Ordinanza n. 353 del 2010

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ORDINANZA N. 353

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Ugo                             DE SIERVO                                    Presidente

-           Paolo                           MADDALENA                                 Giudice

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     “

-           Alfonso                       QUARANTA                                           “

-           Franco                         GALLO                                                    “

-           Luigi                            MAZZELLA                                            “

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             “

-           Sabino                         CASSESE                                                “

-           Maria Rita                   SAULLE                                                  “

-           Giuseppe                     TESAURO                                               “

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       “

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     “

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          “

-           Paolo                           GROSSI                                                   “

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 449, comma 4, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 3 febbraio 2010 dal Tribunale di Taranto, nel procedimento penale a carico di C. B. ed altri, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 17 novembre 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto che il Tribunale di Taranto, con ordinanza depositata il 3 febbraio 2010, ha sollevato, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 449, comma 4, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice investito del giudizio direttissimo possa restituire gli atti al pubblico ministero quando abbia constatato la non flagranza del reato;

che, come il rimettente riferisce, gli imputati C. B., R. V. e R. G. sono stati tratti a giudizio direttissimo, ai sensi dell’art. 449, comma 4, cod. proc. pen., insieme con l’imputato C. C., nei confronti del quale il processo è stato definito mediante sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.;

che il giudicante, dopo aver pronunciato la detta sentenza nei confronti dell’imputato C. C., si è dichiarato incompatibile alla trattazione del giudizio direttissimo per gli altri imputati, sicché il rito speciale relativamente a costoro è stato assegnato al giudice  a quo;

che, in relazione ai motivi dell’arresto, quest’ultimo riferisce che alle ore 12,15 del 24 dicembre 2009 gli agenti del commissariato di pubblica sicurezza di Grottaglie (TA) si erano recati in via Lazio, in quanto era stato segnalato un tentativo di accoltellamento; sul luogo era stato rinvenuto personale sanitario il quale prestava assistenza a R. V., mentre poco distante vi era un’altra persona ferita, successivamente identificata in R. G. Tale individuo, trasportato con autoambulanza all’ospedale civile di Taranto, era risultato affetto da varie ferite da taglio, mentre R. V. era ricoverato presso l’ospedale di Grottaglie nel reparto di chirurgia, a sua volta con ferite da taglio;

che personale del commissariato si era recato presso l’ospedale di Grottaglie e qui da R. V. aveva appreso, oralmente, che a procedere all’aggressione era stato tale O.;

che le indagini successivamente espletate avevano consentito di identificare gli imputati C. B. e C. C., i quali, oralmente, rilasciavano dichiarazioni in ordine alla propria versione dei fatti;

che alle ore 13,30 la polizia aveva proceduto all’arresto in flagranza per il reato di rissa aggravata, nei confronti di R. V., R. G., C. B. e di C. C.; gli ultimi due erano stati tratti in arresto anche per il delitto di tentato omicidio;

che il pubblico ministero aveva formulato al giudice per le indagini preliminari richiesta di convalida dell’arresto per il delitto di rissa e lesioni aggravate dall’uso di un coltello, nonché richiesta di emissione di misure cautelari coercitive, stante la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza desumibili dall’avvenuto arresto in flagranza;

che il giudice per le indagini preliminari aveva convalidato gli arresti con la motivazione «perché eseguiti in flagranza», ed aveva emesso misure cautelari coercitive;

che il rimettente, così riassunte le emergenze del verbale di arresto, rileva come il reato di rissa e quelli contro l’incolumità personale non si siano compiuti in un contesto spaziale e temporale caduto sotto la diretta percezione della polizia, onde non si comprende perché sia stato effettuato l’arresto in flagranza;

che il rimettente richiama la normativa processuale concernente i procedimenti a carico di persone private della libertà personale e rileva che un soggetto «può essere tratto in arresto dall’autorità di pubblica sicurezza soltanto nello stato di flagranza (art. 382 c.p.p.) allorché viene colto nell’atto di commettere il reato, ovvero, se subito dopo il reato è inseguito dalla polizia giudiziaria, ovvero è sorpreso con cose e tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima»;

che, inoltre, «la nozione di flagranza e della quasi flagranza è semplice e non ammette opinabili interpretazioni, atteso che in entrambi i casi il presupposto della privazione della libertà da parte del soggetto da parte della polizia fonda sul fatto che la commissione del reato sia caduta sotto la diretta percezione della polizia operante»;

che il giudice a quo dà conto dell’iter processuale contemplato per le diverse situazioni, soffermandosi sul rito direttissimo con persone in stato di detenzione, in base alla normativa dettata dall’art. 449 cod. proc. pen.;

che, a suo avviso, la procedura prevista da tale norma presenta una «evidente anomalia» in ordine alla differente disciplina stabilita con riferimento alla fattispecie processuale di cui ai commi 1 e 2, ed a quella di cui al comma 4 della medesima;

che, in particolare, sussisterebbe «una contraddizione logica non sostenibile» nel dato che, se la convalida dell’arresto è demandata allo stesso giudice del dibattimento (art. 449, comma 1, cod. proc. pen.), la mancata convalida comporta la restituzione degli atti al pubblico ministero (art. 449, comma 2, cod. proc. pen.), «perché proceda nelle forme ordinarie»; invece, se il giudice per le indagini preliminari ha convalidato l’arresto e il pubblico ministero presenta l’imputato al giudice perché proceda a giudizio direttissimo (art. 449, comma 4, cod. proc. pen.), la dizione della norma parrebbe imporre la celebrazione, comunque, di detto giudizio;

che, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata viola l’art. 24 Cost. perché essa, se la flagranza è inesistente, non prevedendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, priva l’imputato del diritto di vedere accertata la propria responsabilità con regolari indagini preliminari e là dove previsto, con il vaglio dell’udienza preliminare «che, quindi, gli sarebbe arbitrariamente sottratta»;

che, per altro verso, la giurisdizione dibattimentale «per effetto di apparente e fallace rappresentazione della flagranza di reato, risulta incomprensibilmente espropriata della funzione di accertare con la rapidità, connaturata al rito direttissimo, fatti che, in realtà, possono comportare defatiganti istruzioni dibattimentali»;

che, a tal proposito, il rimettente pone in evidenza come il rito direttissimo sia caratterizzato dalla rapida ed incontrovertibile delibazione di fatti nella sede dibattimentale mentre la recente innovazione legislativa, introdotta con il decreto-legge 23 maggio 2008, n. 2 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, che ha reso obbligatoria tale forma di giudizio, «con le ricadute che ciò comporta in termini di carico di lavoro, non pare possa relegare il tribunale a spettatore inerte di flagranze inesistenti»;

che il Tribunale, pur non ignorando che il controllo della convalida dell’arresto è demandato alla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 391, comma 4, cod. proc. pen., osserva come il mancato esperimento del relativo ricorso non equivalga a rendere legale l’arresto stesso;

che, ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata viola anche l’art. 111 Cost., in quanto, non consentendo al giudice del dibattimento di sindacare incidenter tantum la convalida già effettuata dal giudice per le indagini preliminari, al solo fine di stabilire se il giudizio direttissimo sia da ritenere ritualmente e correttamente instaurato, impedirebbe la celebrazione di un processo equo;

che, in punto di rilevanza, il rimettente sottolinea che il giudizio in corso deve proseguire, benché sussista l’evidenziato vulnus difensivo nei confronti degli imputati, in quanto, secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione, nel caso di specie «non è possibile dichiarare la nullità della citazione per direttissima, blindata da una formale intervenuta convalida, ancorché non motivata, dell’arresto in flagranza per i reati dei quali sono chiamati a rispondere»;

che nel giudizio di legittimità costituzionale, con atto depositato il 23 giugno 2010, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;

che, ad avviso della difesa dello Stato, la questione deve essere dichiarata non fondata in virtù dell’orientamento della Corte secondo cui il legislatore, nel definire la disciplina del processo e la conformazione dei relativi istituti, gode di ampia discrezionalità, il cui esercizio è censurabile sul piano della legittimità costituzionale, solo ove le scelte operate trasmodino nella manifesta irragionevolezza e nell’arbitrio (al riguardo l’Avvocatura richiama l’ordinanza n. 67 del 2007, nonché le sentenze n. 379 del 2005, n. 180 del 2004 e le ordinanze n. 389, n. 215 del 2005 e n. 265 del 2004);

che, con specifico riferimento agli argomenti utilizzati dal rimettente, la difesa dello Stato osserva come nel caso disciplinato dall’art. 449, comma 1, cod. proc. pen., il giudizio di convalida sia riservato al controllo dello stesso giudice del dibattimento, mentre nel caso previsto dal 4° comma della disposizione, il controllo sulla legittimità dell’arresto e della convalida sia compito esclusivo del gip, e al giudice del dibattimento spetta solo «di verificare che l’arresto in flagranza sia stato convalidato e che la presentazione dell’imputato all’udienza sia avvenuta non oltre il quindicesimo giorno dall’arresto»;

che, in particolare, l’Avvocatura generale dello Stato sostiene che l’assetto delle competenze del giudice per le indagini preliminari e del giudice del dibattimento non comporta alcun vulnus ai diritti di difesa, potendo la eventuale insussistenza del requisito della flagranza essere fatta valere tramite ricorso in cassazione avverso la convalida dell’arresto ad opera dello stesso gip e rimanendo, comunque, ferma la possibilità di difendersi dall’accusa davanti al giudice del dibattimento;

che, infine, la restituzione degli atti al giudice per le indagini preliminari determinerebbe una dilatazione dei tempi processuali in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.

Considerato che il Tribunale di Taranto ha sollevato, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 449, comma 4, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice investito del giudizio direttissimo possa restituire gli atti al pubblico ministero quando abbia constatato la non flagranza del reato;

che, come il giudice a quo riferisce, gli imputati C. B., R. V. e R. G. sono stati tratti a giudizio direttissimo, ai sensi dell’art. 449, comma 4, cod. proc. pen., insieme con l’imputato C. C., il quale ha definito il processo mediante sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.;

che il giudicante, dopo aver pronunciato la sentenza nei confronti dell’imputato C. C., ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., si è dichiarato incompatibile alla trattazione del giudizio direttissimo per gli altri imputati, sicché il rito speciale nei loro confronti è stato assegnato al medesimo rimettente;

che quest’ultimo, esposte le circostanze in cui gli arresti furono eseguiti, riassunte nella narrativa che precede, osserva che a seguito delle richieste del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari li convalidava con la motivazione «perché eseguiti in flagranza», emettendo misure cautelari coercitive, e ritiene che certamente il reato di rissa e quelli contro l’incolumità personale non avvennero in un contesto spaziale e temporale caduto sotto la diretta percezione della polizia onde non si comprende perché fu effettuato l’arresto in flagranza;

che, ad avviso del giudice a quo, la procedura prevista dalla disposizione censurata presenta una «evidente anomalia» in ordine alla differente disciplina stabilita con riferimento alla fattispecie processuale di cui ai commi 1 e 2, ed a quella di cui al comma 4;

che il rimettente, in particolare, individua «una contraddizione logica non sostenibile» nel dato che, se la convalida dell’arresto è demandata allo stesso giudice del dibattimento (art. 449, comma 1, cod. proc. pen.), la mancata convalida comporta la restituzione degli atti al pubblico ministero (art. 449, comma 2, cod. proc. pen.), «perché proceda nelle forme ordinarie»; invece, se il giudice per le indagini preliminari ha convalidato l’arresto ed il pubblico ministero presenta l’imputato al giudice perché proceda a giudizio direttissimo (art. 449, comma 4, cod. proc. pen.), la dizione della norma parrebbe imporre la celebrazione, comunque, di detto giudizio;

che, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata viola l’art. 24 Cost. perché essa, se la flagranza è inesistente, non prevedendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, priva l’imputato del diritto di vedere accertata la propria responsabilità con regolari indagini preliminari e, se previsto, con il vaglio dell’udienza preliminare;

che il rimettente, inoltre, reputa che la fase dibattimentale «per effetto di apparente e fallace rappresentazione della flagranza di reato, risulta incomprensibilmente espropriata della funzione di accertare con la rapidità, connaturata al rito direttissimo, fatti che, in realtà, possono comportare defatiganti istruzioni dibattimentali»;

che egli, pur non ignorando che il controllo della convalida dell’arresto è demandato alla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 391, comma 4, cod. proc. pen., osserva come il mancato esperimento del relativo ricorso, che può verificarsi per molteplici motivi, non equivalga a dare all’arresto stesso il suggello della legalità;

che, ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata viola anche l’art. 111 Cost., in quanto, non consentendo al giudice del dibattimento di sindacare incidenter tantum la convalida già effettuata dal giudice per le indagini preliminari, al fine di stabilire se il giudizio direttissimo sia da ritenere ritualmente e correttamente instaurato, impedirebbe la celebrazione di un processo equo;

che la questione è manifestamente infondata;

che identica questione è già stata dichiarata non fondata da questa Corte con sentenza n. 229 del 2010;

che nella pronunzia citata questa Corte ha ribadito il principio secondo cui, in tema di disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali, il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute (ex plurimis: sentenze n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 379 del 2005; ordinanze n. 134 del 2009 e n. 67 del 2007);

che, in particolare, con riferimento alla disposizione censurata, la Corte ha escluso che essa sia frutto di una scelta (manifestamente) irragionevole del legislatore, «in quanto la differente disciplina, predisposta in relazione alle fattispecie indicate, si inserisce, in modo coerente, nel sistema processuale e, inoltre, trova adeguata tutela nella possibilità di esperire il ricorso per cassazione previsto dall’art. 391, comma 4, cod. proc. pen.»;

che questa Corte, inoltre, ha posto in evidenza come la convalida dell’arresto in flagranza, operato dalla polizia giudiziaria, sia oggetto di un autonomo procedimento disciplinato dall’art. 391 cod. proc. pen., il quale, stante l’esplicito rinvio contenuto nell’art. 449, comma 1, cod. proc. pen., è applicabile, se compatibile, anche al giudizio di convalida innanzi al giudice del rito direttissimo;

che, sempre nella citata pronunzia, la Corte ha precisato che la normativa in esame ha il fine di verificare, nel contraddittorio delle parti ed alla presenza di un giudice terzo, se la privazione della libertà personale dell’arrestato sia avvenuta nel rispetto dei presupposti di legge, sicché il controllo della legittimità dell’arresto, a seconda della situazione processuale, è riservato allo stesso giudice del dibattimento o al giudice per le indagini preliminari;

che, pertanto, se si versa nell’ipotesi in cui l’imputato, arrestato in flagranza di reato, è presentato direttamente al giudice che celebrerà il dibattimento nelle forme del rito speciale, il controllo sulla legittimità dell’arresto è a lui riservato; mentre, se il pubblico ministero decide di procedere al giudizio direttissimo, presentando l’imputato non oltre il trentesimo giorno dall’arresto, la legittimità di questo deve essere stata già valutata da un giudice, nella specie dal giudice per le indagini preliminari (ciò in quanto, ai sensi dell’art. 390 cod. proc. pen., la richiesta di convalida dell’arresto deve intervenire entro le quarantotto ore dallo stesso e il giudice per le indagini preliminari deve fissare l’udienza al più presto e, comunque, entro le quarantotto successive);

che, dunque, in quest’ultimo caso il sindacato del giudice del dibattimento è limitato a verificare la sussistenza dei presupposti di ammissibilità del rito speciale, il rispetto dei termini di presentazione e l’intervenuta convalida dell’arresto, sicché soltanto nell’ipotesi in cui il giudice del dibattimento è anche quello chiamato alla convalida dell’arresto, la mancata convalida determina la trasmissione degli atti al pubblico ministero, essendo venuto meno uno dei presupposti di ammissibilità del rito;

che nella sentenza n. 229 del 2010 la Corte ha affermato, inoltre, come «la scelta del legislatore, di demandare al rimedio impugnatorio del ricorso per cassazione il sindacato sul merito dell’ordinanza di convalida dell’arresto, sia in armonia con il quadro normativo sopra tratteggiato e con l’art. 111, settimo comma, Cost. nella parte in cui prevede che avverso i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso per cassazione»;

che, con riferimento all’asserita violazione dell’art. 24 Cost., la Corte ha precisato che l’assetto processuale predisposto dall’art. 449 cod. proc. pen. non comporta la violazione del diritto di difesa dell’imputato, non potendo tale lesione consistere nella privazione del diritto per quest’ultimo «di vedere accertata la propria responsabilità con regolari indagini e, occorrendo, con il vaglio dell’udienza preliminare, che, quindi, gli sarebbe arbitrariamente sottratta»;

che, al riguardo, la Corte richiama la sentenza n. 164 del 1983 nella quale, seppure con riferimento al giudizio direttissimo disciplinato dal codice di rito del 1930, si è affermato il principio per cui «la mancanza della fase istruttoria, che caratterizza il giudizio direttissimo nel suo complesso, sia esso tipico o atipico, facoltativo o obbligatorio, non confligge con il diritto di difesa, atteso che non sussiste un interesse dell’imputato, costituzionalmente protetto, a che il riconoscimento della sua innocenza avvenga in una fase anteriore al dibattimento»;

che, sempre con riferimento alla violazione dell’art. 24 Cost., nella sentenza n. 229 del 2010 la Corte richiama anche la sentenza n. 172 del 1972, in cui si è statuito che «il fatto che il diritto di difesa è garantito dall’art. 24, secondo comma, della Costituzione ”in ogni stato” del procedimento non significa che la Costituzione imponga che il procedimento conosca necessariamente «più stati», ma solo che, quando più fasi processuali siano stabilite dalla legge, non ve ne sia alcuna nella quale la difesa sia preclusa»;

che, dunque, come affermato da questa Corte nella citata recente pronunzia, detti principi ben si attagliano anche al vigente sistema processuale, sicché è possibile trarre una regola di carattere generale, applicabile all’attuale giudizio direttissimo, caratterizzato dall’assenza delle fase delle indagini preliminari;

che, poi, la Corte ha ribadito quanto affermato nella sentenza n. 164 del 1983, cioè che «la scelta della struttura del processo si risolve comunque in un problema di scelta legislativa, come tale rimesso al legislatore ordinario, il quale può razionalmente prescindere dallo schema tradizionale sulla base di specifiche valutazioni di politica criminale, senza che ciò incida affatto sul diritto di difesa che ben potrà essere esercitato nel dibattimento in tutta la sua pienezza»;

che, con riferimento alla violazione dell’art. 111 Cost. la Corte, nella sentenza n. 229 del 2010, ha affermato che la disposizione censurata, alla luce delle argomentazioni esposte e qui riassunte, non reca alcun vulnus al principio del giusto processo;

che, infine, il rimettente non adduce elementi nuovi idonei a superare il convincimento qui richiamato, sicché vanno ribadite le argomentazioni svolte nella sentenza da ultimo citata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 449, comma 4, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Taranto, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 29 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 3 dicembre 2010.