30 ottobre 2015, n. 22261), richiamando inoltre l’ordinanza n. 180 del 2016 con cui questa Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile analoga questione.

1.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, a sua volta, ha concluso per l’inammissibilità ovvero per la manifesta infondatezza delle questioni sollevate dal giudice a quo.

In punto di rilevanza, ha eccepito la carenza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’attuale condizione di indigenza dell’interessata, richiesta ai fini dell’attribuzione della prestazione dell’assegno sociale.

Nel merito, l’Avvocatura ha sottolineato «l’obiettiva diversità», che presenta l’assegno sociale, «rispetto alle altre prestazioni assistenziali, in relazione alle quali si è già pronunciata [questa] Corte, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, cit.»; ed ha individuato la ragione di tale diversità nel fatto che l’assegno sociale prescinde «dalla prova dell’esistenza di minorazioni psico fisiche congenite o acquisite (sordità, cecità, incapacità al compimento degli atti quotidiani della vita) e nella misura (totale o parziale) richiesta per la concessione di ciascuna singola prestazione». Ne ha, quindi, inferito che, in tema di assegno sociale «[i]l titolo di soggiorno richiesto per gli stranieri non si risolve […] nella richiesta di un mero certificato amministrativo …[ma] è volto a scoraggiare atteggiamenti di opportunità consistenti nel c.d. turismo assistenziale». Ciò anche «in considerazione della tipica natura di diritto “finanziariamente condizionato” della prestazione in esame, che impone un attento contemperamento dei diritti individuali con le imprescindibili esigenze di compatibilità finanziaria della relativa spesa».

2.– Nel corso di analogo giudizio civile – promosso da un cittadino di nazionalità serba (del pari entrato in Italia con un «permesso di soggiorno per motivi familiari» e qui vissuto stabilmente per quasi venti anni), il quale chiedeva l’annullamento della determinazione amministrativa con la quale l’INPS aveva respinto la sua domanda di riconoscimento dell’assegno sociale per la mancanza del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo – il Tribunale ordinario di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 26 settembre 2016, ha sollevato, a sua volta, questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, «nella parte in cui subordina la concessione dell’assegno sociale agli stranieri extracomunitari al possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo», per contrasto con gli artt. 3, 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU.

In premessa, e ai fini della rilevanza delle questioni, il giudice a quo ha esaminato il carattere “aggiuntivo” della disciplina dettata dall’art. 20, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, il quale stabilisce che «[a] decorrere dal 1° gennaio 2009, l’assegno sociale di cui all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, è corrisposto agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato legalmente in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale». E ciò al fine di escludere che il requisito del soggiorno legale e continuativo nel territorio nazionale, così ora elevato (da cinque) a dieci anni, possa avere assorbito il requisito del possesso della carta di soggiorno agli effetti della concessione dell’assegno sociale.

Ha escluso, altresì, che nel caso di specie possa trovare diretta applicazione l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, che impone la parità di trattamento fra i “lavoratori” stranieri e i cittadini dello Stato europeo che li ospita per quanto riguarda il settore della sicurezza sociale. E ciò perché – anche ove si ritenga che una tale tutela del “lavoratore” possa essere anticipata ad una situazione di potenzialità lavorativa – il ricorrente «non ha mai lavorato per tutta la durata della sua vita lavorativa» e non può, per questo, «in concreto essere qualificato come un “lavoratore”».

Nel merito, la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, è motivata, in particolare, in ragione della contraddittorietà intrinseca della disposizione censurata, consistente «nel subordinare la prestazione al possesso di un requisito che presuppone l’esistenza di un minimo reddituale, alla cui mancanza la prestazione stessa dovrebbe sopperire».

Il vulnus all’art. 10, primo comma, Cost. muove poi dalla considerazione che «al legislatore è consentito dettare norme non palesemente irragionevoli, che regolino l’ingresso e la permanenza di extracomunitari in Italia, ma una volta che il diritto a soggiornare non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona».

Infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, discenderebbe dal carattere «ridondante» e «discriminatorio» del requisito ulteriore del permesso di soggiorno di lunga durata, nel contesto della disposizione censurata.

2.1.– Si è costituita la parte privata M. V., la quale ha concluso per la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate o, in subordine, per la loro inammissibilità, alla luce di una interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata, ovvero per omessa considerazione del diritto comunitario applicabile.

All’uopo ha evidenziato che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, rilasciato ai sensi della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, richiede, oltre al regolare soggiorno quinquennale, anche due requisiti patrimoniali-reddituali, ossia la titolarità di un alloggio idoneo e la titolarità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale. Sicché il reddito necessario per ottenere il permesso UE sarebbe esattamente coincidente con il beneficio che da quel permesso è condizionato.

Ha prospettato, inoltre, che il presupposto del pregresso radicamento del richiedente sul territorio nazionale possa ritenersi ora ampiamente soddisfatto dall’ulteriore requisito della consolidata residenza decennale, come introdotto dall’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008.

In subordine, ha sostenuto che, alla luce di una «lettura costituzionalmente conforme all’assetto normativo vigente», «il requisito della residenza decennale introdotto dall’art. 20, c. 10, D.L. 112/2008 – proprio per la sua incompatibilità logica con un requisito di regolare soggiorno di durata almeno quinquennale – potrebbe aver abrogato quello previsto dal citato art. 80, c. 19», come sarebbe dato arguire dall’ordinanza di questa Corte n. 180 del 2016. E, in via ulteriormente gradata, ha espresso l’avviso che possano, nella specie, ritenersi sussistenti tutti i presupposti, soggettivi ed oggettivi, per ritenere direttamente applicabile l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE, che richiama il regolamento (CE) n. 883/04 del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, ai fini della equiparazione degli stranieri extracomunitari ai cittadini italiani, agli effetti della concessione dell’assegno per cui è causa.

2.2.– Si è costituito l’INPS, che ha eccepito, anche in questo caso, l’inammissibilità e la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle già illustrate in relazione all’ordinanza del Tribunale di Torino.

2.3.– Nel giudizio è intervenuta l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), la quale ha argomentato circa la propria legittimazione ad intervenire in ragione dello scopo statutario perseguito di promuovere l’informazione sulla tutela contro la discriminazione degli stranieri. Nel merito, ha argomentato riprendendo le deduzioni e le conclusioni della parte privata.

2.4.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso, anche in questo giudizio, per l’inammissibilità o, in subordine, per la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

2.5.– L’ASGI e la parte privata hanno depositato memorie integrative. La prima ha dedotto in ordine all’ammissibilità dell’intervento, in quanto portatrice diretta della medesima posizione giuridica della parte privata. Quest’ultima ha rilevato che già più Corti di merito, aderendo ad una lettura conforme alla Costituzione e alla normativa sovranazionale, hanno interpretato la disposizione censurata nel senso che il requisito del soggiorno legale e decennale in Italia avrebbe superato l’esigenza del possesso della carta di soggiorno di lungo periodo per i cittadini extracomunitari. Ha, inoltre, evidenziato che altre pronunce di merito hanno equiparato la posizione degli stranieri a quella degli italiani, applicando direttamente l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 27 gennaio 2016 (r.o. n. 255 del 2016), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», nella parte in cui subordina il diritto a percepire l’assegno sociale, per gli stranieri extracomunitari, alla titolarità della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo), in riferimento agli artt. 3, 38 e 10, secondo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

A sua volta, il Tribunale ordinario di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 26 settembre 2016 (r.o. n. 275 del 2016), ha denunciato la medesima disposizione, sotto analogo profilo, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU.

La disposizione censurata testualmente dispone che «[a]i sensi dell’articolo 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 [Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero], l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno […]».

La carta di soggiorno è stata sostituita dal permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (id est, soggiornanti da almeno cinque anni), di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito dall’art. 1 del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), e ha, quindi, assunto la denominazione di «[p]ermesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», a seguito della modifica in tal senso apportata alla rubrica dell’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998 dalla disposizione finale di cui all’art. 3 del decreto legislativo 13 febbraio 2014, n. 12 (Attuazione della direttiva 2011/51/UE, che modifica la direttiva 2003/109/CE del Consiglio per estenderne l’ambito di applicazione ai beneficiari di protezione internazionale).

L’art. 20, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, ha poi stabilito che «[a] decorrere dal 1° gennaio 2009, l’assegno sociale di cui all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 [Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare], è corrisposto agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno 10 anni nel territorio nazionale».

2.– Con due distinte ordinanze – che, per la sostanziale coincidenza del petitum, possono riunirsi per essere congiuntamente decise – i giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale del predetto art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui la concessione dell’assegno sociale agli stranieri (che abbiano compiuto 65 anni e si trovino nelle condizioni reddituali previste dalla legge), legalmente e continuativamente (ora, da almeno dieci anni) soggiornanti in Italia è subordinata al requisito “ulteriore” della titolarità della carta di soggiorno, divenuta permesso CE (ora UE) per soggiornanti di lungo periodo.

2.1.– Per entrambi i rimettenti la disposizione denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., e con l’art. 14 CEDU, quest’ultimo richiamato come norma interposta ai fini della violazione dell’art. 10, secondo comma, e dell’art. 117, primo comma, Cost., rispettivamente, dal Tribunale di Torino e dal Tribunale di Bergamo.

Sarebbero, inoltre, violati l’art. 38 Cost., secondo il Tribunale di Torino, e l’art. 10, primo comma, Cost. secondo il Tribunale di Bergamo.

2.2.– In entrambi i giudizi si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), che ha contestato l’ammissibilità e la fondatezza della questione; ed è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri che ne ha, a sua volta, chiesto una declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza.

2.3.– Nel giudizio promosso dal Tribunale di Bergamo si è costituita la parte privata per aderire, in via principale, alla prospettazione del giudice a quo e per eccepire, in via subordinata, l’inammissibilità della questione «per omessa interpretazione costituzionalmente orientata» ovvero «per omessa considerazione del diritto comunitario applicabile».

3.– Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum proposto dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI). Ciò in quanto detta associazione fa valere, a tal fine, un mero indiretto, e più generale, interesse, connesso al suo scopo statutario, a «promuovere l’informazione, la documentazione e lo studio dei problemi, di carattere giuridico, attinenti all’immigrazione, alla condizione dello straniero (nonché dell’apolide e del rifugiato), alla disciplina della cittadinanza nell’ordinamento italiano, alla tutela contro la discriminazione, il razzismo e la xenofobia»; e non è, quindi, titolare di un interesse direttamente riconducibile al presente giudizio, quale unicamente potrebbe legittimarne l’intervento, come soggetto terzo, nel giudizio stesso, senza contraddirne l’incidentalità.

4.– Ancora in via preliminare vengono in esame le eccezioni – formulate, in entrambi i giudizi, sia dall’INPS, sia dal Presidente del Consiglio dei ministri – di inammissibilità delle questioni sollevate, per difetto di motivazione sulla loro rilevanza e non manifesta infondatezza.

4.1.– Quanto al dedotto difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni formulate dal Tribunale di Torino, esso deriverebbe dal fatto che il giudice a quo non avrebbe motivato in ordine alla sussistenza degli ulteriori requisiti previsti ai fini della concessione dell’assegno sociale, sicché l’accoglimento del dubbio di costituzionalità potrebbe non produrre effetti concreti nel giudizio principale. L’eccezione non appare fondata in punto di rilevanza, giacché il Tribunale di Torino ha accertato la ricorrenza dei requisiti, con particolare riferimento alle pregresse condizioni reddituali (di poche centinaia di euro annui), peraltro non più esistenti all’epoca della richiesta delle provvidenze in questione. È altresì adeguatamente motivata la non manifesta infondatezza delle questioni.

4.2.– Infondate sono anche le analoghe eccezioni proposte con riguardo alle questioni sollevate dal Tribunale di Bergamo.

4.2.1.– In punto di rilevanza, il rimettente – con riferimento ad un cittadino serbo che, dopo l’ingresso in Italia con permesso di soggiorno per motivi familiari, ha qui «vissuto stabilmente da quasi vent’anni» – non ha mancato, infatti, in questo caso, di motivare, in primo luogo, in ordine al requisito dell’attuale condizione di indigenza dell’interessato e, in secondo luogo, in ordine all’interpretazione dell’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2018, uniformandosi al diritto vivente secondo il quale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 6 dicembre 2016, n. 24981 e 30 ottobre 2015, n. 22261) la permanenza continuativa in Italia per dieci anni con permesso di soggiorno rappresenta un requisito aggiuntivo e non sostitutivo rispetto al fondamentale requisito della titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

Aggiunge il Tribunale di Bergamo che l’immigrato non aveva mai lavorato, per cui non poteva certamente essere qualificato come un lavoratore e ciò agli effetti della tutela di cui all’art. 12 della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, che impone la parità di trattamento fra i “lavoratori” stranieri e i cittadini dello Stato europeo che li ospita, per quanto riguarda la sicurezza sociale.

4.2.2.– Nel merito, il Tribunale di Bergamo ritiene che l’assegno sociale sia da ritenersi comunque una prestazione assistenziale analoga alle provvidenze riconosciute per effetto della giurisprudenza di questa Corte ai cittadini stranieri, prescindendo dal requisito costituito dalla titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

Ritiene, conseguentemente, «non condivisibile il recente orientamento della Corte di cassazione […], che con la sentenza 22261/2015 ha ritenuto non irragionevole subordinare il godimento dell’assegno sociale per gli stranieri alla titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo». E prospetta che l’irragionevolezza della disposizione denunciata, che ne comporterebbe il contrasto con l’art. 3 Cost., «risied[a] nel subordinare la prestazione al possesso di un requisito che presuppone l’esistenza di un minimo reddituale, alla cui mancanza la prestazione stessa dovrebbe sopperire».

Sarebbe, ad avviso del Tribunale di Bergamo, violato anche l’art. 10, primo comma, Cost., «dal momento che tra le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano quelle che, nel garantire i diritti inviolabili indipendentemente dalle appartenenze a determinate entità politiche, vietano la discriminazione nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato», per cui «al legislatore è consentito dettare norme non palesemente irragionevoli, che regolino l’ingresso e la permanenza di extracomunitari in Italia, ma, una volta che il diritto a soggiornare non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona».

E violato sarebbe, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, «in quanto l’assegno sociale è comunque subordinato sia allo stato di bisogno del richiedente e della sua famiglia, che allo stabile soggiorno ultradecennale in Italia, sicché l’ulteriore requisito del possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo (ineliminabile in via interpretativa, ad avviso di [esso] giudice), [sarebbe] ridondante e quindi ancor più discriminatorio in quanto richiesto per i soli stranieri».

4.2.3.– Analoghe censure, stavolta con riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU, e 38 Cost., sono sviluppate dal Tribunale di Torino.

5.– La difesa dell’INPS ha posto l’accento sulla differenza sostanziale tra il titolo di legittimazione ad essere equiparato ad un cittadino ai fini dell’accesso al sistema di assistenza sociale, a seguito di provvedimento amministrativo, e il mero requisito anagrafico della residenza continuativa e si è riportato alle sopra ricordate sentenze della Corte di cassazione, sezione lavoro.

L’Avvocatura dello Stato ha sottolineato la diversità ontologica della prestazione dell’assegno sociale rispetto alle altre di cui alla ricordata giurisprudenza di questa Corte, tutte implicanti la prova dell’esistenza di minorazioni psicofisiche.

6.– Tutte le questioni non sono fondate.

Va innanzitutto chiarita la portata della norma dell’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, che dispone che l’assegno sociale, a decorrere dal 1° gennaio 2009, è corrisposto «agli aventi diritto, a condizione che abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per almeno dieci anni nel territorio nazionale».

Si è posto il problema se tale norma detti un criterio sostitutivo rispetto al possesso del requisito del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo (ex carta di soggiorno) previsto dal censurato comma 19 dell’art. 80 della legge n. 388 del 2000, nel senso che la legale permanenza in Italia per dieci anni potrebbe essere considerata sostitutiva della titolarità del permesso di soggiorno UE.

La risposta a tale quesito, da cui dipende la rilevanza stessa delle questioni, deve essere negativa, essendo i requisiti cumulativi.

Il riferimento agli «aventi diritto» presuppone la ricorrenza, in capo a questi ultimi, di tutti i requisiti espressamente previsti dalla legge, tra i quali la titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, cui si aggiunge la condizione del soggiorno continuativo per almeno dieci anni.

7.– I ricorrenti reputano discriminatorio e irragionevole che la disposizione impugnata subordini il godimento per gli stranieri dell’assegno sociale alla titolarità del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo.

La questione non è fondata.

La giurisprudenza costituzionale ha già chiarito che «entro i limiti consentiti dall’art. 11 della direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status di cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), cui ha conferito attuazione il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 […], e comunque nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo assicurati dalla Costituzione e dalla normativa internazionale, il legislatore [può] riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti in Italia, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione della provvidenza» (sentenza n. 222 del 2013).

Ne segue che la Costituzione impone di preservare l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extracomunitari dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di «un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale» (sentenza n. 222 del 2013), riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona.

Per questa parte, infatti, la prestazione non è tanto una componente dell’assistenza sociale (che l’art. 38, primo comma, Cost. riserva al «cittadino»), quanto un necessario strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona (art. 2 Cost.).

Stante la limitatezza delle risorse disponibili, al di là del confine invalicabile appena indicato, rientra dunque nella discrezionalità del legislatore graduare con criteri restrittivi, o financo di esclusione, l’accesso dello straniero extracomunitario a provvidenze ulteriori. Per esse, laddove è la cittadinanza stessa, italiana o comunitaria, a presupporre e giustificare l’erogazione della prestazione ai membri della comunità, viceversa ben può il legislatore esigere in capo al cittadino extracomunitario ulteriori requisiti, non manifestamente irragionevoli, che ne comprovino un inserimento stabile e attivo.

In tal modo, le provvidenze divengono il corollario dello stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo.

A tale proposito, la titolarità del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, diversamente dalla mera residenza legale in Italia, è subordinata a requisiti (la produzione di un reddito; la disponibilità di un alloggio; la conoscenza della lingua italiana: art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998) che sono in sé indici non irragionevoli di una simile partecipazione. Essa perciò rappresenta l’attribuzione di un peculiare status che comporta diritti aggiuntivi rispetto al solo permesso di soggiorno; infatti, consente (art. 9, comma 12, del d.lgs. n. 286 del 1998) di entrare in Italia senza visto, di svolgervi qualsiasi attività lavorativa autonoma o subordinata, di accedere ai servizi e alle prestazioni della pubblica amministrazione in materia sanitaria, scolastica, sociale e previdenziale, e di partecipare alla vita pubblica locale.

Il permesso di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, che ha durata indeterminata, consente l’inclusione dello straniero nella comunità nazionale ben distinguendo il relativo status dalla provvisorietà in cui resta confinato il titolare di permesso di soggiorno di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1998.

Non è perciò né discriminatorio, né manifestamente irragionevole che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sia il presupposto per godere di una provvidenza economica, quale l’assegno sociale, che si rivolge a chi abbia compiuto 65 anni di età. Tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.).

Rientra dunque nella discrezionalità del legislatore riconoscere una prestazione economica al solo straniero, indigente e privo di pensione, il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano. Pertanto sotto nessun profilo può ritenersi violato l’art. 3 Cost. con riferimento a quegli stranieri che invece tale status non hanno.

8.– Neppure è convincente il rilievo, secondo il quale sarebbe manifestamente irragionevole subordinare il conseguimento dell’assegno sociale al possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, posto che quest’ultimo viene ottenuto solo se si ha un reddito di importo pari all’assegno sociale stesso. Non è infatti detto che lo straniero, una volta conseguito il permesso di soggiorno di lunga durata, che è di regola permanente (art. 8 della direttiva 2003/109/CE), sia poi in grado di preservare le condizioni economiche che glielo hanno consentito. In tali casi, la vocazione solidaristica dell’assegno sociale torna a manifestarsi, in quanto esso soccorre chi, nonostante l’ingresso stabile nella collettività nazionale, sia poi incorso in difficoltà che ne hanno determinato l’indigenza.

È di tutta evidenza che l’assegno sociale, in questi casi, presuppone la perdita di quel reddito la cui esistenza aveva concorso al perfezionamento dei requisiti per l’ottenimento del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

9.– Un obbligo costituzionale di attribuire l’assegno sociale allo straniero privo della (ex) carta di soggiorno non deriva neppure dall’art. 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, che, ai fini della equiparazione dei cittadini stranieri extracomunitari ai cittadini italiani, richiama il regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, che impone la parità di trattamento tra i lavoratori stranieri e i cittadini dello Stato europeo che li ospita per quanto riguarda il settore della sicurezza sociale, non venendo qui in considerazione la posizione di lavoratori.

10.– La questione relativa all’art. 38 Cost., che sarebbe violato perché la norma impugnata subordina il godimento del diritto all’assegno sociale al «possesso di una certificazione di tipo amministrativo», è anch’essa infondata.

Si è già infatti posto in luce che la titolarità del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo comporta la ricorrenza di requisiti ai quali non è manifestamente irragionevole legare il riconoscimento della prestazione assistenziale.

11.– Quanto appena detto comporta l’infondatezza anche delle ulteriori censure, riferite agli artt. 10, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, e sviluppate sulla base dell’erronea premessa che la cittadinanza italiana ed europea non costituisca un elemento idoneo per selezionare gli aventi diritto alla prestazione, escludendone gli stranieri privi del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo.

In particolare, non risulta violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, essendo non discriminatorio, per le ragioni enunciate, il criterio adottato quanto alla parificazione dei cittadini stranieri a quelli italiani in una prestazione di welfare sganciata dallo status lavorativo.

Come si è detto, l’assegno sociale per chi abbia 65 anni (che dal 1° gennaio 2019 spetta a coloro che abbiano raggiunto l’età di 67 anni) è una prestazione sociale riservata a coloro che, privi di reddito adeguato e di pensione, abbiano raggiunto un’età in linea di massima non più idonea alla ricerca di un’attività lavorativa e che mantengano comunque la effettiva residenza in Italia; tale prestazione è pertanto legittimamente riservata ai cittadini italiani, ai cittadini europei e ai cittadini extracomunitari solo se titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

Nella giurisprudenza di questa Corte l’elemento di discrimine basato sulla cittadinanza è stato ritenuto in contrasto con l’art. 3 Cost. e con lo stesso divieto di discriminazione formulato dall’art. 14 CEDU, solo con riguardo a prestazioni destinate al soddisfacimento di bisogni primari e volte alla «garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto» (sentenza n. 187 del 2010) o comunque destinate alla tutela della salute e al sostentamento connesso all’invalidità (sentenza n. 230 del 2015), di volta in volta con specifico riguardo alla pensione di inabilità, all’assegno di invalidità, all’indennità per ciechi e per sordi e all’indennità di accompagnamento (sentenze n. 230 e n. 22 del 2015, n. 40 del 2013, n. 329 del 2011, n. 187 del 2010, n. 11 del 2009 e n. 306 del 2008).

Come si è visto, l’assegno sociale non è equiparabile a tali prestazioni.

In conclusione, il legislatore può legittimamente prevedere specifiche condizioni per il godimento delle prestazioni assistenziali eccedenti i bisogni primari della persona, purché tali condizioni non siano manifestamente irragionevoli né intrinsecamente discriminatorie, com’è appunto nella specie la considerazione dell’inserimento socio-giuridico del cittadino extracomunitario nel contesto nazionale, come certificata dal permesso di soggiorno UE di lungo periodo, al quale l’ordinamento fa conseguire il riconoscimento di peculiari situazioni giuridiche che equiparano il cittadino extracomunitario – a determinati fini – ai cittadini italiani e comunitari.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, e 38 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU, dal Tribunale ordinario di Bergamo con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Giulio PROSPERETTI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2019.