Ordinanza n. 53 del 2016

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 ORDINANZA N. 53

ANNO 2016

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Alessandro                 CRISCUOLO                                   Presidente

-      Paolo                          GROSSI                                              Giudice

-      Giorgio                       LATTANZI                                               ”

-      Aldo                           CAROSI                                                    ”

-      Marta                          CARTABIA                                              ”

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 ”

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             ”

-      Giuliano                      AMATO                                                    ”

-      Silvana                        SCIARRA                                                 ”

-      Daria                           de PRETIS                                                ”

-      Nicolò                         ZANON                                                    ”

-      Franco                        MODUGNO                                             ”

-      Augusto Antonio      BARBERA                                               ”

-      Giulio                         PROSPERETTI                                         ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2495, secondo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 4, comma 1, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 (Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promosso dal Tribunale ordinario di Torino nel procedimento vertente tra U.J. ed altra e C.M. ed altra, con ordinanza del 9 gennaio 2015, iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti l’atto di costituzione, fuori termine, di U.J. ed altra, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2016 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio – promosso da due dipendenti di una società cooperativa cancellata, per accertare il proprio diritto di percepire il TFR, al fine di consentir loro di tentare un’esecuzione nei confronti del debitore e quindi di accedere alle prestazioni previdenziali disciplinate dall’art. 2, commi da 2 a 5, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica) – il Giudice monocratico del Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza emessa il 9 gennaio 2015, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2495, secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui prevede, a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, l’estinzione della società, precludendo in tal modo l’esercizio in giudizio di diritti meritevoli di tutela»;

che il rimettente – dato atto che nei confronti del già liquidatore della società (convenuto non costituito) non viene prospettato dalle ricorrenti alcun profilo di responsabilità e che la società cooperativa (convenuta non costituita) risulta cancellata, con conseguente estinzione della stessa – osserva che, in tale contesto normativo e avuto riguardo alle domande proposte dalle ricorrenti, esso giudice non potrebbe adottare altro provvedimento se non quello di rigetto della domanda;

che, tuttavia, una tale pronuncia determinerebbe, in linea di fatto, la perenzione del diritto delle medesime ad accedere alle provvidenze previste dall’art. 2, comma 1, della citata legge n. 297 del 1982, pur trattandosi di diritto esistente e, come tale, meritevole di tutela;

che – affermata quindi la rilevanza della questione, in quanto riguardante una norma applicabile nel processo a quo – il giudice del lavoro deduce che l’attuale formulazione del secondo comma dell’art. 2495 cod. civ., come innovato dall’art. 4, comma 1, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 (Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366), consente di agire esclusivamente nei confronti dei soci e del liquidatore, in riferimento a profili attinenti rispettivamente al bilancio finale di liquidazione di cui i primi sono beneficiari o alla responsabilità amministrativa e gestionale del secondo;

che, infatti, la norma impugnata ignora che possano esservi situazioni senza dubbio meritevoli di tutela, tali da determinare la necessità di instaurare un contraddittorio giudiziale con la società cancellata, a prescindere dalle citate situazioni e responsabilità (il caso è appunto quello delle attrici che chiedono di costituire un titolo esecutivo afferente il TFR, così da attivare la procedura prevista dalla legge ed ottenere dal fondo di garanzia INPS la soddisfazione del proprio credito, rispetto al quale la previsione dell’estinzione della società, a seguito della cancellazione, non consente né la formazione del titolo esecutivo, né la formazione della prova dell’insolvenza del debitore);

che il giudice a quo ritiene quindi violato l’art. 3 Cost., in quanto – pur spettando al legislatore il potere discrezionale di definire la normativa codicistica in materia societaria ed, in particolare, di disciplinare gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, come previsto dall’art. 8, comma 1, lettera a), della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario) – l’attuazione di detta delega ha travalicato i limiti della ragionevolezza, atteso che in precedenza la risalente, costante e consolidata giurisprudenza aveva affermato, con riferimento all’omologa previsione di cui al modificato art. 2456 cod. civ., che, nonostante la cancellazione, il creditore potesse sempre agire in giudizio per far accertare il proprio credito, e che fosse consentito, senza limiti temporali, di chiedere il fallimento della società o la sua liquidazione coatta amministrativa; e che, pertanto, la cancellazione non determinava alcun effetto estintivo immediato della società;

che il rimettente rileva, quindi, che con la norma censurata (che sovverte completamente il preesistente diritto vivente) il creditore viene privato della possibilità di precostituire il titolo esecutivo, al fine di conseguire dall’Istituto previdenziale quanto non può ottenere dalla società già datrice di lavoro, con conseguente violazione anche dell’art. 24 Cost.; e deduce, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto la previsione di cui all’art. 2 della legge n. 297 del 1982, costituisce attuazione della direttiva comunitaria 80/987/CEE del Consiglio 20 ottobre 1980 (Direttiva del Consiglio relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro), la quale ultima (se consente, all’art. 4, l’uso di una certa discrezionalità da parte del legislatore nazionale), non ne autorizza l’arbitrio, riscontrabile, nella specie, nella presenza di regolamentazione limitativa del citato art. 2, effettuata ex post, in assenza di ragioni riconoscibili ed apprezzabili;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che deduce l’inammissibilità della questione, poiché fondata su una interpretazione erronea della norma censurata, del tutto in contrasto con il diritto vivente, ed in particolare con quanto affermato dalle sezioni unite dalle Corte di cassazione con le sentenze n. 6070, n. 6071 e n. 6072 del 12 marzo 2013, aventi ad oggetto proprio gli effetti processuali e sostanziali derivanti dalla cancellazione delle società;

che, in particolare, la difesa dello Stato – sintetizzati i princípi espressi in tali pronunce (a conferma di quelli pronunciati dalle stesse sezioni unite n. 4060, n. 4061 e n. 4062 del 2010) e chiarito che, in base ad essi, la cancellazione della società comporta la successione dei soci (a giudizio iniziato ovvero da iniziare), ove sussista un interesse a proseguire il giudizio nei confronti di questi (come ad esempio, nel caso in esame, in funzione dell’escussione di garanzia) anche se da costoro nulla potrà ottenere a causa della loro limitazione di responsabilità – deduce che la norma impugnata non pone alcun ostacolo, sia alla formazione in capo alle ricorrenti di un titolo esecutivo nei confronti dei soci (successori ex lege della società cancellata), sia alla dimostrazione della insolvenza della originaria debitrice (qualora i soci non debbano in astratto, o non possano in concreto, rispondere delle sue obbligazioni).

Considerato che l’art. 2495 del codice civile, come modificato dall’art. 4, comma 1, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 (Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366), con decorrenza dal 1° gennaio 2004, in sostituzione del previgente art. 2456 cod. civ., prevede (al primo comma), che: «Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese»; e (al censurato secondo comma) che «Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società»;

che il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale del menzionato secondo comma, deducendo la violazione: a) dell’art. 3 Cost., in quanto, nell’attuazione della delega di cui dall’art. 8, comma 1, lettera a), della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario) il legislatore avrebbe travalicato i limiti della ragionevolezza, giacché in precedenza la risalente, costante e consolidata giurisprudenza aveva affermato, con riferimento all’omologo previgente art. 2456 cod. civ., che (nonostante la cancellazione) il creditore potesse sempre agire in giudizio per far accertare il proprio credito; e che, pertanto, la cancellazione non determinasse alcun effetto estintivo immediato della società; b) dell’art. 24 Cost., poiché il creditore viene privato della possibilità di precostituire il titolo esecutivo, al fine di conseguire dall’Istituto previdenziale (ex art. 2, commi da 2 a 5, della legge 29 maggio 1982, n. 297, recante «Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica») quanto non può ottenere dalla società già datrice di lavoro; c) dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto la previsione di cui all’art. 2 della legge n. 297 del 1982 costituisce attuazione della direttiva comunitaria 80/987/CEE del Consiglio 20 ottobre 1980 (Direttiva del Consiglio relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro), che non autorizza l’arbitrio del legislatore;

che, di conseguenza, il rimettente chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale della censurata norma, «nella parte in cui prevede, a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, l’estinzione dalla società, precludendo in tal modo l’esercizio in giudizio di diritti meritevoli di tutela»;

che, tuttavia, tale essendo la formulazione del petitum, l’intervento richiesto a questa Corte risulta sostanzialmente finalizzato a sterilizzare gli effetti immediatamente estintivi della cancellazione della società ai sensi del nuovo testo dell’art. 2495 cod. civ., al dichiarato fine di ripristinare il sistema anteriore alla riforma del 2003, per il quale (secondo la richiamata interpretazione giurisprudenziale dell’omologo previgente art. 2456 cod. civ.) la cancellazione dal registro delle imprese della iscrizione di una società commerciale, di persone o di capitali, non produceva l’estinzione della società stessa, in difetto dell’esaurimento di tutti i rapporti giuridici pendenti facenti capo ad essa;

che, invero, una siffatta pronuncia risulterebbe caratterizzata da un corposo tasso di manipolatività e creatività, che presupporrebbe una complessiva rimodulazione degli effetti derivanti dalla cancellazione della società, e che tradirebbe il fine (allora auspicato anche da questa Corte: sentenza n. 319 del 2000) della identificazione di una data certa di estinzione della società, onde trarne le immediate conseguenze sul piano sostanziale e su quello processuale (ordinanza n. 198 del 2013);

che ciò, inevitabilmente, verrebbe ad incidere sulla stessa scelta di politica legislativa sottesa alla riforma medesima e sulle sue implicazioni di sistema (sentenza n. 252 del 2012), in una materia la cui conformazione è riservata alla ampia discrezionalità del legislatore col solo limite (non superato nella specie) della manifesta irragionevolezza (ordinanze n. 240 e n. 174 del 2012);

che, peraltro, il petitum richiesto neppure si configura quale soluzione costituzionalmente imposta, anche in considerazione della variegata configurabilità delle possibili ricadute della pronuncia sulla disciplina de qua;

che, dunque – anche a prescindere dalla non compiuta descrizione della esatta natura del rapporto societario e/o lavorativo esistente tra le ricorrenti e la società cooperativa estinta, onde verificarne il diritto al TFR, e dal mancato esperimento, da parte del rimettente, del pur doveroso tentativo di dare una interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata, nonostante gli approdi ermeneutici in tal senso delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenze 22 febbraio 2010, n. 4060, n. 4061 e n. 4062; nonché sentenze 12 marzo 2013, n. 6070, n. 6071 e n. 6072) e l’intervento di questa Corte (ordinanza n. 198 del 2013) – una siffatta formulazione del petitum costituisce un assorbente profilo di manifesta inammissibilità della sollevata questione.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2495, secondo comma, del codice civile, sollevata – in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione – dal Giudice monocratico del Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2016.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 marzo 2016.