Ordinanza n. 95 del 2010

 CONSULTA ONLINE 

 

ORDINANZA N. 95

 

ANNO 2010

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

-        Ugo                       DE SIERVO                 Presidente

 

-        Alfio                     FINOCCHIARO             Giudice

 

-        Alfonso                 QUARANTA                        “

 

-        Franco                   GALLO                                “

 

-        Luigi                     MAZZELLA                         “

 

-        Gaetano                 SILVESTRI                          “

 

-        Sabino                   CASSESE                             “

 

-        Maria Rita              SAULLE                               “

 

-        Giuseppe                TESAURO                            “

 

-        Paolo Maria           NAPOLITANO                     “

 

-        Giuseppe                FRIGO                                  “

 

-        Alessandro            CRISCUOLO                        “

 

-        Paolo                     GROSSI                                “

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, decreto legislativo del 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), promosso dal Tribunale di Catania nel procedimento penale a carico di Y. I. ed altri, con ordinanza del 17 luglio 2008, iscritta al n. 226 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 2009.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

 

Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Catania, in composizione monocratica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), in riferimento agli articoli 25, 76 e 77 della Costituzione, nella parte in cui «commina pene superiori ai limiti edittali indicati nella legge delega n. 52/1996 e individua la fattispecie di reato del trasferimento di fondi fissandone la relativa disciplina sanzionatoria»;

che il giudice a quo riferisce di essere chiamato a trattare un processo promosso nei confronti di tre persone imputate del delitto previsto e punito dagli articoli 110 del codice penale e 5, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 153 del 1997 perché, in concorso tra loro e nelle qualità di cui all’imputazione, esercitavano attività di “money transfer” (incasso e trasferimento di denaro su circuito internazionale), senza la prevista iscrizione nell’apposito elenco degli agenti in attività finanziaria istituito presso l’Ufficio Italiano Cambi;

che, ad avviso del rimettente, la previsione, operata dal legislatore delegato, della fattispecie delittuosa di cui all’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 153 del 1997, in riferimento all’abusiva attività di “money transfer”, non è attuativa di alcun criterio direttivo contenuto nell’art. 15 della legge delega del 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 1994), perché detta legge, con il citato art. 15, comma 1, lettera c), ha richiamato, per l’individuazione della condotta incriminata e per le sanzioni da applicare, il decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143 (Provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 luglio 1991, n. 197, il quale non contiene disposizioni che puniscono come delitto condotte consistenti nell’esercizio professionale di attività finanziarie senza iscrizione nell’elenco istituito presso l’autorità di controllo;

che, inoltre, la norma censurata si pone in contrasto con i criteri direttivi stabiliti dalla legge delega, perché introduce una fattispecie di reato e una pena non previste dalla normativa di cui al d.l. n. 143 del 1991, alle cui disposizioni i decreti legislativi attuativi dovevano attenersi e che, all’atto dell’emanazione della stessa legge delega, contemplava soltanto ipotesi di reato aventi natura contravvenzionale;

che, secondo il giudice a quo, è violato anche il dettato dell’art. 25 Cost., in quanto «il principio di legalità nell’ambito del diritto penale implica che le fattispecie di reato siano previste dalla legge», mentre l’individuazione della condotta oggetto dell’imputazione è avvenuta in seguito alla introduzione di una norma regolamentare (nella specie, il decreto ministeriale del 13 dicembre 2001, n. 485), in insanabile contrasto con il principio della riserva di legge in materia penale previsto dal menzionato precetto costituzionale;

che, in conclusione, la questione appare rilevante nel giudizio a quo e non manifestamente infondata in riferimento ai parametri di cui agli artt. 25, 76 e 77 Cost.;

che, nel giudizio di legittimità costituzionale, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto il giudice a quo sarebbe incorso in errore nell’individuazione della «norma interposta», perché tra i principii stabiliti dalla legge delega n. 52 del 1996 dev’essere considerato non soltanto il disposto dell’art. 15 (che detta i criteri direttivi specifici ai fini dell’integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CE), ma anche quello dell’art. 3, comma 1, lettera c), che – ricalcando le formulazioni di solito utilizzate nelle «leggi comunitarie» - abilita il legislatore delegato a prevedere, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle norme dei decreti stessi ed individua, altresì, i criteri di scelta delle sanzioni in collegamento con la natura degli interessi lesi e con il tipo di aggressione ad essi recata, tra l’altro stabilendo che «In ogni caso, in deroga ai limiti sopraindicati, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi saranno previste sanzioni penali o amministrative identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni medesime»;

che, sulla base di tale principio, l’eccesso di delega deve ritenersi escluso nel caso in esame, «se nell’ordinamento giuridico sia possibile rintracciare almeno una norma che abbia il medesimo regime sanzionatorio di quella censurata» e si presenti in termini di sostanziale omogeneità con la stessa;

che, in effetti, tale norma s’identifica nell’art. 132 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), il quale prevede una fattispecie coincidente, sia per la cornice edittale sia per la struttura, con la norma censurata;

che la sostanziale omogeneità delle due ipotesi di reato non può essere posta in dubbio, in quanto entrambe si riferiscono ad attività assimilabili, proprio in ragione della «particolare suscettibilità di utilizzazione a fini di riciclaggio per il fatto di realizzare l’accumulazione o il trasferimento di ingenti disponibilità economiche o finanziarie o risultare comunque esposte ad infiltrazioni da parte della criminalità organizzata» (art. 15, comma 1, lettera c, della legge n. 52 del 1996).

 

Considerato che il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), in riferimento agli articoli 25, 76 e 77 della Costituzione, «nella parte in cui commina pene superiori ai limiti edittali indicati nella legge delega n. 52/1996 e individua la fattispecie di reato del trasferimento di fondi fissandone la relativa disciplina sanzionatoria»;

 

che, ad avviso del giudice a quo, l’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 153 del 1997 si pone in contrasto con i criteri direttivi contenuti nell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge delega del 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 1994);

che, infatti, il detto art. 15, per la previsione della condotta incriminata e per le sanzioni da applicare, fa riferimento al decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143 (Provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio), il quale disciplina fattispecie di reato differenti, e aventi soltanto natura contravvenzionale, rispetto alla fattispecie introdotta dalla norma censurata, relativa all’esercizio professionale di attività finanziarie senza iscrizione nell’elenco istituito presso l’autorità di controllo;

che il rimettente valuta, tuttavia, la sussistenza del rilevato vizio di eccesso di delega esclusivamente alla luce dei criteri specifici dettati dall’art. 15 della legge n. 52 del 1996 ai fini dell’integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE, senza tenere conto dei criteri generali stabiliti dalla medesima legge anche in tema di disciplina delle sanzioni: criteri, questi ultimi, la cui applicabilità non è esclusa dai primi;

che, secondo un approccio tipico delle “leggi comunitarie”, la legge n. 52 del 1996 ha delegato il Governo ad emanare i decreti legislativi recanti le norme necessarie per dare attuazione ad un complesso di direttive comunitarie, indicate nell’allegato A alla medesima legge (art. 1), fra le quali è compresa la direttiva 91/308/CEE in tema di prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite;

che la medesima legge n. 52 del 1996 reca, altresì, all’art. 3, un insieme di criteri e principii direttivi “generali”, cioè valevoli per tutti i decreti legislativi da emanare, salvi i principi specifici dettati dai successivi articoli in relazione alle singole materie, ed in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare;

che, inoltre, con particolare riguardo all’assetto sanzionatorio, la lettera c) del citato art. 3 – ripetendo una formula corrente nelle “leggi comunitarie” – stabilisce che il legislatore delegato può introdurre sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi, ove necessario al fine di assicurarne l’osservanza, entro il limite dell’ammenda fino a lire duecento milioni e dell’arresto fino a tre anni, quanto alle sanzioni penali, e sempre che le infrazioni ledano o espongano a pericolo «interessi generali dell’ordinamento interno del tipo di quelli tutelati dagli artt. 34 e 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689»;

che la medesima disposizione, tuttavia, aggiunge che «In ogni caso, in deroga ai limiti sopra indicati, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi saranno previste sanzioni penali o amministrative identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni medesime»;

che – come emerge chiaramente dalla relazione integrativa allo schema del d.lgs. n. 153 del 1997 – proprio sulla base del criterio generale di delega ora indicato, e non già di quelli specifici di cui all’art. 15 della medesima legge, il legislatore delegato ha inteso emanare la norma incriminatrice di cui si discute: e ciò sul rilievo che la fattispecie di abusivismo contemplata da tale norma risulterebbe omogenea e di pari offensività rispetto al delitto di abusiva attività finanziaria previsto dall’art. 132 decreto legislativo del 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), nonché al delitto di abusivo esercizio dell’attività di mediazione creditizia, previsto dall’art. 16, comma 7, della legge 7 marzo 1996, n. 108 (Disposizioni in materia di usura), reati al cui trattamento sanzionatorio è stato quindi allineato quello dell’ipotesi criminosa di cui si discute;

che, pertanto, come eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, il rimettente ha individuato in modo errato la norma di delega alla cui stregua va apprezzata la sussistenza della violazione dedotta con riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., svolgendo per conseguenza argomentazioni inconferenti ai fini di tale valutazione, il che rende la questione sollevata manifestamente inammissibile (sentenza n. 382 del 2004; ordinanza n. 72 del 2003);

che i rilievi fin qui svolti sono stati già esposti da questa Corte nelle ordinanze n. 73 del 2009 e n. 194 del 2008, che, sulla base di essi, hanno dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, sollevate nei confronti della medesima norma, qui denunciata in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost.;

che i detti rilievi non sono stati in alcun modo superati dall’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe;

che, inoltre, le censure sollevate dal giudice a quo in riferimento alla violazione del parametro di cui all’art. 25 Cost. risultano generiche e, comunque, affermando che il precetto della norma incriminatrice sarebbe stato individuato con il decreto ministeriale del 13 dicembre 2001, n. 485 (Regolamento emanato ai sensi dell’articolo 3 del d.lgs. 25 settembre 1999, n. 374, in materia di agenzia in attività finanziaria), trascurano di considerare che già l’art. 106, comma 1, del d.lgs. n. 385 del 1993 (nel testo originario) prevedeva che l’esercizio delle attività di prestazione di servizi di pagamento, nel cui novero rientra il trasferimento di fondi, fosse riservato a intermediari finanziari iscritti in apposito elenco, mentre i servizi di incasso, pagamento e trasferimento di fondi erano espressamente menzionati tra le attività di intermediazione finanziaria nell’ambito dello stesso d.l. n. 143 del 1991 (art. 4, comma 2);

che, pertanto, contrariamente a quanto assume il rimettente, l’individuazione della condotta contestata non è avvenuta con il citato decreto ministeriale, il quale si è limitato a disciplinare l’elenco previsto dall’art. 3 del decreto legislativo 25 settembre 1999, n. 374 (Estensione delle disposizioni in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita ed attività finanziarie particolarmente suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio, a norma dell’art. 15 della legge 6 febbraio 1996, n. 52).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), sollevata, in riferimento agli articoli 25, 76 e 77 della Costituzione, dal Tribunale di Catania con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2010.

 

F.to:

 

Ugo DE SIERVO, Presidente

 

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

 

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2010.