Sentenza n. 372 del 2006

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SENTENZA N. 372

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                     BILE                                                              Presidente

- Giovanni Maria       FLICK                                                             Giudice

- Francesco                AMIRANTE                                                         ”

- Ugo                         DE SIERVO                                                         ”

- Romano                  VACCARELLA                                                   ”

- Paolo                       MADDALENA                                                    ”

- Alfio                       FINOCCHIARO                                                  ”

- Alfonso                   QUARANTA                                                        ”

- Franco                     GALLO                                                                 ”

- Luigi                       MAZZELLA                                                         ”

- Gaetano                  SILVESTRI                                                          ”

- Sabino                     CASSESE                                                             ”

- Maria Rita               SAULLE                                                               ”

- Giuseppe                 TESAURO                                                            ”

- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                    “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 132 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), come sostituito dall’art. 3 del decreto-legge 24 dicembre 2003, n. 354 (Disposizioni urgenti per il funzionamento dei tribunali delle acque, nonché interventi per l’amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2004, n. 45, promossi con ordinanze del 13 marzo 2004 dal Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Cuneo, del 12, del 25 e del 13 marzo 2004 dal Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Pavia, del 5 giugno 2004 dal Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Palmi e del 23 dicembre 2004 dal Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Roma, iscritte rispettivamente ai nn. 585, 746, 747, 748 e 819 del registro ordinanze 2004 e al n. 77 del registro ordinanze 2005 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26, 39 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2004 e n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2005.

            Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2006 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 12 marzo 2004 il Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Pavia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 132, comma 3, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), in riferimento agli artt. 3, 97, 111 e 112 della Costituzione, nella parte in cui dispone[va] che il pubblico ministero, per accedere a fini d’indagine a dati concernenti il traffico telefonico, debba [dovesse] ottenere, nei ventiquattro mesi successivi alle relative comunicazioni, un preventivo provvedimento giudiziale di autorizzazione o di acquisizione dei dati medesimi.

Il rimettente – nel corso di indagini preliminari per i delitti di tentata estorsione, usura ed altro – aveva ricevuto richiesta di un decreto per l’acquisizione di dati concernenti il traffico telefonico attuato mediante determinate utenze, al fine di stabilire ove si trovassero alcuni indagati in un periodo di tempo rilevante per i fatti di causa. La domanda era stata formulata dal pubblico ministero in applicazione del comma 3 dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo vigente al momento dell’ordinanza di rimessione, introdotto dall’art. 3 del decreto-legge 24 dicembre 2003, n. 354 (Disposizioni urgenti per il funzionamento dei tribunali delle acque, nonché interventi per l’amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2004, n. 45.

La questione di legittimità della norma in allora vigente è fondata sul presupposto essenziale che non fosse ragionevole l’imposizione di un vaglio giudiziale preventivo per l’accesso del pubblico ministero alle informazioni concernenti il traffico telefonico.

La norma impugnata, infatti, avrebbe configurato per il giudice un intervento inutile, non ponendo per l’acquisizione dei dati la condizione di un quadro indiziario qualificato, e non contenendo, più in generale, alcuna specificazione dei criteri per la valutazione della domanda proposta dal magistrato inquirente.

Una tale disciplina, secondo il rimettente, avrebbe pregiudicato il buon andamento dell’amministrazione della giustizia (art. 97 Cost.), specie se interpretata nel senso che al giudice spettasse non solo il compito di rilasciare l’autorizzazione, ma anche quello di provvedere alla materiale raccolta dei dati presso il gestore di telefonia, quale semplice tramite per una successiva trasmissione dei dati stessi al pubblico ministero procedente. L’ingiustificata complicazione della procedura, d’altra parte, avrebbe implicato un contrasto con il principio di obbligatorietà di esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.).

Ad evidenziare la complessiva irrazionalità della normativa – secondo il rimettente – concorreva l’omessa previsione della possibilità per il pubblico ministero di procedere all’indagine in via d’urgenza, salva la necessità della successiva convalida da parte del giudice: un procedimento previsto dalla legge per atti ben più intrusivi, come l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche, ma non, appunto, per il semplice accesso ai dati esteriori concernenti dette comunicazioni.

Ulteriori profili di illegittimità della disciplina si sarebbero connessi, infine, al diverso trattamento instaurato tra la parte pubblica e la difesa della persona sottoposta alle indagini o imputata: mentre il pubblico ministero era costretto, senza alcuna eccezione, ad ottenere un provvedimento autorizzativo od acquisitivo del giudice, il difensore era invece legittimato dalla legge (ultimo periodo del comma 3 dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003) a richiedere direttamente al gestore di telefonia i dati concernenti il traffico attuato mediante le utenze intestate al proprio assistito. In tale situazione, sarebbero stati violati «il principio di eguaglianza fra le parti» (art. 3 Cost.) e quello del «giusto processo» (art. 111 Cost.).

1.1. – Con due ordinanze di identico tenore, deliberate rispettivamente in data 13 marzo 2004 e 25 marzo 2004, il Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Pavia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 97, 111 e 112 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 132, comma 3, del d.lgs. n. 196 del 2003, nella parte in cui dispone[va] che il pubblico ministero debba [dovesse] ottenere, per l’accesso a fini di indagine a dati concernenti il traffico telefonico, un preventivo provvedimento giudiziale di autorizzazione o di acquisizione dei dati medesimi.

Nei procedimenti a quibus il rimettente aveva ricevuto richiesta – in fase di indagini preliminari per delitti di tentata estorsione – di un decreto per l’acquisizione di dati concernenti il traffico telefonico attuato mediante determinate utenze. Norma applicabile, al momento, era il comma 3 dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo introdotto dall’art. 3 del citato d.l. n. 354 del 2003, come convertito dalla legge n. 45 del 2004.

Vi è sostanziale analogia di motivazione e petitum tra le ordinanze di rimessione ed il provvedimento già adottato dallo stesso giudice in data 12 marzo 2004, del quale già sopra si è detto.

2. – Con ordinanza del 13 marzo 2004 il Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Cuneo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 232 (recte: 132) del d.lgs. n. 196 del 2003 – in riferimento agli artt. 15, secondo comma, 111, secondo comma, e 3, primo comma, Cost. – nella parte in cui prevede[va] che il giudice acquisisca [acquisisse] direttamente dati sul traffico telefonico, nei ventiquattro mesi successivi alle comunicazioni interessate, senza nel contempo specificare alcun criterio per la relativa deliberazione, e nella parte in cui delinea[va], per i casi di particolare urgenza dell’indagine, un regime «più restrittivo» di quello fissato per l’intercettazione di conversazioni telefoniche.

Il rimettente, nel corso di indagini preliminari a carico di ignoti per il delitto di rapina aggravata, aveva ricevuto richiesta di un decreto per l’acquisizione di dati concernenti il traffico telefonico attuato mediante il telefono mobile sottratto alla vittima del reato. Era applicabile, al momento, il comma 3 dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo introdotto dall’art. 3 del citato d.l. n. 354 del 2003, come convertito dalla legge n. 45 del 2004.

Il giudice a quo premette di non dubitare della compatibilità costituzionale di una disciplina che contempli un intervento autorizzativo per l’acquisizione dei cd. tabulati telefonici. Considera però lesiva del «principio generale di ragionevolezza» l’omessa previsione, per i casi di urgenza, di un procedimento per l’accesso diretto del pubblico ministero ai dati conservati dai gestori di telefonia, analogo a quello esistente per l’intercettazione delle conversazioni telefoniche, che il magistrato inquirente può disporre, sia pur con la necessità di una successiva convalida da parte del giudice, sebbene si tratti di una deroga ben più pregnante alla segretezza delle comunicazioni.

Altrettanto irragionevole sarebbe stata la scelta di assegnare al giudice il compito della materiale acquisizione delle informazioni, e non piuttosto un ruolo di mera autorizzazione, come stabilito invece per le intercettazioni e, nei casi regolati dal comma 4 dell’art. 132 del citato d.lgs. n. 196 del 2003, per lo stesso accesso ai «dati esteriori» delle comunicazioni.

A parere del rimettente, oltretutto, la discrezionalità del giudice non sarebbe stata orientata da parametri di valutazione riconoscibili. La ricorrenza di sufficienti indizi, in particolare, sarebbe stata esplicitamente richiesta solo dal comma 4 dell’art. 132, relativamente a comunicazioni di oltre ventiquattro mesi antecedenti all’indagine, non costituendo dunque condizione per l’accesso ad informazioni sul traffico telefonico più recente.

L’indeterminatezza di oggetto della valutazione giudiziale si sarebbe risolta, a parere del giudice a quo, in carenza di elementi utili per una congrua motivazione del conseguente provvedimento. Da ciò l’asserito contrasto della norma impugnata con il secondo comma dell’art. 15 Cost., che prevede un provvedimento giudiziario motivato per la limitazione della segretezza delle comunicazioni, ed anche con l’art. 111 Cost., poiché il giudice sarebbe stato chiamato non già ad un ruolo di garanzia e controllo, ma alla diretta elaborazione di scelte investigative.

2.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito con atto depositato il 27 luglio 2004, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

La legge, secondo la difesa erariale, non chiamava il giudice ad acquisire direttamente i documenti concernenti il traffico telefonico, posto che ad esso non spettavano attività di iniziativa (tanto meno a carattere esecutivo) nella gestione delle indagini. Per altro verso, l’omessa puntualizzazione esplicita dei presupposti del provvedimento non avrebbe escluso la loro esistenza (e l’eventuale loro precisazione ad opera della giurisprudenza), e certamente non avrebbe precluso la motivazione giudiziale. Arbitraria infine – sempre ad avviso della Avvocatura dello Stato – l’assimilazione operata con riguardo all’effettuazione urgente di intercettazioni telefoniche: «una cosa è l’intercettazione telefonica (che concerne un momento dinamico); altra cosa è il tabulato telefonico (che concerne un momento statico)».

3. – Con ordinanza del 5 giugno 2004 il Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Palmi ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 132, comma 3, del d.lgs. n. 196 del 2003, in riferimento agli artt. 3, 15 e 97 Cost., nella parte in cui dispone[va] che, nei ventiquattro mesi successivi alle relative comunicazioni, i dati concernenti il traffico telefonico vengano [venissero] acquisiti con decreto giudiziale motivato, su istanza del pubblico ministero, senza che al giudice sia [fosse] rimessa alcuna possibilità di vaglio effettivo della richiesta.

Il rimettente, dopo aver respinto per carenza della necessaria querela una richiesta di acquisizione di «tabulati» nell’ambito di indagini per un delitto di furto, ne aveva ricevuta un’altra pertinente al medesimo fatto, riqualificato come furto aggravato (reato procedibile d’ufficio). La norma impugnata, a suo avviso, avrebbe imposto l’accoglimento della nuova richiesta, configurando l’autorizzazione, sul piano generale, come «atto dovuto» da parte del giudice.

In queste condizioni, secondo il giudice a quo, la prescritta motivazione dell’ordinanza si sarebbe risolta nella mera descrizione della richiesta, in contrasto con il principio di ragionevolezza (che imporrebbe, per gli atti che incidono sulla sfera giuridica dei cittadini, un «libero vaglio critico» della relativa istanza), ed in contrasto con l’art. 15 Cost., che impone un provvedimento motivato per la limitazione del diritto alla segretezza delle comunicazioni. L’eventualità del compimento di attività processuali onerose in assenza di effettive necessità d’indagine, inoltre, avrebbe implicato un contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

Secondo il rimettente, la questione proposta sarebbe stata rilevante in quanto, nella specie, il pubblico ministero avrebbe agito in assenza di una condizione di procedibilità, essendo insussistente l’aggravante ipotizzata e difettando la querela per il reato non circostanziato.

3.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito con atto depositato il 23 novembre 2004, chiedendo che la questione sia dichiarata non rilevante e, comunque, manifestamente infondata.

Lo stesso rimettente, in effetti, avrebbe escluso la sussistenza di un reato procedibile, circostanza che gli avrebbe consentito di valutare negativamente la richiesta e di respingerla con un provvedimento motivato. Sarebbero comunque infondate, nel merito, le prospettate ragioni di incostituzionalità.

4. – Con ordinanza del 23 dicembre 2004 il Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Roma ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 32, 42, 101, 104, 111 e 112 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003 nella parte in cui esclude, decorso il termine di ventiquattro mesi, l’acquisibilità e l’utilizzabilità dei dati di traffico telefonico per finalità di repressione di reati diversi da quelli di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.

La questione è stata posta nell’ambito di un procedimento contro ignoti, relativo ad un fatto di omicidio colposo connesso alla circolazione stradale, ove si è manifestata l’esigenza di ricostruire le comunicazioni attuate mediante una determinata utenza mobile, in una data successiva di oltre ventiquattro mesi (ma non di oltre quarantotto) alle comunicazioni medesime. Secondo la normativa già vigente al momento dell’ordinanza di rimessione – cioè l’art. 132, comma 4, del d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 354 del 2003, come convertito dalla legge n. 45 del 2004 – i dati rilevanti per l’indagine sarebbero stati acquisibili solo se si fosse proceduto per uno dei gravi reati elencati alla lettera a) del comma 2 dell’art. 407 cod. proc. pen., tra i quali non è compreso l’omicidio colposo. Dunque l’istanza di acquisizione formulata dal pubblico ministero avrebbe dovuto essere respinta, pur essendo le informazioni necessarie per l’accertamento dei fatti ancora disponibili, in quanto conservate proprio in applicazione del comma 4 del citato art. 132.

Il giudice a quo dubita che la norma impugnata assicuri un ragionevole contemperamento tra opposte esigenze di tutela. Se da un lato è sostenibile (per quanto, a parere del giudice rimettente, opinabile) che tra i diritti inviolabili della persona sia compreso quello alla protezione dei dati personali, sull’opposto versante si trovano posizioni ed interessi certamente assistiti dalla medesima garanzia costituzionale, e specificamente sottoposti a tutela: dal diritto alla libertà personale (art. 13 Cost.) a quello all’integrità fisica e alla salute (art. 32 Cost.), dal diritto all’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.) a quello di proprietà (art. 42 Cost.), fino alla più generale aspettativa che lo Stato preservi, attraverso il perseguimento in sede giurisdizionale dei comportamenti criminosi, le condizioni essenziali della convivenza civile (artt. 101, 104 e 112 Cost.).

I rilevanti limiti fissati per l’accesso ai «tabulati» comporterebbero, d’altra parte, una forte compressione del diritto di difesa del cittadino accusato di un reato e della persona offesa dal reato medesimo, precludendo la possibilità di ottenere informazioni utili e, dunque, l’acquisizione di mezzi di prova da spendere a sostegno della rispettiva posizione processuale (artt. 24 e 111, terzo comma, Cost.).

Secondo il rimettente, quale che sia la tutela costituzionalmente imposta per la riservatezza dei dati personali, il sacrificio determinatosi per i diritti appena elencati sarebbe irrazionale ed eccessivo. I limiti posti alla conservazione dei dati si giustificano per il rischio, progressivamente più elevato e meno giustificato, che degli stessi dati venga fatta un’illecita utilizzazione, da parte del gestore o di terze persone. Non sarebbe dunque in discussione la legittimità della scelta legislativa di imporre, entro un lasso di tempo determinato, la cancellazione delle informazioni sul traffico telefonico. Sarebbe irrazionale, piuttosto, il sacrificio dei diritti «contrapposti» per tutta la fase in cui dette informazioni vengono conservate ad altri fini, restando dunque esposte al rischio della illecita diffusione. Nel periodo compreso tra i ventiquattro ed i quarantotto mesi, in particolare, il potenziale pregiudizio per la riservatezza resterebbe inalterato, ed anzi si aggraverebbe progressivamente, senza che ciò sia compensato dalla disponibilità di eventuali prove della commissione di delitti anche molto gravi, per quanto non compresi nell’elenco fissato alla lettera a) del comma 1 dell’art. 407 cod. proc. pen.. La stessa discriminazione tra i reati suscettibili di indagine e quelli esclusi, in un tale contesto, resterebbe priva di fondamento oggettivo e comunque di ragionevolezza.

L’irrazionalità del sistema sarebbe ancor più evidente, secondo il giudice a quo, considerando che la legge impone la conservazione dei dati di traffico telefonico anche oltre la soglia dei quattro anni e, dunque, per un periodo durante il quale la loro acquisizione a fini di indagine penale è preclusa in assoluto. Il rimettente si riferisce, in particolare, al comma 6-bis dell’art. 181 del d.lgs. n. 196 del 2003, introdotto dall’art. 4 del d.l. n. 354 del 2003 (come convertito dalla legge n. 45 del 2004), che, sia pure in via transitoria, avrebbe fissato per la conservazione dei dati il termine di cinque anni (mediante rinvio alla previsione dell’art. 4, comma 2, del decreto legislativo 13 maggio 1998, n. 171, la quale disciplina il trattamento finalizzato alla composizione dei rapporti contrattuali tra utenti e gestori dei servizi di telefonia).

Il giudice a quo osserva da ultimo che – se si giungesse ad escludere che la riservatezza dei dati personali costituisca oggetto di un diritto inviolabile della persona, come tale dotato di rango pari a quello dei diritti ad esso «contrapposti» – resterebbe delegittimata in radice la scelta legislativa di vietare all’autorità giudiziaria, «fin tanto che in natura (e cioè presso il fornitore) esista il bene “dato personale”», di accedere alle relative informazioni per fini di accertamento della verità e di tutela dei diritti inviolabili offesi da comportamenti criminosi.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Pavia, con tre distinte ordinanze deliberate in altrettanti procedimenti, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 132, comma 3, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), in riferimento agli artt. 3, 97, 111 e 112 della Costituzione, nella parte in cui disponeva che il pubblico ministero, per accedere a fini d’indagine a dati concernenti il traffico telefonico, dovesse ottenere, nei ventiquattro mesi successivi alle relative comunicazioni, un preventivo provvedimento giudiziale di autorizzazione o di acquisizione dei dati medesimi.

Anche la questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Cuneo – in riferimento agli artt. 15, secondo comma, 111, secondo comma, e 3, primo comma, Cost. – concerne il disposto in allora vigente del comma 3 dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003, nella parte in cui prevedeva che il giudice acquisisse direttamente dati sul traffico telefonico, nei ventiquattro mesi successivi alle comunicazioni interessate, senza nel contempo specificare alcun criterio per la relativa deliberazione, e nella parte in cui delineava, per i casi di particolare urgenza dell’indagine, un regime «più restrittivo» di quello fissato per l’intercettazione di conversazioni telefoniche, non contemplando la possibilità per il pubblico ministero di adottare un proprio provvedimento acquisitivo, suscettibile di successiva convalida da parte del giudice.

Il Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Palmi, dal canto proprio, dubita della legittimità costituzionale della norma citata, in riferimento agli artt. 3, 15 e 97 Cost., poiché la norma stessa – pur disponendo che, nei ventiquattro mesi successivi alle relative comunicazioni, i dati concernenti il traffico telefonico venissero acquisiti, su istanza del pubblico ministero, con decreto giudiziale motivato – non avrebbe rimesso al giudice alcuna possibilità di vaglio effettivo e «critico» della richiesta.

Anche il Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Roma, infine, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 32, 42, 101, 104, 111 e 112 della Costituzione. La questione concerne, in questo caso, la disciplina dell’accesso ai dati di traffico telefonico ad oltre ventiquattro mesi dall’effettuazione delle relative comunicazioni, nella parte in cui preclude l’acquisizione dei dati stessi per finalità di repressione di reati non compresi nella previsione di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.

2. – Tutte le questioni indicate riguardano il disposto dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 354 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 45 del 2004. Può essere quindi disposta la riunione dei relativi giudizi.

3. – Le ordinanze dei Giudici per le indagini preliminari nei Tribunali di Pavia, Cuneo e Palmi, hanno ad oggetto la disciplina dell’accesso ai dati di traffico telefonico nei ventiquattro mesi successivi alle relative comunicazioni, ed attengono in vario modo alla necessità di un intervento del giudice, a carattere autorizzatorio se non addirittura materialmente acquisitivo, affinché il pubblico ministero potesse ottenere – secondo la normativa vigente alle date dei rispettivi atti introduttivi – le informazioni richieste presso i gestori del servizio di telefonia.

La materia è stata profondamente innovata, dopo le ordinanze di rimessione, dall’art. 6 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), come convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155.

Nel testo attualmente in vigore, il comma 3 dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003 dispone che, nel termine di ventiquattro mesi dall’effettuazione delle comunicazioni relative, i dati di traffico telefonico sono acquisiti direttamente dal pubblico ministero, con un proprio decreto motivato.

Una tale disciplina incide, all’evidenza, su tutti gli aspetti delle questioni sollevate, elidendo i problemi connessi ai presupposti ed alla motivazione del provvedimento giudiziale, rimettendo al pubblico ministero il controllo sui tempi dell’indagine ed assegnandogli, infine, un potere di iniziativa diretta analogo a quello già previsto per il difensore della persona sottoposta alle indagini o imputata.

Con riguardo poi alle investigazioni successive di oltre ventiquattro mesi alla raccolta dei dati di traffico, per le quali ancor oggi è necessario che il giudice – ove ritenga la sussistenza di sufficienti indizi dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. – rilasci un’autorizzazione con proprio decreto motivato, è prevista la possibilità di un provvedimento urgente del pubblico ministero, secondo la procedura descritta al comma 4-bis del nuovo testo dell’art. 132 sopra citato.

Gli atti vanno quindi restituiti ai giudici a quibus per un nuovo esame della rilevanza delle questioni proposte alla luce dello ius superveniens.

4. – La questione posta dal Giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Roma – il quale dubita della legittimità costituzionale dell’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003, nella parte in cui esclude, decorso il termine di ventiquattro mesi, che possano essere acquisiti e utilizzati dati di traffico telefonico per finalità di repressione di reati diversi da quelli di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. – è inammissibile con riferimento ai parametri di cui agli artt. 2, 13, 14, 32, 42, 101, 104 e 112 della Costituzione, data l’assenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza.

5. – Con riferimento all’art. 3, in connessione con gli artt. 24 e 111 Cost., la questione non è fondata.

5.1. – Il legislatore ha operato un bilanciamento tra il principio costituzionale della tutela della riservatezza dei dati relativi alle comunicazioni telefoniche, riconducibile all’art. 15 Cost. (sentenza n. 81 del 1993), e l’interesse della collettività, anch’esso costituzionalmente protetto, alla repressione degli illeciti penali. Il sindacato di legittimità di questa Corte deve limitarsi alla verifica che la norma impugnata non abbia imposto limitazioni manifestamente irragionevoli dell’uno o dell’altro.

5.2. – Lo scrutinio di costituzionalità non deve essere effettuato in astratto, tra i valori in sé e per sé considerati, ma in concreto, valutando l’interazione reciproca tra l’accrescimento di tutela dell’uno e la corrispondente diminuzione di garanzia dell’altro, come disposti dal legislatore in vista della composizione del potenziale contrasto.

Con riferimento al caso de quo, non è condivisibile l’argomentazione del giudice rimettente, tesa a dimostrare la presunta irragionevolezza della norma che dispone l’accessibilità dei dati, da parte dell’autorità giudiziaria, per ventiquattro mesi ai fini dell’accertamento e della repressione dei reati in generale, e per ulteriori ventiquattro mesi quando si tratti dei reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. Tale argomentazione si basa sul rilievo che vi sarebbe un sacrificio maggiore dell’interesse alla repressione della generalità dei reati rispetto a quello riguardante i delitti elencati nella suddetta norma del codice di rito penale, senza che da tale differenziazione derivi una maggiore tutela per il diritto alla riservatezza. In altre parole, secondo il giudice rimettente, l’esistenza fisica dei dati, non ancora distrutti, comporterebbe un tasso di pericolosità, derivante dalla possibile illecita diffusione degli stessi, destinato a rimanere costante per tutto il tempo anteriore la loro distruzione, senza subire variazioni in rapporto alla gravità dei reati. Da ciò discenderebbe l’irragionevolezza della bipartizione – contenuta nella norma censurata – dei termini di accessibilità dei dati da parte dell’autorità giudiziaria.

L’infondatezza del ragionamento si coglie se si pensa all’influenza reciproca tra le due tutele, che si mantengono in equilibrio – secondo la valutazione del legislatore – sin quando sono messe a confronto entità di peso ritenuto equivalente (ventiquattro mesi a fronte della generalità dei reati, esclusi quelli di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.). Lo stesso legislatore ha ritenuto che, per mantenere l’equilibrio, all’aumento del peso di una delle due entità debba corrispondere un proporzionale aumento dell’altra, con la conseguenza che, in corrispondenza di reati di particolare gravità, la limitazione, in termini relativi, della tutela della riservatezza è stata aumentata in ragione del maggior disvalore sociale sotteso ai reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.

Questa Corte ha già espresso l’orientamento di metodo sopra illustrato, con riferimento a materia analoga a quella in cui si inserisce la questione oggetto del presente giudizio: «l’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi, limitatamente all’accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale, costituisce indubbiamente un non irragionevole bilanciamento operato discrezionalmente dal legislatore fra il valore costituzionale rappresentato dal diritto inviolabile dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e quello rappresentato dall’interesse pubblico primario alla repressione dei reati e al perseguimento in giudizio di coloro che delinquono» (sentenza n. 63 del 1994).

5.3. – In definitiva, la tutela del diritto alla riservatezza può subire variazioni in rapporto all’esigenza concreta – purché costituzionalmente protetta – posta a raffronto. Affinché la norma sfugga alla censura di illegittimità costituzionale non è necessario, come ritiene il giudice a quo, che dalla differente disciplina del tempo di accessibilità dei dati, a seconda della gravità dei reati da perseguire, derivi una maggiore o minore tutela del diritto alla riservatezza; è sufficiente che la maggiore o minore limitazione sia posta in rapporto con la maggiore o minore gravità attribuita dal legislatore a reati diversi, individuati secondo scelte di politica criminale non censurabili in questa sede. Fermo restando il criterio generale di bilanciamento in astratto, spetta al legislatore individuare specifici equilibri non manifestamente irragionevoli, come avviene nel caso oggetto del presente giudizio.

6. – La non manifesta irragionevolezza della differenza di disciplina disposta dalla norma impugnata conduce all’ulteriore, logica conclusione che non esiste una ingiustificata disparità delle tutele offerte alle parti nel processo penale dagli artt. 24 e 111 Cost., così come prospettata nell’ordinanza di rimessione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 132 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), sollevata dal Giudice delle indagini preliminari nel Tribunale di Roma in riferimento agli artt. 2, 13, 14, 32, 42, 101, 104 e 112 della Costituzione;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dallo stesso Giudice, in relazione alla medesima norma, con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione;

ordina la restituzione degli atti ai Giudici per le indagini preliminari nei Tribunali di Pavia, Cuneo e Palmi.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2006.

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2006.