Sentenza n. 76 del 2004

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SENTENZA N.76

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Gustavo         ZAGREBELSKY                                          Presidente

- Valerio           ONIDA                                                            Giudice

- Carlo              MEZZANOTTE                                                    ”

- Fernanda       CONTRI                                                                ”

- Guido            NEPPI MODONA                                                ”

- Piero Alberto CAPOTOSTI                                                         ”

- Annibale        MARINI                                                                ”

- Franco           BILE                                                                      ”

- Giovanni Maria FLICK                                                               ”

- Ugo               DE SIERVO                                                         ”

- Romano         VACCARELLA                                                   ”

- Paolo             MADDALENA                                                    ”

- Alfio              FINOCCHIARO                                                  ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 24 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (Istituzione del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 4 ottobre 1986, n. 657) e dell’art. 18 della legge della Regione Siciliana 5 settembre 1990, n. 35 (Istituzione e disciplina del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate), promosso con ordinanza del 5 marzo 2002 dal Tribunale di Palermo, iscritta al n. 563 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di costituzione di Emilio Giannelli, Alberto Ranucci, Vittorio Mazzoni della Stella, Giovanni Grottanelli de’ Santi, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Regione Siciliana;

udito nell’udienza pubblica del 20 gennaio 2004 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi l’avvocato Gilberto Lozzi per Vittorio Mazzoni della Stella e l’avvocato dello Stato Giancarlo Mandò per il Presidente del Consiglio dei ministri e per la Regione Siciliana.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza pronunciata il 5 marzo del 2002 e pervenuta a questa Corte il 9 dicembre 2002 (reg. ord. n. 563 del 2002) il Tribunale di Palermo in composizione monocratica, “facendo propria l’ordinanza già emessa dal Pretore di Palermo in data 14 luglio 1999” (il cui testo viene allegato all’atto di rinvio), ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 24 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (Istituzione del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 4 ottobre 1986, n. 657), e dell’art. 10 (recte: 18) della legge della Regione Siciliana 5 settembre 1990, n. 74 (recte: n. 35), recante “Istituzione e disciplina del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate”, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione.

Tali disposizioni, nel medesimo processo penale a quo, erano state infatti già rese oggetto di impugnativa, con ordinanza mai ritualmente pervenuta a questa Corte, a causa di un disguido postale.

Espone il giudice remittente che gli imputati, nella qualità di membri del consiglio di amministrazione della società Monte dei Paschi Banca s.p.a. ovvero della società MontePaschi Serit s.p.a., erano stati tratti a giudizio per rispondere del reato di concorso in interruzione aggravata di un servizio pubblico o di pubblica utilità, previsto e punito dagli articoli 110, 112, numero 1, e 331, primo comma, del codice penale.

In particolare, premette il remittente che la società MontePaschi Serit s.p.a. (di cui la società Monte dei Paschi Banca s.p.a. è unica azionista) è stata nominata, con decreto assessoriale n. 1 del 9 gennaio 1991, commissario governativo delegato provvisoriamente alla riscossione dei tributi nella Regione Sicilia.

Con atto del 18 giugno 1996 (recte: 24 giugno 1996) la MontePaschi Serit s.p.a., a seguito di conforme delibera della Monte dei Paschi Banca s.p.a., ha comunicato alla Regione Siciliana il proprio recesso unilaterale dal rapporto così costituito; successivamente la MontePaschi Serit ha chiuso al pubblico gli stabilimenti e gli sportelli della società: in tale fattispecie il pubblico ministero ha appunto ravvisato gli estremi del reato di interruzione di pubblico servizio.

Nel giudizio penale a quo alcuni imputati hanno tuttavia eccepito l’illegittimità costituzionale delle norme oggetto dell’odierna questione.

Il giudice remittente ritiene che le disposizioni impugnate si pongano in contrasto con gli articoli 3 e 41 della Costituzione.

Il commissario governativo delegato provvisoriamente alla riscossione, infatti, investito di obblighi “in relazione ai quali il (n.d.r.: di lui) concorso di volontà negoziale (…) è del tutto inesistente e irrilevante”, si troverebbe a “gestire il servizio non solo secondo le regole del concessionario, vale a dire con l’alea imprenditoriale, ma contestualmente con l’obbligo contributivo ‘del non riscosso come riscosso’” (art. 26 del d.P.R. n. 43 del 1988), per un periodo di tempo indeterminato (nel caso di specie, protrattosi per “oltre cinque anni”).

Il combinato disposto delle norme richiamate rischierebbe di generare, “sotto il profilo della libertà economica e dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, scompensi di natura economico-finanziaria”, in danno non solo dell’impresa delegata provvisoriamente alla riscossione (i cui amministratori sono soggetti, aggiunge il giudice a quo, alla previsione dell’art. 2621 del codice civile in materia di false comunicazioni sociali), ma degli stessi “cittadini che abbiano investito i loro risparmi” presso tale istituto di credito.

Pertanto, il remittente dubita della legittimità costituzionale delle dette disposizioni, “laddove impongono al commissario governativo delegato provvisoriamente alla esazione dei tributi gli obblighi, ma non i diritti del concessionario privato, alla cui disciplina normativa viene operato testuale rinvio, con ciò comportando il determinarsi di una situazione obbligatoria svincolata dalle esigenze di economicità della gestione aziendale e potenzialmente in antitesi ad essa, senza che nelle norme censurate venga in alcun modo determinato, facendo ricorso a criteri cronologici o di altra natura legale, un limite ragionevole all’esercizio di tale potere, da parte dell’ente pubblico”.

2. – Sono intervenuti in giudizio con un unico atto il Presidente del Consiglio dei ministri e il Presidente della Regione Siciliana, entrambi rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

In via preliminare, gli intervenienti eccepiscono l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza della stessa, posto che il giudice a quo, sul punto, si è limitato ad asserire che “la prospettata situazione di incostituzionalità appare rilevante per la decisione del presente processo attenendo alla ricorrenza degli elementi integrativi della fattispecie criminosa in contestazione”.

Osserva l’Avvocatura che il remittente non dubita della legittimità costituzionale delle norme oggetto “per quanto esse prevedono (…) il potere dell’Amministrazione di nominare temporaneamente (…) un commissario governativo”, sicchè la questione potrebbe essere rilevante solo in altra sede, in cui il commissario abbia ad accampare diritti o a contestare la legittimità di atti “con i quali l’Amministrazione comunque non «acconsenta» al «recesso» dal rapporto, manifestato (…) dal commissario governativo”.

In via subordinata, gli intervenienti ritengono che la questione non sia fondata.

Premesso che l’art. 24 del d.P.R. n. 43 del 1988 è stato abrogato dall’articolo 68 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112 (Riordino del servizio nazionale della riscossione, in attuazione della delega prevista dalla legge 28 settembre 1998, n. 337), e che l’art. 12 di tale ultimo decreto ha posto il limite temporale di un anno, prorogabile per un altro anno, alla durata dell’incarico del commissario governativo, l’Avvocatura osserva che, in forza dell’art. 26, comma 1, del d.P.R. n. 43 del 1988, era in facoltà dell’Amministrazione disporre l’esonero del commissario dall’obbligo del non riscosso come riscosso (obbligo ora abrogato dall’art. 2 del d.lgs. 22 febbraio 1999, n. 37, recante “Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’art. 1, comma 1, lettere a e c, della legge 28 settembre 1998, n. 337”).

Inoltre, prosegue l’Avvocatura, l’art. 25 del d.P.R. n. 43 del 1988 prevede che al commissario spettino il rimborso delle spese e le commissioni e i compensi “di norma entro i limiti determinati per il precedente concessionario”, ciò che porterebbe ad escludere che il primo sia privo, come invece argomentato dal giudice a quo, dei diritti spettanti al secondo.

Infine, concludono gli intervenienti, sarebbe erroneo ritenere che il potere di nomina del commissario sia carente di limiti temporali, poiché dall’art. 24, comma 1, e dall’art. 26 del d.P.R. n. 43 del 1988 si evincerebbe il carattere “temporaneo” dell’incarico: mentre non sarebbero rilevanti ipotetici profili attinenti alla legittimità del provvedimento di nomina, che in concreto non fossero coerenti con la “coessenziale temporaneità postulata dalla norma”.

3. – Si sono costituiti in giudizio i signori Emilio Giannelli e Alberto Ranucci, imputati nel processo a quo, con distinte, identiche memorie, concludendo per l’accoglimento della questione.

Osservano le parti private che l’incarico conferito alla MontePaschi Serit s.p.a. si è protratto per oltre cinque anni, ingenerando pesanti perdite a carico della banca per la “mancata e reiterata corresponsione di compensi e rimborsi”.

A fronte di ciò, il commissario, anche allo scopo di osservare le regole di “sana e prudente gestione” cui è tenuto ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), ha inviato “atto formale di preavviso di sei mesi della sospensione del servizio per inadempimento dell’ente regionale”, ponendo nel contempo a disposizione dell’ente pubblico “il personale e le strutture aziendali così da scongiurare l’interruzione del servizio”, e da permetterne la prosecuzione. Difatti, proseguono le parti private, le disposizioni normative concernenti il commissario governativo delegato provvisoriamente alla riscossione danno luogo ad un “sistema normativo di natura eccezionale” che, comportando una “deroga al principio della libera iniziativa economica”, non può tollerarsi se non entro rigidi limiti cronologici, imposti dal principio di ragionevolezza.

Nel caso di specie, al contrario, “la discriminazione introdotta si (sarebbe) perpetuata troppo a lungo e (avrebbe) sconfinato oltre il ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa”, finendo per imporre ad un soggetto che agisce in forma di impresa “di svolgere potenzialmente all’infinito un’attività di natura e di contenuto economico in forma antieconomica”.

Ciò avrebbe determinato un vizio di “eccesso di potere legislativo”, desumibile dalle “figure sintomatiche della contraddittorietà, della illogicità del provvedimento e della ingiustizia manifesta”, cui la giurisprudenza costituzionale si sarebbe spesso richiamata.

Il legislatore avrebbe così dato luogo “al paradosso di una provvisorietà non provvisoria, potenzialmente sine die ed a totale arbitrio della Pubblica Autorità”, tanto più grave, in quanto il commissario governativo provvisoriamente delegato alla riscossione “è tenuto ad esercitare la delega in forma di impresa”, ma nello stesso tempo sarebbe “sottoposto alla vessazione e costrizione di una gestione aziendale svincolata dalle esigenze di economicità dell’attività imprenditoriale, e, anzi, in antitesi ad esse”.

Inoltre, questa Corte avrebbe altresì censurato, secondo una linea di ragionamento che le parti private ritengono estensibile al caso di specie, situazioni normative perpetuatesi oltre ogni ragionevole limite: assumerebbero rilievo, in tal senso, le sentenze n. 826 del 1988 e n. 438 del 1990 in tema di emittenza radio televisiva e la sentenza n. 360 del 1996 in tema di decretazione d’urgenza, nonchè il principio, “costantemente ribadito” in materia di limitazioni alla libertà e all’eguaglianza imposte ai soggetti economici privati, “in virtù del quale il legislatore, quando consenta l’acquisizione di posizioni di supremazia nel campo, deve prevedere nel contempo strumenti atti ad evitare comportamenti arbitrari”.

In subordine, le parti private invocano “una sentenza interpretativa ovvero, in via alternativa, additiva”, per effetto della quale risulti consentito al commissario, in caso di diseconomicità del servizio, protratta nel tempo a causa delle inadempienze dell’Amministrazione nel corrispondere i rimborsi e i compensi dovuti, e della mancata revoca della delega data a titolo provvisorio, di recedere, ovvero di sollevare eccezione di inadempimento, sospendendo la prestazione ai sensi dell’art. 1460 del codice civile.

4. – Si è costituito in giudizio un terzo imputato nel processo a quo, il signor Vittorio Mazzoni della Stella, concludendo per l’accoglimento della questione.

La parte privata fa proprie e ribadisce le considerazioni svolte dal giudice a quo nell’ordinanza di remissione.

Le norme impugnate, in particolare, in violazione degli articoli 3, 41 e 47, primo e secondo comma, della Costituzione, frustrerebbero le esigenze di rilievo costituzionale attinenti al funzionamento delle società e alla conservazione del capitale sociale, nonché alla tutela del risparmio e dell’accesso del risparmio popolare all’investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

5. – Si è costituito in giudizio il prof. Giovanni Grottanelli de’ Santi, anch’egli imputato nel processo a quo, chiedendo l’accoglimento della questione.

In punto di rilevanza, osserva la parte privata che il reato contestato agli imputati nel processo principale richiede che l’agente rivesta la qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio.

Le norme censurate determinerebbero l’assunzione di siffatta qualifica da parte degli imputati, rendendosi perciò applicabili nel giudizio a quo, ed in definitiva rilevanti, secondo i criteri enunciati da questa Corte.

Nel merito, la parte privata sottolinea che, alla luce dell’articolo 41 della Costituzione, “mentre sono concepibili disposizioni provvisorie particolari, che abbiano lo scopo di risolvere situazioni di urgenza o di emergenza (…), non possono ammettersi comandi giuridici che impongano iussu principis e senza predeterminazione di scadenza l’obbligo di gestioni” economicamente dannose per l’impresa che ne è gravata.

Le disposizioni impugnate contrasterebbero, perciò, con gli articoli 3, 41 e 47 della Costituzione.

6. – In prossimità dell’udienza pubblica hanno depositato un’unica memoria il Presidente del Consiglio dei ministri e la Regione Siciliana, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

In particolare, si eccepisce un nuovo profilo di inammissibilità della questione.

Con la legge 10 novembre 1997, n. 42 (Interventi finanziari straordinari per la riscossione dei tributi in Sicilia), infatti, la Regione determinò in via eccezionale le somme dovute al commissario provvisoriamente delegato alla riscossione in Sicilia per gli anni dal 1991 al 1996, in aggiunta a quelle previste dall’art.61, comma 3, lettere a e b, del d.P.R. n. 43 del 1988, e un’ulteriore erogazione per l’anno 1997, subordinando l’intera erogazione (art. 1, comma 5) alla rinuncia – poi intervenuta, con conseguente pagamento delle somme – ad ogni azione o pretesa della società MontePaschi Serit nascente dalla gestione del servizio in regime commissariale. Il rapporto commissariale, osservano gli intervenuti, avrebbe quindi trovato legislativamente una propria complessiva e singolare regolamentazione, cui non sarebbe stata certamente estranea “una prevista base volontaristica da parte della stessa società”, alla quale sarebbe stata riconosciuta un’adeguata ed eccezionale (in quanto derogatoria rispetto a quella generalmente spettante al commissario delegato) remunerazione per il servizio svolto per tutto il periodo entro il quale si collocano i fatti oggetto della contestazione formulata nei confronti degli imputati nel giudizio a quo. Tale normativa, indubbiamente speciale e di contenuto eccezionale, non sarebbe stata invece considerata dall’autorità remittente, che avrebbe quindi omesso di verificarne l’incidenza in relazione alla disposizione generale dell’art. 18 della legge regionale impugnata, e in definitiva di motivare sulla rilevanza della questione.

Quanto al merito, si contesta in particolare l’assunto secondo cui al commissario governativo delegato sarebbero imposti “gli obblighi ma non i diritti del concessionario privato”, in quanto al primo si applica (art. 18, comma 3, della legge regionale impugnata) la normativa concernente il secondo, e in particolare ad esso compete il diritto al rimborso delle spese e ai compensi a remunerazione del servizio; solo per il commissario delegato, poi, era prevista (dall’art. 26 del d.P.R. citato) la possibilità, in situazioni particolari, di esonero dall’obbligo del ”non riscosso come riscosso”, sempre incombente, invece, sul concessionario.

In ordine, infine, alla asserita mancata previsione di un termine all’attività coattivamente svolta dal commissario delegato, l’Avvocatura osserva che occorre distinguere fra la previsione della norma impugnata, che si esprime in termini di provvisorietà e di temporaneità, e la sua concreta applicazione nel caso di specie.

7. – All’udienza del 20 gennaio 2004 le parti hanno discusso la questione, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate in atti.

Considerato in diritto

1. – Il giudizio a quo è un processo penale per interruzione di pubblico servizio a carico di amministratori di due istituti bancari, l’uno già investito della funzione di commissario governativo delegato provvisoriamente alla riscossione dei tributi negli ambiti della Regione siciliana, l’altro unico azionista del primo.

Il Tribunale di Palermo, facendo propria una questione in precedenza sollevata, nello stesso giudizio, dal Pretore di Palermo con ordinanza del 14 luglio 1999, mai regolarmente pervenuta a questa Corte a causa di un disguido postale, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 24 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (Istituzione del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 4 ottobre 1986, n. 657), e, “conseguentemente”, dell’art. 10 (recte: 18) della legge della Regione Siciliana 5 settembre 1990, n. 35 (indicata con il n. 74 per un errore materiale, come si rileva dalla esatta indicazione contenuta nella motivazione), recante “Istituzione e disciplina del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate”, “laddove impongono al commissario governativo delegato provvisoriamente alla esazione dei tributi gli obblighi ma non i diritti del concessionario privato, alla cui disciplina normativa viene operato testuale rinvio, con ciò comportando il determinarsi di una situazione obbligatoria svincolata dalle esigenze di economicità della gestione aziendale e potenzialmente in antitesi ad essa, senza che nelle norme censurate venga in alcun modo determinato, facendo ricorso a criteri cronologici o di altra natura legale, un limite ragionevole all’esercizio di tale potere da parte dell’ente pubblico”.

Secondo il remittente, le norme in questione – conferendo all’autorità (il Ministro delle finanze secondo la legge statale, l’Assessore regionale per il bilancio e le finanze, secondo la legge regionale) il potere di imporre al privato, senza limiti di tempo o “funzionali”, e senza consentire il recesso unilaterale, l’obbligo di gestire, in qualità di commissario governativo, il servizio di riscossione in forma di impresa, con tutti gli oneri e i rischi relativi, e con l’obbligo del “non riscosso per riscosso” – esporrebbero il soggetto investito della funzione di commissario al rischio di scompensi di natura economico-finanziaria, con lesione della libertà economica e dei principi di eguaglianza e ragionevolezza: onde sarebbero violati gli articoli 3 e 41 della Costituzione.

2. – Non possono essere accolte le eccezioni di inammissibilità della questione sollevate dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri e della Regione Siciliana.

Le parti private che hanno sollevato la questione, giudicata dal remittente non manifestamente infondata, lamentano, fra l’altro, che non venga loro riconosciuto, in forza delle norme impugnate, un diritto di recesso, con incidenza, in ipotesi, sulla qualità di incaricato di pubblico servizio dell’istituto bancario i cui amministratori sono imputati. A ciò si riferisce la pur succinta motivazione della rilevanza della questione offerta dal remittente, là dove allude alla potenziale incidenza che la decisione della stessa potrebbe avere sulla ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa per cui si procede.

Né l’omessa considerazione, da parte del giudice a quo, dell’entrata in vigore e dell’applicazione della legge regionale 10 novembre 1997, n. 42, successiva rispetto ai fatti per i quali si procede penalmente, è idonea ad inficiare la sufficienza di tale motivazione.

3. – Nel merito, la questione non è fondata.

La normativa statale che viene in considerazione, per ragioni di rilevanza, è quella contenuta nel d.P.R. n. 43 del 1988, successivamente abrogata e sostituita dal d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112.

L’art. 24 del d.P.R. n. 43 del 1988 (cui corrisponde l’art. 18 della legge regionale siciliana n. 35 del 1990, che, per quanto qui interessa, rinvia ad esso o lo ricalca interamente) prevedeva che in caso di vacanza della concessione del servizio di riscossione dei tributi, che si espleta in regime di concessione amministrativa (articoli 2 e 7 del d.P.R. n. 43 del 1988) nei singoli ambiti territoriali, “in attesa del nuovo conferimento della gestione del servizio” fosse nominato un “commissario governativo delegato provvisoriamente alla riscossione”, scelto fra i soggetti abilitati che ne avessero fatto richiesta (comma 1), o, in mancanza, in persona del concessionario di un ambito territoriale contiguo “che abbia l’organizzazione più idonea a garantire temporaneamente lo svolgimento del servizio di riscossione” (comma 2). Al commissario “si applicano le norme stabilite per il concessionario, salvo quanto disposto” nei successivi articoli (comma 3).

In particolare, per quanto riguarda gli obblighi del commissario, l’art. 26 (cui rinvia l’art. 18, comma 3, della legge regionale) stabiliva che esso risponde (salvo esonero stabilito “in situazioni particolari” dall’autorità amministrativa) del non riscosso come riscosso, ed è tenuto a prestare cauzione: alla stessa stregua, peraltro, di quanto disponeva l’art. 32, rispettivamente al comma 3 e al comma 4, per il concessionario (mentre qui non vengono in rilievo né la successiva abrogazione dell’art. 32, comma 3, disposta dall’art. 2 del d.lgs. 22 febbraio 1999, n. 37, né il quesito se anche al commissario si applicasse la norma da ultimo citata, che disponeva l’abrogazione di “ogni disposizione” che imponeva ai concessionari l’obbligo del non riscosso come riscosso).

Quanto all’aspetto economico, l’art. 25 del d.P.R. n. 43 del 1988 (cui pure rinvia l’art. 18, comma 3, della legge regionale n. 35 del 1990) prevedeva che con il decreto di nomina del commissario governativo venissero stabilite, “di norma entro i limiti determinati per il precedente concessionario, la misura delle commissioni, dei compensi e dei rimborsi delle spese a lui spettanti”, nonché le modalità di partecipazione delle amministrazioni pubbliche alle spese per i locali e per gli arredi necessari all’adempimento del servizio di riscossione, “restando a carico del commissario stesso le altre spese di gestione”. A sua volta l’art. 61 del d.P.R. n. 43 del 1988 (cui corrisponde e in larga parte rinvia l’art. 23 della legge regionale) disciplinava dettagliatamente la determinazione dei compensi e dei rimborsi spese spettanti al concessionario, prevedendo fra l’altro (comma 3, primo periodo) che “la remunerazione del servizio di riscossione viene determinata in modo da assicurare una percentuale non differenziata di utile per ogni concessionario sulla base dei dati di redditività media e dei costi medi di gestione a livello nazionale rapportati ad ogni concessionario o a gruppi di concessionari”, tenendo comunque conto di una serie di elementi concreti ivi specificati, fra cui anche il personale eccedente le necessità operative della concessione, mantenuto obbligatoriamente in servizio; e che tale remunerazione fosse articolata in varie voci, in parte a carico dell’amministrazione e in parte a carico dei contribuenti, fra cui (comma 3, lettera d) “un compenso in cifra fissa per ciascun abitante servito, differenziato per ogni ambito territoriale e determinato in relazione al prevedibile ammontare delle commissioni, dei compensi, dei rimborsi spese e degli interessi di mora spettanti ai concessionari (…) al fine di assicurare la remunerazione calcolata” con i criteri previsti dal citato primo periodo dello stesso comma 3. A sua volta, il comma 8 dell’art. 61 stabiliva che “al fine di assicurare la permanenza dell’equilibrio economico di ogni singola gestione viene effettuata, con periodicità biennale, la revisione delle misure delle commissioni, dei compensi, dei rimborsi delle spese tenuto conto anche del tasso di inflazione programmato dal Governo per il biennio successivo, nonché delle eventuali modifiche alle condizioni originarie della concessione conseguenti ad intervenute modifiche normative”. E’ a tale provvedimento di rideterminazione periodica della remunerazione che faceva riferimento l’art. 18, comma 1, del d.P.R. n. 43 del 1988, prevedendo la facoltà del concessionario di recedere dalla concessione con preavviso di sei mesi, con dichiarazione notificata entro trenta giorni dalla comunicazione del decreto di revisione biennale dei compensi.

4. – Il remittente, facendo proprie le tesi delle parti private, espone in sostanza due censure: che le norme impugnate comportassero l’obbligo per il commissario di gestire l’attività d’impresa con tutti gli oneri gravanti sul concessionario ma senza averne i diritti, e pertanto anche in condizioni antieconomiche, e che tale obbligo potesse essere imposto senza un ragionevole limite temporale. Ma tali censure non trovano riscontro oggettivo nella normativa che si è richiamata.

Essa infatti, come si è visto, configurava la posizione del commissario, in linea di principio, alla stessa stregua di quella del concessionario (art. 24, comma 3, del d.P.R. n. 43 del 1988); e in particolare, per quanto riguarda l’aspetto economico, prevedeva dettagliatamente i criteri e le modalità per assicurare l’equilibrio economico delle gestioni dei concessionari (art. 61 dello stesso decreto), ed esplicitamente rinviava agli stessi criteri con riferimento al commissario governativo delegato provvisoriamente alla riscossione, nel prevedere che i relativi compensi e rimborsi venissero stabiliti di norma entro i limiti determinati per il precedente concessionario (art. 25 dello stesso decreto).

Non è vero dunque che il commissario avesse gli obblighi ma non i diritti del concessionario. Se poi, con questa affermazione, si volesse alludere alla mancata previsione a favore del commissario del diritto di recesso unilaterale, previsto in capo al concessionario dall’art. 18 del d.P.R. n. 43 del 1988, si dovrebbe osservare che in realtà tale norma non conferiva affatto al concessionario un potere “libero” di recedere dalla concessione in vista di una presunta antieconomicità della gestione, ma consentiva ad esso di svincolarsi unilateralmente dal rapporto solo in occasione della rideterminazione – stabilita con cadenza biennale – degli elementi della remunerazione, con preavviso di sei mesi e con dichiarazione da notificare entro un breve termine dalla comunicazione del provvedimento di variazione.

Peraltro né dall’ordinanza di rimessione, né dalle difese delle parti private è dato di comprendere chiaramente se, nella specie, i lamentati fattori di antieconomicità della gestione venissero ricondotti solo a ipotetici inadempimenti dell’amministrazione rispetto ad obblighi patrimoniali discendenti dalla legge e dal provvedimento di nomina e di determinazione dei compensi e dei rimborsi (nel qual caso, ovviamente, al commissario è dato il ricorso agli ordinari rimedi per far valere i diritti violati), ovvero a ipotetiche condizioni di non conformità di tale provvedimento rispetto alle previsioni legali (nel qual caso altri, ma sempre esperibili, sarebbero stati i rimedi), ovvero ancora, nell’opinione del commissario, ad inadeguatezza delle norme che prevedevano i compensi, e che invero contenevano espliciti riferimenti, come si è visto, alle esigenze di equilibrio economico della gestione (norme, tuttavia, non denunciate in questa sede).

5. – Per quanto poi attiene alla durata della gestione commissariale, l’assenza di un termine massimo determinato dalla legge (come è invece poi stato previsto dall’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 112 del 1999, che fissa per l’incarico la durata di un anno, rinnovabile una sola volta per un altro anno) non significa che la norma legittimasse una durata del tutto indeterminata dell’incarico, rimessa alla discrezione dell’amministrazione. L’art. 24 del d.P.R. n. 43 del 1988 configura espressamente la gestione commissariale come una soluzione provvisoria (“delegato provvisoriamente alla riscossione”: comma 1) intesa a garantire “temporaneamente” lo svolgimento del servizio (comma 2) “in attesa del nuovo conferimento della gestione del servizio” medesimo (ancora comma 1).

Il sistema normativo presuppone chiaramente, dunque, il dovere dell’amministrazione di attivare con sollecitudine i procedimenti intesi al rilascio della nuova concessione, e non giustifica la mera inerzia dell’amministrazione medesima, verificandosi la quale è sempre possibile per i privati interessati porre in essere i rimedi apprestati dall’ordinamento per reagire ad essa.

In ogni caso, gli eventuali vizi da cui si fanno derivare le conseguenze pregiudizievoli lamentate a carico del commissario non sarebbero da imputare alle norme denunciate, bensì alla loro difettosa o mancata applicazione, che non potrebbe dunque essere addotta come motivo di illegittimità costituzionale delle stesse norme legislative (cfr., ad esempio, sentenze n. 157 del 1996, n. 175 del 1997, n. 40 del 1998 e n. 300 del 2000).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (Istituzione del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 4 ottobre 1986, n. 657), e dell’art. 18 della legge della Regione Siciliana 5 settembre 1990, n. 35 (Istituzione e disciplina del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale di Palermo con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2004.