Sentenza n. 106 del 2015

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 106

ANNO 2015

Commento alla decisione

G. L.

Per la Corte costituzionale è legittimo che il ricorso per cassazione contro la confisca di prevenzione sia ammissibile solo per violazione di legge

per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                  Presidente

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                 Giudice

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                       LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-      Daria                            de PRETIS                                               ”

-      Nicolò                          ZANON                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, undicesimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità); dell’art. 3-ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575, recante «Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere», (ora: artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136»), promosso dalla Corte di cassazione, quinta sezione penale, sul ricorso proposto da G.M., con ordinanza del 22 luglio 2014, iscritta al n. 202 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 aprile 2015 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– La Corte di cassazione, quinta sezione penale, con ordinanza del 22 luglio 2014 (r.o. n. 202 del 2014), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale «del combinato disposto» dell’art. 4, undicesimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 3-ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), «ora art. 10, comma 3, e art. 27, co. 2», del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), «nella parte in cui limitano alla sola violazione di legge la proponibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di confisca adottati nell’ambito dei procedimenti di prevenzione».

La Corte di cassazione premette di essere investita del ricorso avverso il decreto della Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione delle misure di prevenzione di pubblica sicurezza, del 4 novembre 2011, che aveva confermato il decreto del Tribunale ordinario di Reggio Calabria del 23 febbraio 2011, con il quale era stata applicata al proposto la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di tre anni, con l’obbligo di soggiorno nel Comune di residenza. Con il medesimo provvedimento, la Corte d’appello, in seguito all’impugnazione del pubblico ministero, aveva applicato al proposto «la misura di prevenzione patrimoniale del sequestro e della confisca» dei beni immobili, indicati nel decreto di sequestro emesso dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria il 3 maggio 2010 (n. 18), ed oggetto di successivo dissequestro e di restituzione agli aventi diritto con il menzionato provvedimento del 23 febbraio 2011.

La Corte di cassazione rimettente osserva che il ricorrente ha enunciato motivi di impugnazione, in relazione sia alla misura di prevenzione personale, sia a quella patrimoniale, deducendo il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, per inesistenza e mera apparenza della motivazione sull’attualità e sulla pericolosità sociale, che avrebbero dovuto giustificare la misura di prevenzione personale, e inoltre il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 2-bis, 2-ter e 3-ter, della legge n. 575 del 1965, con riferimento all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, per quanto riguarda, sia gli indizi di appartenenza all’associazione mafiosa, in rapporto alla produzione di proventi illeciti, sia la ritenuta sproporzione tra le disponibilità lecite del proposto e il valore degli investimenti realizzati.

La Corte di cassazione, dopo aver giudicato infondati i motivi relativi alle misure personali, ritenendo che il decreto impugnato contenesse «una motivazione niente affatto apparente, ma approfondita», nell’esaminare i motivi di impugnazione relativi alla misura patrimoniale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sopraindicata.

La Corte di cassazione ricorda che l’art. 3-ter della legge n. 575 del 1965 ha esteso il sistema delle impugnazioni contro i provvedimenti sulle misure di prevenzione personali anche al provvedimento con cui il tribunale «dispone, tra l’altro, la confisca dei beni sequestrati», ai sensi dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, e rileva che di conseguenza anche nei confronti del decreto della corte d’appello che decide sull’impugnazione contro il provvedimento del tribunale sulla misura di prevenzione patrimoniale sarebbe ammesso solo il ricorso per cassazione per violazione di legge, previsto dall’art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956.

Anche dopo l’abrogazione delle leggi n. 1423 del 1956 e n. 575 del 1965, ad opera dell’art. 120, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 159 del 2011, la situazione normativa non è cambiata. L’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011 riproduce il contenuto dell’art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956, mentre l’art. 27, comma 2, dello stesso decreto legislativo, nel rinviare alle disposizioni contenute nel precedente art. 10, comma 3, ribadisce che «avverso il decreto con cui la corte di appello decide sulla impugnazione del provvedimento con cui il tribunale ha disposto la confisca dei beni sequestrati, può essere proposto ricorso per cassazione solo per violazione di legge».

Nella nozione di violazione di legge non rientrerebbe, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, il vizio di «contraddittorietà o […] manifesta illogicità della motivazione», previsto dall’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.

Il giudice rimettente ricorda che questa Corte, con la sentenza n. 321 del 2004, ha dichiarato non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956, nella parte in cui, limitando alla sola violazione di legge il ricorso contro il decreto della corte d’appello in materia di misure di prevenzione, esclude la ricorribilità in cassazione per il vizio di manifesta illogicità della motivazione.

Nella giurisprudenza di legittimità si sarebbe formato un «diritto vivente», secondo cui con il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione personali o patrimoniali sarebbe possibile far valere solo l’inesistenza della motivazione o la mera apparenza di essa, ma non anche la sua contraddittorietà o illogicità manifesta. Si è precisato al riguardo che, oltre per la sua mancanza, potrebbe censurarsi la motivazione solo per un difetto dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di logicità, tale da renderla soltanto apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice di merito, «ovvero, ancora, quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far risultare oscure le ragioni che hanno giustificato l’applicazione della misura».

Il dubbio di legittimità si rafforzerebbe per effetto degli interventi normativi di riforma che hanno introdotto il comma 6-bis nell’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965 (ora riprodotto nell’art. 18, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011), in base al quale «Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente e, per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione». Secondo un orientamento giurisprudenziale, questa modificazione, facendo venire meno il requisito dell’attualità della pericolosità sociale, avrebbe accentuato la natura eminentemente sanzionatoria della confisca di prevenzione, escludendone l’assimilabilità alle misure di sicurezza patrimoniali e non consentendo di derogare al principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale.

Secondo un altro orientamento, invece, il venir meno del requisito dell’attualità della pericolosità sociale, non avrebbe determinato la modificazione della natura della confisca di prevenzione, la quale non avrebbe né carattere sanzionatorio di natura penale né quello di prevenzione, costituendo un tertium genus, rappresentato da una sanzione amministrativa, equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza della confisca di cui all’art. 240, secondo comma, cod. pen., con la conseguente applicabilità dell’art. 200, primo comma, cod. pen. La Corte di cassazione, a sezioni unite, avrebbe recentemente ribadito l’equiparazione della confisca di prevenzione alle misure di sicurezza.

Una particolare equiparazione, sempre secondo la giurisprudenza, dovrebbe ravvisarsi tra la misura di prevenzione patrimoniale e la confisca prevista dall’art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 1992, n. 356, la quale, nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per taluno dei delitti indicati nel primo e nel secondo comma del citato articolo, prevede obbligatoriamente «la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica». L’equiparazione deriverebbe dal fatto che entrambe le misure prescindono da una valutazione sull’attuale pericolosità sociale del destinatario del provvedimento di confisca, richiedendo come presupposto l’esistenza di una sproporzione tra il valore dei beni posseduti direttamente o indirettamente dall’interessato e i redditi risultanti dalle dichiarazioni fiscali o comunque ragionevolmente riconducibili alle attività economiche esercitate. In entrambi i casi, inoltre, attraverso l’effetto ablativo, l’ordinamento perseguirebbe l’obiettivo di evitare che il sistema economico legale sia funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza. Il procedimento di applicazione di tali misure sarebbe connotato dal «carattere giurisdizionale» concludendosi con provvedimenti definitivi, pur suscettibili di revoca.

Un’ulteriore conferma della possibilità di equiparare la confisca di prevenzione alla confisca penale dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 andrebbe ravvisata nel fatto che quest’ultima non deve essere necessariamente disposta con la sentenza di condanna, la quale ne costituisce solo il necessario presupposto. Essa potrebbe, infatti, essere adottata anche dal giudice dell’esecuzione, con la procedura de plano, a norma degli artt. 676 e 667, comma 4, cod. proc. pen., ovvero all’esito di una procedura in contraddittorio, a norma dell’art. 666 cod. proc. pen. Il provvedimento di applicazione in executivis della confisca prevista dall’art. 12-sexies sarebbe ricorribile per cassazione per tutti i motivi previsti dall’art. 606 cod. proc. pen., ivi compresi i vizi di motivazione, previo esperimento dell’opposizione, ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen.

Non sarebbe dunque giustificabile che il provvedimento relativo alla confisca di prevenzione sia ricorribile per cassazione solo per violazione di legge, mentre nei confronti di quello relativo alla confisca dell’art. 12-sexies si possono dedurre anche i vizi di motivazione previsti dall’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.

L’incongruenza risulterebbe ancora più manifesta considerando che la confisca di prevenzione prescinde non solo dal requisito dell’attuale pericolosità della persona (come nel caso dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992), ma anche dalla previa pronuncia di una condanna penale (richiesta, invece, dal citato art. 12-sexies). Rispetto alla confisca di prevenzione, che è basata su un presupposto oggettivamente più debole di quello rappresentato da una condanna penale, il diritto di difesa, secondo il giudice rimettente, dovrebbe essere maggiormente garantito.

L’accoglimento della questione non aprirebbe il varco ad un «dubbio di costituzionalità» in relazione all’analoga limitazione concernente i vizi deducibili con il ricorso per cassazione nei confronti dei provvedimenti applicativi delle misure di prevenzione personali. Esse, infatti, avrebbero natura ed effetti diversi da quelli delle sanzioni penali, sì da giustificare l’attuale regime delle impugnazioni, a differenza di quanto accade per la confisca di prevenzione, la quale produce le medesime conseguenze negative di quella disposta ai sensi dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992.

In punto di rilevanza, la Corte di cassazione osserva che «il combinato disposto degli artt. 10, comma 3, e 27, co. 2, d.lvo 6 settembre 2011, n. 159» risulta applicabile alla fase processuale in atto, in quanto limita al solo vizio della violazione di legge il controllo demandato, attraverso il ricorso, alla Corte di cassazione.

L’eventuale pronuncia della Corte costituzionale sarebbe in grado di incidere concretamente sul giudizio principale, consentendo alla Corte di cassazione di esaminare i vizi dedotti con il ricorso «nella loro effettiva natura di doglianze che, benché strumentalmente veicolate sotto le “mentite” spoglie della violazione di legge, costituita dalla pretesa “mera apparenza” della motivazione a sostegno del provvedimento impugnato, in realtà sono state declinate come veri e propri vizi di motivazione, di cui non appare possibile escludere “ictu oculi” la fondatezza, ma che, d’altra parte, in quanto tali, renderebbero, allo stato attuale della richiamata normativa, inammissibile il ricorso».

2.– Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.

L’Avvocatura ritiene irrilevante la questione sollevata nel giudizio di merito, non avendo la Corte rimettente spiegato le ragioni che l’hanno indotta a disattendere l’interpretazione della difesa dell’imputato, secondo la quale la motivazione del decreto cautelare impugnato sarebbe meramente apparente. Una tale qualificazione della motivazione avrebbe infatti consentito di ritenere ammissibile il ricorso perché proposto sotto il profilo della violazione di legge, senza la necessità di una preventiva declaratoria sulla incostituzionalità.

Nel merito la questione sarebbe manifestamente infondata.

Dopo aver richiamato la pronuncia n. 321 del 2004, che ha dichiarato non fondata un’uguale questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti dell’art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956, la difesa statale ritiene le censure prive di fondamento, perché il risultato perseguito dal rimettente non può essere ritenuto costituzionalmente obbligato.

Il procedimento di prevenzione, il processo penale e il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sarebbero dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali, e dunque non sarebbero comparabili.

Secondo la giurisprudenza costante della Corte costituzionale, le forme di esercizio del diritto di difesa potrebbero essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, sempre che di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione.

La modifica normativa, introdotta con il comma 6-bis dell’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965, secondo cui le misure di prevenzione patrimoniali possono essere applicate indipendentemente dalla pericolosità sociale del proposto al momento della richiesta della misura in questione, non sarebbe decisiva, dato che, come ricorda la stessa ordinanza di rimessione, la giurisprudenza prevalente della Corte di cassazione considera la confisca di prevenzione una sanzione amministrativa, equiparabile, quanto a contenuto ed effetti, alla misura di sicurezza della confisca di cui all’art. 240, secondo comma, cod. pen.

La difesa statale non ravvisa la pretesa irragionevolezza del diverso regime processuale delle impugnazioni in cassazione esistente tra la misura di prevenzione patrimoniale e la confisca prevista dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, rilevando che, in base alla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, citata nell’ordinanza di rimessione, la misura di prevenzione in questione avrebbe natura di sanzione amministrativa, mentre l’altra avrebbe natura di sanzione penale.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 22 luglio 2014 (r.o. n. 202 del 2014), la Corte di cassazione, quinta sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale «del combinato disposto» dell’art. 4, undicesimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 3-ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), «ora art. 10, comma 3, e art. 27, co. 2», del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), «nella parte in cui limitano alla sola violazione di legge la proponibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di confisca adottati nell’ambito dei procedimenti di prevenzione».

La Corte rimettente – investita del ricorso presentato contro un decreto con cui la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva confermato l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno, e disposto il sequestro e la confisca di determinati beni immobili – ricorda che il ricorrente ha enunciato vari motivi di impugnazione, in relazione sia alla misura di prevenzione personale, sia a quella patrimoniale.

In particolare, il ricorrente ha dedotto il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, per inesistenza e mera apparenza della motivazione sulla pericolosità sociale, e ha prospettato il medesimo vizio rispetto all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, per quanto riguarda sia gli indizi di appartenenza all’associazione mafiosa, in rapporto alla produzione di proventi illeciti, sia la ritenuta sproporzione tra le disponibilità lecite del proposto e il valore degli investimenti realizzati.

La Corte di cassazione ha esaminato diffusamente l’asserito vizio di motivazione riguardante la misura di prevenzione personale e lo ha giudicato inesistente, mentre ha ritenuto che l’analogo motivo relativo alla confisca rientrasse nella previsione dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. e fosse quindi inammissibile, perché la normativa impugnata limita alla sola violazione di legge la proponibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di confisca adottati nell’ambito dei procedimenti di prevenzione.

Secondo la Corte rimettente, il dubbio sulla legittimità di questo limite avrebbe preso maggiore consistenza in seguito agli interventi normativi di riforma che hanno introdotto il comma 6-bis nell’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965 (ora riprodotto nell’art. 18, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011), stabilendo che «Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente e, per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale dal soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione». Ad avviso del giudice a quo, sarebbe violato l’art. 3 Cost., in quanto «Non appare […] razionalmente giustificabile» che, invece, nel caso della confisca dell’art. 12-sexies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 1992, n. 356, il ricorso per cassazione possa essere proposto anche per il vizio di motivazione dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., pur prevedendo i due provvedimenti requisiti analoghi e la produzione di uguali effetti negativi sul patrimonio dei destinatari.

Sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., perché «proprio con riguardo alla confisca di prevenzione, siccome basata su un presupposto oggettivamente più “debole” di quello rappresentato da una condanna penale», richiesto dalla confisca dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, «il diritto di difesa, a parità di conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’applicazione dell’una o dell’altra delle misure in questione, dovrebbe essere maggiormente garantito».

2.– L’Avvocatura dello Stato ha proposto un’eccezione di inammissibilità della questione per irrilevanza nel giudizio di merito, in quanto la Corte di cassazione non avrebbe spiegato le ragioni che l’hanno indotta a disattendere la prospettazione della difesa del proposto, secondo la quale la motivazione del decreto cautelare impugnato sarebbe meramente apparente, e a ritenere quindi che applicando la normativa impugnata il ricorso sarebbe inammissibile.

L’eccezione non è fondata, perché il giudice a quo ha specificamente motivato sul punto. La Corte di cassazione, infatti, ha precisato che «le doglianze» proposte con il ricorso, «veicolate sotto le “mentite” spoglie della violazione di legge, costituita dalla pretesa “mera apparenza” della motivazione a sostegno del provvedimento impugnato, in realtà sono state declinate come veri e propri vizi di motivazione, di cui non appare possibile escludere “ictu oculi” la fondatezza», vizi che renderebbero però inammissibile il ricorso.

3.– Preliminarmente va osservato che non incide sull’ammissibilità della questione l’avvenuta abrogazione dell’intera legge n. 1423 del 1956 e di quella n. 575 del 1965, ad opera dell’art. 120, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 159 del 2011 (i cui artt. 10 e 27 riproducono, rispettivamente, peraltro, senza significative variazioni, il testo delle norme censurate).

Le norme previgenti continuano a trovare applicazione nel procedimento a quo in forza della disciplina transitoria dettata dall’art. 117, comma 1, del citato decreto legislativo, giacché, nella specie, la proposta di applicazione della misura patrimoniale della confisca è stata formulata in data anteriore a quella di entrata in vigore del medesimo decreto.

4.– La questione non è fondata.

4.1.– La misura di prevenzione patrimoniale della confisca è stata concepita, unitamente al sequestro, come strumento di contrasto nei confronti delle associazioni di tipo mafioso ed è stata introdotta nel sistema delle misure di prevenzione con l’art. 14 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazione alla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, alla legge 10 febbraio 1962, n. 57 e alla legge 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), attraverso l’inserimento delle relative disposizioni nella legge n. 575 del 1965 sulle misure di prevenzione antimafia.

Con questo inserimento il legislatore aveva realizzato uno stretto collegamento tra misure personali e misure patrimoniali, nel senso che il sequestro dei beni poteva essere disposto solo nell’ambito di un procedimento relativo alle misure personali, di cui la confisca presupponeva l’applicazione. È vero che, per effetto di alcune modificazioni legislative intervenute successivamente, tale presupposto, oggi, in alcuni casi, può mancare, ma non è questa una ragione che possa far ritenere mutata la natura della confisca, la quale continua a costituire una misura di prevenzione e ad essere applicata attraverso il relativo procedimento (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 26 giugno 2014, n. 4880/2015).

Le impugnazioni contro i provvedimenti relativi al sequestro e alla confisca sono disciplinate con un rinvio ai commi ottavo, nono, decimo e undicesimo dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 (testo legislativo fondamentale delle misure di prevenzione), effettuato dall’art. 3-ter della legge n. 575 del 1965 (introdotto dalla legge n. 646 del 1982), che regolano le impugnazioni contro i provvedimenti relativi alle misure di prevenzione personali. Per effetto di questo rinvio, «è ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge» anche nei confronti del provvedimento della Corte d’appello relativo alle misure di prevenzione patrimoniali, e, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione, questa formula fa escludere che il ricorrente possa dedurre il vizio di motivazione previsto dall’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. Infatti, si ritiene che con il ricorso per cassazione “per violazione di legge” il ricorrente, oltre alla mancanza assoluta della motivazione, possa denunciare solo un difetto di coerenza, di completezza o di logicità della stessa, tale da farla di fatto ritenere “apparente” e inidonea a rappresentare le ragioni della decisione; ed è appunto questa limitazione a formare oggetto della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione.

4.2.– Una questione analoga è stata già decisa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 321 del 2004, che, con riferimento alle sole misure di prevenzione personali, ne ha dichiarato l’infondatezza.

Con questa decisione la Corte, dopo avere affermato che il risultato perseguito dal rimettente non poteva ritenersi costituzionalmente obbligato, ha rilevato che la questione si basava «sul confronto tra settori direttamente non comparabili, posto che il procedimento di prevenzione, il processo penale e il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sono dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali». D’altra parte – ha aggiunto la Corte – «è giurisprudenza costante […] che le forme di esercizio del diritto di difesa possano essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione (v. tra molte ordinanze n. 352 e n. 132 del 2003). Di conseguenza non può ritenersi lesivo dei parametri evocati che i vizi della motivazione siano variamente considerati a seconda del tipo di decisione a cui ineriscono».

Occorre sottolineare che i medesimi argomenti, relativi alla diversità del procedimento di prevenzione e alle garanzie difensive, sono stati più recentemente posti a base della sentenza n. 21 del 2012 e dell’ordinanza n. 216 del 2012, che ad altri fini hanno ribadito la conformità ai principi costituzionali del procedimento di prevenzione, anche alla luce delle riforme operate nel 2008 e nel 2009.

4.3.– Il procedimento di prevenzione e il procedimento penale, nella cui cornice viene applicata la confisca dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, sono dotati di proprie peculiarità, sia per l’aspetto processuale, sia per quello dei presupposti sostanziali.

Con riferimento all’aspetto processuale, deve ritenersi, tra l’altro, non concludente l’argomento dell’ordinanza impugnata, che pone a confronto il procedimento per la confisca di prevenzione, disgiunto da quello per la misura personale, con il procedimento di esecuzione per la confisca ex art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, disgiunto dal processo penale, e rileva che in quest’ultimo procedimento, con il ricorso per cassazione contro l’ordinanza che dispone la confisca, può censurarsi la motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., mentre nel procedimento di prevenzione ciò non è consentito. Il giudice rimettente infatti non considera che, mentre nel procedimento di prevenzione è previsto il «ricorso alla Corte d’appello, anche per il merito» (art. 4, decimo comma, della legge n. 1423 del 1956), in quello di esecuzione è previsto solo il ricorso per cassazione. Quindi anche sotto questo aspetto emerge la differenza tra i due sistemi e, dopo un secondo grado di merito, ben può giustificarsi la limitazione del sindacato sulla motivazione.

Gli altri aspetti, richiamati dall’ordinanza di rimessione, secondo cui entrambi i provvedimenti vengono adottati nell’ambito di un procedimento dal carattere giurisdizionale e si concludono con provvedimenti definitivi, anche se suscettibili di revoca, non appaiono tali da indurre a superare le rilevanti diversità tra i due procedimenti, che si riferiscono a situazioni sostanziali differenti. Al riguardo, questa Corte, nell’ordinanza n. 275 del 1996, ha già avuto occasione di sottolineare «le profonde differenze, di procedimento e di sostanza, tra le due sedi, penale e di prevenzione: la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell’esercizio dell’azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato».

Né per sostenere la violazione dell’art. 3 Cost. può farsi utilmente riferimento, come tertium comparationis, alla confisca prevista dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, dato che recentemente la Corte di cassazione, a sezioni unite, ha negato la possibilità di equiparare le due forme di confisca.

Secondo le sezioni unite, infatti, «La diversa struttura normativa delle due fattispecie, con le diverse ricadute operative, già esclude che possa porsi la prospettata unità di ratio legis». È chiaro, infatti, hanno aggiunto le sezioni unite, «che la finalità di impedire l’utilizzo per realizzare ulteriori vantaggi (non necessariamente reati) – coerente con i profili economici della sostanza della prevenzione – ben si distingue dalla finalità propria di una misura di sicurezza atipica che comunque, attraverso l’ablazione, mira principalmente ad impedire la commissione di nuovi reati» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 29 maggio 2014, n. 33451).

Al riguardo, va sottolineato che «Le peculiarità del procedimento di prevenzione devono […] essere valutate alla luce della specifica ratio della confisca in esame, una ratio che, come ha affermato questa Corte, da un lato, “comprende ma eccede quella delle misure di prevenzione consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al “circuito economico” di origine, per inserirlo in altro, esente dai condizionamenti criminali che caratterizzano il primo” e, dall’altro, “a differenza di quella delle misure di prevenzione in senso proprio, va al di là dell’esigenza di prevenzione nei confronti di soggetti pericolosi determinati e sorregge dunque la misura anche oltre la permanenza in vita del soggetto pericoloso” (sentenza n. 335 del 1996)» (sentenza n. 21 del 2012).

Il sistema delle misure di prevenzione ha dunque una sua autonomia e una sua coerenza interna, mirando ad accertare una fattispecie di pericolosità, che ha rilievo sia per le misure di prevenzione personali, sia per la confisca di prevenzione, della quale costituisce «presupposto ineludibile», e, una volta giudicata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956 (sentenza n. 321 del 2004) rispetto alle misure personali, sarebbe irrazionale il sistema che si verrebbe a delineare ritenendo invece fondata l’analoga questione relativa alla confisca di prevenzione. Si determinerebbe, infatti, una diversa estensione del sindacato della Corte di cassazione sul provvedimento impugnato, anche in relazione al medesimo presupposto della pericolosità del proposto, a seconda che venga in rilievo una misura personale o una misura patrimoniale, e l’irrazionalità sarebbe evidente qualora le due misure fossero adottate con lo stesso provvedimento, come appunto è avvenuto nel giudizio a quo.

Non vale osservare che, in taluni casi, la confisca può essere disgiunta dall’applicazione della misura di prevenzione personale, perché non è su questi casi particolari che può costruirsi un sistema nel quale, fin dalla loro introduzione con l’inserimento nella legge n. 575 del 1965, le misure patrimoniali sono state collegate a quelle personali.

Se si considera che la pericolosità, sulla quale si basano le misure di prevenzione personali, costituisce il presupposto di quelle reali, non può sostenersi che, quando, come è avvenuto nel caso in esame, il provvedimento impugnato le riguarda entrambe, il sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione possa essere diverso rispetto alle due misure. Né può pensarsi che la censura relativa alla motivazione sulla pericolosità debba rimanere nell’ambito della violazione di legge, quando il provvedimento impugnato riguarda sia la misura personale, sia quella patrimoniale, e possa invece estendersi ai casi previsti dall’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., quando il provvedimento impugnato riguarda esclusivamente la misura patrimoniale e la pericolosità forma oggetto, come si ritiene possibile, solo di un accertamento incidentale.

Deve quindi concludersi che la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione è priva di fondamento.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 4, undicesimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 3-ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, quinta sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 aprile 2015.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 9 giugno 2015.