Ordinanza n. 143 del 2009

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ORDINANZA N. 143

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco               AMIRANTE            Presidente

- Ugo                        DE SIERVO              Giudice

- Paolo                      MADDALENA              "

- Alfio                       FINOCCHIARO            "

- Alfonso                   QUARANTA                 "

- Franco                    GALLO                        "

- Luigi                       MAZZELLA                  "

- Gaetano                  SILVESTRI                   "

- Sabino                    CASSESE                     "

- Maria Rita               SAULLE                       "

- Giuseppe                 TESAURO                    "

- Paolo Maria             NAPOLITANO             "

- Giuseppe                 FRIGO                         "

- Alessandro              CRISCUOLO                "

- Paolo                      GROSSI                       "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 246 del codice di procedura civile promosso, nel procedimento civile vertente tra Nouioui Zahi Ben Amor e la Mutuelles Du Mans Assicurazioni S.p.a. ed altri, dal Tribunale ordinario di Napoli con ordinanza del 27 aprile 2007, iscritta al n. 369 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

       udito nella camera di consiglio dell’11 marzo 2009 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che, con ordinanza depositata il 27 aprile 2007, il Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 246 del codice di procedura civile nella parte in cui non consente, neppure nel caso in cui non si disponga di alcun altro strumento di prova, di assumere come testimoni persone che sono o potrebbero essere presenti nel giudizio come parti;

che, nel riferire le vicende del giudizio a quo, il rimettente precisa: a) di essere chiamato a giudicare in una causa di risarcimento danni da infortunistica stradale nella quale era stato convenuto in giudizio, oltre alla impresa assicuratrice che fornisce la garanzia per la responsabilità civile, il proprietario del veicolo che si assume investitore; b) che, essendo questi deceduto, il giudizio era stato riassunto nei confronti delle eredi del medesimo, rimaste, peraltro, contumaci; c) che la convenuta società assicuratrice aveva indicato quali testi, sulle circostanze di fatto esposte in comparsa di costituzione, il conducente del veicolo al momento del sinistro e la di lui moglie, rispettivamente genero e figlia dell’altro originario convenuto; d) che, avendo la difesa dell’attore eccepito la incapacità di costoro a rendere testimonianza, ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ., in quanto la seconda era divenuta parte a seguito della riassunzione del giudizio nei suoi confronti successivamente al decesso del padre ed il primo era ab origine portatore di interesse che lo qualificherebbe ad intervenire nel processo, il Tribunale di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 246 cod. proc. civ;

che il rimettente – dato atto che la difesa della impresa assicuratrice ha sostenuto di non avere altre prove da esperire – osserva che – sebbene la Corte abbia in passato già valutato negativamente la compatibilità costituzionale di alcune disposizioni del codice di rito sul divieto di testimoniare gravante su talune categorie di persone, dichiarando, in particolare, incostituzionali quelle che lo prevedevano a carico di coniuge, parenti ed affini delle parti nonché dei minori infraquattordicenni – l’art. 246 del codice di rito ha, invece, superato positivamente il controllo della Corte;

che, aggiunge ancora il rimettente, la questione può tuttavia essere riproposta sotto altri profili e con riguardo a disposizioni costituzionali sopravvenute alle precedenti pronunce;

che il rimettente – osservato che il divieto di testimoniare a carico delle parti trae origine da ordinamenti «intrisi anche di valori religiosi», essendo finalizzato a tutelarle dallo spergiuro, e che esso, in vista di una più ampia nozione di testimonianza, in altri ordinamenti è sconosciuto o è stato superato – rileva come anche nel nostro sistema la separazione fra il ruolo di parte e quello di testimone «pare in qualche misura in sofferenza»;

che, secondo il giudice a quo, emblematica sarebbe a tal proposito la vicenda del giuramento decisiorio: questo fondava la sua ratio all’interno di un ordinamento in cui erano commisti valori civili con altri etico-religiosi; venuto, tuttavia, meno, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 334 del 1996, ogni riferimento alla importanza religiosa dell’atto, risulterebbe non trascurabile la anomalia di un ordinamento che, per un verso, esclude la testimonianza delle parti, anche solo potenziali, del processo e, per altro verso, «consente ad una parte di costringere l’altra ad assumere una veste sotto molti aspetti simile a quella di testimone», con l’aggravante di non poterne contestare le dichiarazioni, decisive sull’esito del giudizio civile, anche ove queste risultassero false in sede penale;

che ancor più incongruente sarebbe divenuto il sistema, ad avviso del rimettente, a seguito dell’introduzione nel rito societario dell’«atipico giuramento suppletorio» volto ad attribuire concludenza all’atto di citazione in caso di contumacia del convenuto, senza che nel giudizio ordinario sia consentito alla parte, in mancanza di altri strumenti di prova, di sottoporre al giudice la sua versione dei fatti, «magari corroborandola con riscontri esterni»;

che, quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che essa è data dal fatto che dalla sua fondatezza dipende la ammissibilità della dedotta prova per testi;

che, riguardo alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che il divieto di testimonianza per la parte nel processo civile determina una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla posizione di chi, danneggiato da un fatto avente rilevanza penale, costituitosi parte civile nel processo penale ben può rendere testimonianza;

che il divieto sancito dall’art. 246 cod. proc. civ. è, altresì, potenzialmente lesivo del diritto di agire e difendersi in giudizio, limitando il diritto alla prova, e del principio di parità delle parti;

che, con particolare riferimento a quest’ultimo principio, il rimettente evidenzia come esso sia espresso sia dal nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione sia dallo stesso art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi, il 20 maggio 1952),  come interpretata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo;

che, a tale proposito, il rimettente rammenta come il suddetto organo giudicante, con decisione assunta il 27 ottobre 1993, ha ritenuto in contrasto con la predetta Convenzione una disposizione dell’ordinamento olandese – dal contenuto simile all’art. 246 cod. proc. civ. – in considerazione della posizione di svantaggio in cui poneva una parte rispetto all’altra;

 che il rimettente, ritenuta l’impossibilità sia della disapplicazione da parte del giudice nazionale di una norma interna in contrasto con la ricordata Convenzione, sia un’interpretazione del citato art. 246 cod. proc. civ. conforme ai principi della Convenzione, è dell’avviso che questo debba essere denunciato poiché in contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione;

che, per il rimettente, tale disposizione oltre a determinare i limiti delle competenze legislative fra Stato e Regioni, individua gli ambiti di legittimità della legislazione statale anche con riferimento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali;

che la affermata incongruenza fra l’art. 246 cod. proc. civ. e l’art. 6, comma 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, determinerebbe, pertanto, il contrasto della norma codicistica con l’art. 117, primo comma, della Costituzione;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata;

che, secondo quanto osserva preliminarmente la difesa pubblica, l’ordinanza non motiva adeguatamente la rilevanza della questione;

che, ad avviso della difesa erariale, il rimettente non avrebbe fatto buon governo della presunzione legale di cui all’art. 2054 del cod. civ., che riguarderebbe solo la imputabilità soggettiva del fatto illecito verificatosi, ma non la sussistenza del nesso di causalità fra il danno e la condotta, in ordine alla quale, vigendo gli ordinari criteri, la prova incombe sul danneggiato;

che, risultando dal contenuto dell’ordinanza di rimessione che la difesa di parte convenuta ha contestato la sussistenza dello stesso nesso eziologico fra condotta ed evento, mentre sul punto nulla ha chiesto di provare l’attore, verrebbe a cadere la premessa su cui si fonda la questione di legittimità costituzionale, cioè la lesione del diritto di difesa del convenuto;

che, infatti, di fronte alla carenza probatoria dell’attore, strumento di difesa sufficiente per il convenuto sarebbe già la mera contestazione, risultando di conseguenza allo stato non rilevanti nel giudizio sia le prove articolate dal convenuto sia i profili afferenti alla legittimità costituzionale della disciplina che ne condiziona la loro concreta ammissibilità;

che, sempre ad avviso della Avvocatura, dalla ricostruzione della fattispecie riportata nell’ordinanza di rimessione emergerebbe anche un altro profilo di inammissibilità della questione: infatti, secondo quanto riferito dal rimettente, il sinistro stradale per cui è causa si sarebbe verificato alla presenza di altre persone, sicché la circostanza che il convenuto non disponga di altri mezzi di prova, oltre a quelli esclusi dall’art. 246 cod. proc. civ., dipenderebbe solo dalla sua negligenza nel non essersi procurato le generalità di tali altri potenziali testimoni;

che, peraltro, la difesa erariale segnala che il rimettente pone su di uno stesso piano due ipotesi diverse: quella dell’incapacità a testimoniare della parte potenziale e quella della incompatibilità tra la posizione di parte e di testimone;

che, riguardo alla seconda, la questione sarebbe inammissibile, posto che la fonte dell’impedimento in questione non è rinvenibile nella disposizione censurata, ma deriva dal sistema nel quale la qualità di testimone non può sovrapporsi a quella di parte;

che, quanto alla prima, la difesa pubblica osserva che quelli del rimettente riecheggiano argomenti già svolti in passato e disattesi dalla Corte;

che, secondo l’Avvocatura, l’accoglimento della questione avrebbe delle conseguenze di sistema, in particolare con riferimento all’art. 384, secondo comma, del codice  penale, con esiti di possibile contraddittorietà, considerata la diversità degli interessi tutelati dai principi nemo testis in causa propria e nemo tenetur edere contra se;

che il confronto con la disciplina del giuramento sarebbe improduttivo di effetti, ove si consideri la radicale diversità delle due situazioni comparate;

che, riguardo alla facoltà che, nel processo penale, ha la parte civile di rendere testimonianza, la diversità degli interessi coinvolti giustifica un diverso bilanciamento rispetto a quello operato con la disposizione censurata;

che, infine, con riferimento alla violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, la difesa pubblica osserva che la giurisprudenza della Corte ha chiarito che, ove sia sollevata questione di costituzionalità di una norma nazionale per contrasto con una della CEDU, spetta alla Corte di trovare il corretto bilanciamento tra la garanzia del rispetto degli obblighi internazionali e la necessità che si eviti un vulnus alla Costituzione stessa;

che equivoco sarebbe il richiamo alla ricordata sentenza della Corte di Strasburgo, in quanto con essa non si è affermato il contrasto del principio nemo testis in causa propria con la CEDU, ma si è data applicazione, rientrando ciò nei poteri del giudice sovranazionale, ad un principio di common law non esportabile nel nostro ordinamento processuale, a pena dello scardinamento del vigente sistema delle prove.

Considerato che il Tribunale ordinario di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 246 del codice di procedura civile nella parte in cui, secondo il tenore testuale dell’ordinanza di rimessione, «non consente, neppure nel caso in cui non si disponga di alcun altro strumento di prova, di assumere come testimoni persone pur portatrici di interessi giuridicamente qualificati o addirittura già presenti nel processo come parti»;

che, ad avviso del rimettente, la norma sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione sotto un duplice profilo;

che, per un verso, essa determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina applicabile alla parte danneggiata da un fatto costituente reato che, anche se costituitasi parte civile nel relativo processo penale, ben può rendere testimonianza, e, per altro verso, essa sarebbe in sé irragionevole, come evidenziato dal fatto che l’ordinamento, il quale pur esclude la commistione fra la figura della parte e quella del teste,  consente, attraverso l’istituto del giuramento, a una parte di costringere l’altra ad assumere una veste sotto molti aspetti simile a quella del testimone;

che la norma contrasterebbe, altresì, con gli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi, il 20 maggio 1952), come interpretata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo – volti ad assicurare il diritto di difendersi provando e il principio di parità fra le parti del processo, anche con riguardo alla eguale disponibilità degli strumenti probatori, in conformità ai limiti imposti al legislatore dal rispetto della predetta Convenzione;

che le eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri sono solo in parte fondate;

che, in particolare, è infondata le eccezione di irrilevanza della questione, argomentata dalla Avvocatura sulla base: a) della asserita ininfluenza nel giudizio a quo della prova testimoniale dedotta dalla impresa assicuratrice, convenuta in detto giudizio; b) della sua conseguente inammissibilità non ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ. ma dell’art. 183, settimo comma, cod. proc. civ.; c) della irrilevanza, perciò, della prospettata questione di legittimità costituzionale del citato art. 246 cod. proc. civ. in quanto norma la cui applicazione non è necessaria ai fini del processo;

che, più nello specifico, la difesa pubblica rileva che, non risultando essere state formulate richieste istruttorie dalla parte attrice nel giudizio a quo aventi ad oggetto la sussistenza del nesso di causalità naturale fra il danno da essa lamentato e la condotta del conducente del veicolo che si assume essere investitore, la attività difensiva di parte convenuta potrebbe svolgersi attraverso la mera contestazione della sussistenza di tale nesso di causalità, senza la necessità di dedurre essa stessa prove sul punto, in quanto la presunzione di responsabilità prevista dal primo comma dell’art. 2054 del codice civile non si estenderebbe anche alla presunzione della sussistenza del nesso di causalità naturale fra condotta ed evento che, invece, andrebbe, in base alle ordinarie regole sul riparto dell’onere della prova in materia extracontrattuale, provata dal danneggiato;

che questa Corte osserva che, sul punto, non può dirsi essersi formato quel consolidato canone giurisprudenziale, nel senso descritto dalla difesa pubblica, che potrebbe far ritenere implausibile il diverso orientamento, invece fatto proprio, sia pur per implicito, dal rimettente nel ritenere rilevante la prova per testi dedotta da parte convenuta;

che, infatti, nella stessa giurisprudenza della Corte di cassazione si rinvengono pronunzie nelle quali si afferma che la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2054, secondo comma, cod. civ. si estende anche al nesso di causalità (Corte di cassazione, sentenza 7 aprile 1995, n. 4051);

che è infondata anche l’ulteriore eccezione formulata dalla difesa pubblica, volta a far affermare l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale derivando l’impossibilità per la convenuta nel giudizio a quo di provare i fatti a sé favorevoli altrimenti che con la dedotta prova testimoniale solo dalla sua negligenza nel non aver acquisito le generalità delle altre persone presenti al momento del sinistro stradale;

che tale tesi, infatti, parte dal presupposto che la parte processuale, salva la verifica della loro concreta ammissibilità, non sia libera di indicare in qualità di testi i soggetti che essa insindacabilmente reputa più idonei ai fini dell’accertamento della verità;

che l’evidente erroneità del presupposto esclude la fondatezza dell’eccezione;

che è, invece, fondata l’eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 246 cod. proc. civ. nella parte in cui il rimettente Tribunale ordinario di Napoli chiede che, attraverso la dichiarazione di incostituzionalità di detta norma, sia dato ingresso alla possibilità che svolga l’ufficio di testimone nel processo civile anche chi di detto processo sia già parte;

che, infatti, il vincolo di cui si chiede l’eliminazione non deriva dalla disposizione censurata, la quale si limita a disciplinare la incapacità a ricoprire l’ufficio in questione di quanti abbiano «nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio» e non anche di chi – sebbene contumace – già sia parte del giudizio stesso, ma, piuttosto, dallo stesso sistema in base al quale alla parte è bensì consentito di essere fonte di convinzione del giudice attraverso determinati strumenti – ad esempio l’interrogatorio libero – ma non attraverso la sua escussione come teste;

che, in particolare, la ineludibile antitesi fra la posizione del teste e quella della parte processuale emerge chiaramente ove si consideri che solo in capo al primo è previsto sia l’obbligo, sotto comminatoria della sanzione penale, di dire la verità, che quello stesso, presidiato a sua volta da sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 255 cod. proc. civ., di rendere testimonianza;

che, tuttavia, la circostanza che il rimettente estenda l’ambito della questione di costituzionalità da lui sollevata anche al caso, che peraltro ricorre nel giudizio a quo, della citazione in qualità di teste anche della parte potenziale, impone a questa Corte di esaminare il merito della questione stessa;

che, nei limiti sopra precisati, la questione è manifestamente infondata;

che questa Corte già ha avuto modo di precisare che è del tutto razionale la previsione che impedisce a chi sia portatore di un interesse che ne legittimerebbe la partecipazione al giudizio di essere teste nel medesimo, potendo questi giovarsi, in base alla disciplina sostanziale, degli effetti immediati della sentenza (sentenza n. 62 del 1995);

che tale razionalità non è messa in discussione a causa del diverso trattamento che è previsto per la testimonianza nel processo penale, ancorché resa da chi si sia costituito, ovvero avrebbe potuto costituirsi, parte civile;

che, infatti, al di là dell’obbiettiva differenza degli interessi in giuoco nei due tipi di giudizio, questa Corte ha più volte affermato che «il sistema processuale civile e quello penale sono fra loro autonomi e non sono quindi comparabili ai fini della violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione» (ordinanze n. 500 del 2002 e n. 30 del 2000);

che nessun vizio di irragionevolezza intrinseca della norma censurata può essere tratto dal fatto che l’ordinamento prevede, attraverso la figura del giuramento, sia nella forma decisoria che in quella suppletoria, la possibilità che il giudizio sia definito in funzione del contenuto di dichiarazioni processuali rese da una delle parti, trattandosi di istituti, quelli della testimonianza e del giuramento, aventi ciascuno una disciplina autonoma e conchiusa, nonché finalità ed effetti, anche di carattere sostanziale,  peculiari e fra loro non coincidenti;

che non è, pertanto, possibile dal confronto con la disciplina di uno dei due istituti dedurre argomenti per dimostrare la irragionevolezza di aspetti caratteristici dell’altro;

che, infine, con riferimento alla asserita violazione del principio della «parità delle armi» fra le parti, anche sotto il profilo della ridotta possibilità di esercitare il diritto a difendersi provando, non è dato riscontrare alcuna violazione degli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo nella parte in cui vincola il legislatore nazionale al rispetto delle norme dell’ordinamento comunitario, nel caso rappresentate dall’art. 6, primo comma, della CEDU, come interpretato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo;

che, in particolare, con riguardo alla pretesa violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione – oltre a doversi rilevare che nell’occasione richiamata dal rimettente (si tratta della sentenza 27 ottobre 1993, Serie A n. 274, Dombo Beheer BV contro Paesi Bassi) in cui la Corte EDU ha affermato il contrasto di una disposizione processuale dell’ordinamento olandese con la Convenzione, la fattispecie era riferibile ad un’ipotesi di testimonianza diretta della parte in giudizio, esulante, per come sopra dimostrato, da quella ora all’esame di questa Corte – va, altresì, precisato che la medesima Corte EDU ha chiarito che il contrasto si verifica allorché una delle due parti in causa sia posta dalla norma processuale in posizione di svantaggio nei confronti dell’altra;

che, invece, cosa che il rimettente sembra trascurare, l’art. 246 cod. proc. civ. è disposizione che si applica evidentemente a tutte le parti del giudizio, escludendo,  per ciascuna di esse e nella stessa maniera, la possibilità di indicare come testi le persone che sarebbero legittimate a partecipare al giudizio in corso;

che, pertanto, il principio di «parità delle armi» non appare affatto vulnerato dalla disposizione censurata;

che è circostanza legata alla particolarità delle singole fattispecie concrete, e pertanto non riconducibile ai vincoli dettati dall’art. 246 cod. proc. civ., l’esistenza di disposizioni di carattere sostanziale che, come nella specie, prevedendo ipotesi di presunzioni juris tantum, comportano una ripartizione ineguale dell’onere probatorio, così rendendo la posizione processuale di una delle parti più gravosa di quella dell’altra.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 246 del codice di procedura civile, nella parte in cui non consente di assumere come  testimoni persone già presenti nel processo come parti, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Napoli, con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità dell’art. 246 del codice di procedura civile, nella parte in cui non consente di assumere come testimoni persone che sarebbero legittimate a partecipare al processo, sollevata, in riferimento agli stessi parametri, dal Tribunale ordinario di Napoli con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 maggio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 maggio 2009.