ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio
PROSPERETTI ”
- Giovanni
AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art.
106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno
2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo
amministrativo), e degli artt.
395 e 396 del codice di procedura civile, promosso dal Consiglio di Stato,
sezione quarta, nel procedimento vertente tra D. P. e altri e la Presidenza del
Consiglio dei ministri e altro, con ordinanza
del 17 novembre 2016, iscritta al n. 276 del registro ordinanze 2016 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di
costituzione di D. P. e altri;
udito
nella
camera di consiglio del 10 gennaio 2018 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio.
Ritenuto che, con ordinanza del 17 novembre 2016, il Consiglio di Stato, sezione
quarta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44
della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino
del processo amministrativo),
e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, «nella parte in cui non
prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia
necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo»;
che il rimettente,
in punto di fatto, ha dedotto che:
− con sentenza del 12 marzo 1996,
n. 175, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione staccata
di Salerno, aveva accolto il ricorso proposto dai consiglieri di Stato S. G.,
F. M. e F. P., volto all’accertamento del loro diritto all’allineamento
stipendiale, con conseguente condanna della Presidenza del Consiglio dei
ministri al pagamento delle somme spettanti a tale titolo, oltre accessori di
legge;
− con sentenza
22 maggio 2006, n. 3017, il Consiglio di Stato, sezione quarta, aveva
dichiarato inammissibile l’appello avverso la pronuncia di primo grado per
inesistenza della notificazione;
− i ricorrenti
avevano quindi proposto ricorso in ottemperanza per l’esecuzione della sentenza
passata in cosa giudicata e l’amministrazione, costituitasi in giudizio, aveva
eccepito l’impossibilità di darvi esecuzione a causa
del sopravvenuto art. 50, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388,
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», che aveva disposto la
perdita di efficacia delle decisioni delle autorità giurisdizionali comportanti
provvedimenti di allineamento stipendiale;
− il TAR
Campania, con sentenza 28 gennaio 2008, n. 93, aveva accolto il ricorso in
ottemperanza, ma la pronuncia era stata riformata dal Consiglio di Stato,
sezione quarta, con sentenza 16 giugno 2008, n. 2986, sul presupposto che
l’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 era intervenuto prima che si fosse
formato il giudicato sulla pretesa dei ricorrenti, il che avrebbe impedito la
valida instaurazione del giudizio esecutivo;
− con il
ricorso per revocazione la parte ricorrente (eredi di F. P.) ha dedotto di
essersi rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando che, in
forza di non chiare e illegittime disposizioni nazionali aventi efficacia
retroattiva e incidenti su sentenze rese da autorità
giurisdizionali, la pronuncia n. 2986 del 2008 del Consiglio di Stato le aveva
precluso il conseguimento di un diritto quesito, in violazione dell’art. 6,
paragrafo I, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; e che la Corte
EDU, con la sentenza 1° luglio 2014, Guadagno e altri c. Italia, aveva
riconosciuto la fondatezza delle sue doglianze e liquidato un
indennizzo;
− i ricorrenti
hanno sostenuto la revocabilità della sentenza gravata sulla base dell’art. 106
del d.lgs. n. 104 del 2010 (d’ora in avanti: cod. proc. amm.) e, in via subordinata, hanno chiesto sollevarsi
questione di legittimità costituzionale della disposizione citata, nella parte
in cui non contempla, tra le ipotesi di revocazione, quella del contrasto della
sentenza nazionale con una successiva pronuncia della Corte EDU;
−
l’amministrazione ha eccepito l’impossibilità di una interpretazione
costituzionalmente orientata delle norme sulla revocazione, perché il loro
contrasto con la Convenzione potrebbe essere rimosso solo con la declaratoria
di incostituzionalità; e che, tuttavia, non potrebbe trovare miglior sorte la
richiesta di sollevare questione di costituzionalità delle stesse norme, poiché
dalla sentenza della Corte EDU non potrebbe trarsi il
convincimento che la
parte ricorrente abbia conseguito il
diritto ad ottenere l’adeguamento stipendiale richiesto;
− sempre
secondo l’amministrazione, la richiesta di sollevare la questione di
legittimità costituzionale sarebbe da respingere anche perché la Corte
costituzionale non potrebbe pronunciare una sentenza additiva, invadendo la
sfera del legislatore; e, infine, perché il riconoscimento delle pretese della
parte ricorrente dovrebbe passare in ogni caso dalla declaratoria di incostituzionalità
dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, disposizione, questa, già
ritenuta, dalla Corte costituzionale, immune da vizi;
che il
rimettente, in punto di rilevanza, ha osservato che:
− con
l’ordinanza 4 marzo 2015, n. 2, «da intendersi integralmente richiamata e
trascritta in questa sede», l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha già
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 cod. proc. amm.
e degli artt. 395 e 396 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 24, 111 e 117,
primo comma, Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di
revocazione della sentenza, quando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU;
− in tale
ordinanza, «pienamente condivisa dal Collegio», si sarebbe precisato che la questione era rilevante in quel giudizio, in
quanto dalla sua soluzione dipendeva l’ammissibilità del ricorso per revocazione proposto, e che la situazione sarebbe
«perfettamente traslabile» alla fattispecie esaminata dal rimettente, poiché
l’unico motivo di revocazione spiegato dalla parte ricorrente riposa
sull’asserito contrasto della sentenza passata in giudicato con la sopravvenuta pronuncia
della Corte EDU;
− «per le ragioni già
chiarite nella ordinanza n. 2/2015 dell’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato» non potrebbe essere condivisa la prospettazione della parte ricorrente, secondo cui sarebbe possibile
una interpretazione estensiva dei casi di revocazione previsti dal diritto
positivo;
che il Consiglio di
Stato, infine, ha affermato di condividere «il
giudizio di non manifesta infondatezza delle questioni prospettate nella citata
ordinanza n. 2/2015 in quanto, non contemplando tra i casi di
revocazione quella che si renda necessaria per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei
diritti dell’uomo, le norme processuali surrichiamate appaiono in contrasto con
l’art. 46 CEDU che, invece, sancisce tale obbligo per gli Stati aderenti»;
che, con memoria depositata
nella cancelleria di questa Corte il 14 febbraio 2017, si è costituita la parte
ricorrente nel giudizio a quo,
chiedendo l’accoglimento della questione sollevata e riservandosi di meglio
illustrare in prosieguo la sua posizione;
che, con memoria
depositata il 20 dicembre 2017, la parte costituita ha fatto istanza perché la
causa venga trattata in pubblica udienza, poiché il caso in esame sarebbe
differente da quello già esaminato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 123 del
2017, non essendovi controinteressati, né essendo configurabile una
violazione dei diritti dei terzi in caso di revocazione della sentenza
nazionale contraria alla sentenza della Corte EDU.
Considerato che la questione può essere decisa in camera di consiglio,
sussistendo le condizioni per una pronuncia di manifesta inammissibilità;
che, infatti, in
ordine alla non manifesta infondatezza, il
rimettente si limita ad affermare che dall’art. 46, paragrafo 1, della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, discende un obbligo di riapertura
del processo interno, e a richiamare «le
considerazioni in diritto illustrate» nella ordinanza di rimessione 4 marzo
2015, n. 2, dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, considerazioni «da
ritenersi integralmente ritrascritte nella presente ordinanza collegiale»;
che la motivazione
sul punto è carente, perché si risolve unicamente nel richiamo per relationem ad altra ordinanza del
Consiglio di Stato;
che la consolidata
giurisprudenza di questa Corte «esclude che, nei giudizi incidentali di costituzionalità
delle leggi, sia ammessa la cosiddetta motivazione per relationem. Infatti, il principio di autonomia di ciascun
giudizio di costituzionalità in via incidentale, quanto ai requisiti necessari
per la sua valida instaurazione, e il conseguente carattere autosufficiente
della relativa ordinanza di rimessione, impongono al giudice a quo di rendere espliciti, facendoli
propri, i motivi della non manifesta infondatezza, non potendo limitarsi ad un
mero richiamo di quelli evidenziati dalle parti nel corso del processo
principale (ex plurimis, sentenze n. 49,
n. 22 e n. 10 del 2015;
ordinanza n. 33
del 2014), ovvero anche in altre ordinanze di rimessione emanate nello
stesso o in altri giudizi (sentenza n. 103 del
2007; ordinanze
n. 156 del 2012 e n. 33 del 2006)»
(sentenza n. 170
del 2015).
Visti
gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2,
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale
dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione
dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo
per il riordino del processo amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile,
sollevata, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della
Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione quarta, con l’ordinanza indicata
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 2 febbraio 2018.