Ordinanza n. 486/2002

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ORDINANZA N. 486

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare                         RUPERTO           Presidente

- Riccardo                     CHIEPPA            Giudice

- Gustavo                      ZAGREBELSKY      "

- Valerio                        ONIDA                      "

- Carlo                           MEZZANOTTE        "

- Fernanda                     CONTRI                    "

- Guido                         NEPPI MODONA    "

- Annibale                     MARINI                    "

- Franco                         BILE                           "

- Giovanni Maria          FLICK                                    "

- Francesco                    AMIRANTE              "

- Ugo                             DE SIERVO              "

- Romano                      VACCARELLA        "

- Paolo                           MADDALENA         "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 521-bis del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 516 e 517 dello stesso codice, promosso, nell’ambito di un procedimento penale, dal Tribunale di Napoli con ordinanza del 23 ottobre 2001, iscritta al n. 190 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2002.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2002 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che il Tribunale di Napoli in composizione monocratica ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 521-bis del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 516 e 517 dello stesso codice, <<nella parte in cui prevede che, in caso di nuova contestazione nel corso del dibattimento celebrato dinanzi al tribunale in composizione monocratica, il processo debba essere trasmesso al tribunale in composizione collegiale>>;

che il rimettente premette:

- che il giudice dell’udienza preliminare aveva disposto il rinvio a giudizio dell’imputato per il delitto di rapina dinanzi al tribunale in composizione monocratica;

- che nel corso del dibattimento, a seguito dell’esame della persona offesa, il pubblico ministero aveva contestato all’imputato l’aggravante della minaccia con l’uso delle armi, e che, essendo la fattispecie così diversamente qualificata attribuita alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, gli atti erano stati trasmessi al pubblico ministero;

- che, investito di una nuova richiesta di rinvio a giudizio, il giudice dell’udienza preliminare, rilevato che <<non poteva ritenersi verificata una regressione alla fase precedente, essendo già stata validamente celebrata l’udienza preliminare e non potendosi pertanto rinnovare la stessa in ordine al solo elemento dell’aggravante>>, aveva restituito gli atti al pubblico ministero, il quale li aveva poi nuovamente trasmessi al tribunale in composizione monocratica;

che nella situazione considerata l'omessa previsione di un meccanismo di regressione del procedimento si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., in base ai principi espressi nelle sentenze n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995 dalla Corte costituzionale che, in riferimento alla disciplina anteriore alla riforma introdotta dal decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, ebbe ad affermare che rientrava nella facoltà dell'imputato chiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. o proporre domanda di oblazione ai sensi degli artt. 162 e 162-bis cod. pen. relativamente al fatto diverso e al reato concorrente contestati in dibattimento;

che in particolare la Corte, con la sentenza n. 265 del 1994, ritenne che, ove la nuova contestazione concernesse un fatto già risultante dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero l’imputato avesse tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione della pena in ordine alle originarie imputazioni, l’imputato doveva essere rimesso in termini per chiedere il patteggiamento;

che, sebbene la specifica ipotesi della contestazione in dibattimento di una circostanza aggravante non sia mai stata presa in considerazione dalla Corte, ad avviso del rimettente i principi affermati nelle sentenze sopra menzionate non potrebbero non estendersi anche a questo caso, sempre che la circostanza aggravante concerna fatti che, come nella specie, già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale;

che, pur conservando tali principi la loro valenza nel nuovo sistema, ora non sarebbe più possibile fare applicazione della richiamata pronuncia della Corte n. 265 del 1994, <<che prevedeva la possibilità per l’imputato di poter esercitare nuovamente la facoltà di richiedere l’applicazione della pena, oltre il limite della dichiarazione di apertura del dibattimento, alla medesima autorità giudiziaria dinanzi alla quale tale termine era spirato>>, in quanto l’anticipazione all’udienza preliminare del termine per la richiesta di applicazione della pena ha escluso <<dalle attribuzioni del tribunale in composizione collegiale la celebrazione del patteggiamento>>;

che inoltre, per effetto della nuova disciplina dell’attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica, si verificherebbe un’ulteriore disparità di trattamento rispetto a quella allora censurata dinanzi alla Corte;

che infatti, ove l’udienza preliminare non si sia svolta perché non prevista e a seguito di nuova contestazione la competenza spetti al tribunale in composizione collegiale, l’art. 521-bis cod. proc. pen. prevede la restituzione degli atti al pubblico ministero, consentendo all’imputato di rivalutare la propria posizione processuale e di richiedere <<eventuali riti alternativi (e dunque anche il giudizio abbreviato)>>, mentre, quando il giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica consegue alla celebrazione dell’udienza preliminare, la medesima norma impone la trasmissione degli atti direttamente al tribunale in composizione collegiale, impedendo così all’imputato di accedere ai riti alternativi;

che anche in quest’ultimo caso, secondo il giudice a quo, dovrebbe essere invece prevista <<la rimessione del processo dinanzi all’unico giudice attualmente competente alla celebrazione dei riti alternativi>>, poiché sarebbe questa la soluzione <<più omogenea al sistema vigente delle preclusioni processuali in materia>>;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, con riserva di dedurre, che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.

Considerato che il rimettente censura l'art. 521-bis del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 516 e 517 dello stesso codice, nella parte in cui prevede che in caso di nuove contestazioni in dibattimento – e, in particolare, di contestazione di una circostanza aggravante ex art. 517 cod. proc. pen. - il giudice dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero solo quando il reato risulta tra quelli attribuiti alla cognizione del tribunale per i quali deve essere celebrata l'udienza preliminare e questa non si è tenuta, e non anche nell'ipotesi in cui per il reato originariamente contestato l’udienza preliminare era prevista e si è ritualmente tenuta;

che ad avviso del giudice a quo tale disciplina, in forza della quale deve essere disposta la trasmissione degli atti direttamente al giudice del dibattimento anziché al pubblico ministero, contrasta con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, perché priva l’imputato della possibilità di accedere, in ordine al fatto diversamente contestato, ai riti alternativi, che devono essere chiesti a pena di decadenza nella fase dell’udienza preliminare;

che, inoltre, la norma censurata determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra imputati a seconda che la vocatio in ius sia avvenuta con decreto che dispone il giudizio a seguito di udienza preliminare o con citazione diretta, in quanto solo in questo secondo caso, mediante la prevista restituzione degli atti al pubblico ministero, l’imputato è posto in condizione di chiedere i riti alternativi nella nuova udienza preliminare;

che il rimettente muove dal presupposto che il sistema introdotto dal decreto legislativo n. 51 del 1998 e dalla legge 16 dicembre 1999 n. 479, e successive modifiche, preclude di presentare richiesta di applicazione della pena al tribunale in composizione collegiale e non consente la restituzione nel termine dell’imputato avanti a tale organo, sulla falsariga della soluzione seguita dalla sentenza n. 265 del 1994, e ritiene che, per porre rimedio ai denunciati vizi di illegittimità costituzionale, dovrebbe essere prevista la restituzione degli atti al pubblico ministero anche nell’ipotesi in cui l’udienza preliminare si sia già tenuta;

che la soluzione prospettata è tuttavia eccentrica e incongrua rispetto all'attuale sistema, che conosce, contrariamente a quanto ritiene il rimettente, ipotesi in cui il tribunale è chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di applicazione della pena (artt. 446 e 451, comma 5, nonché art. 448 cod. proc. pen.) e che, anche per quanto riguarda l’inosservanza delle regole di attribuzione dei reati (artt. 33-quinquies e seguenti cod. proc. pen.), è complessivamente improntato, per evidenti ragioni di speditezza e di economia processuale, all'opposto principio di non regressione del procedimento;

che le sentenze di questa Corte n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995, citate dal rimettente, avevano individuato nella restituzione nel termine avanti allo stesso giudice il rimedio idoneo a conciliare il rispetto del diritto di difesa e del principio di eguaglianza con le esigenze di economia processuale nelle ipotesi in cui la nuova contestazione fosse intervenuta dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, che segnava allora il limite preclusivo per la richiesta di patteggiamento;

che in particolare questa Corte nella sentenza n. 265 del 1994 aveva affermato che il patteggiamento <<è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza che non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase del procedimento, compreso il dibattimento>> e, richiamando la sentenza n. 101 del 1993, aveva ricordato che <<nei casi in cui la inosservanza del termine per formulare la richiesta di applicazione della pena "sia stata determinata da un evento non evitabile dall’interessato" è possibile fare applicazione dell’istituto della restituzione nel termine; e che, in tali ipotesi, "nulla impedisce che il rito speciale in esame (…) trovi collocazione nel corso del dibattimento", subendo, tuttavia, "un inevitabile adattamento ricavabile dal sistema">>;

che, a prescindere dalla possibilità di estendere i principi ora ricordati in tema di contestazione in dibattimento di un fatto diverso e di un reato concorrente alla ipotesi della contestazione di una circostanza aggravante, il mutamento del quadro normativo non comporta che siano da ritenere superate la ratio e la portata delle sentenze menzionate dal rimettente, tanto più ove si consideri, da un lato, che l’attuale ripartizione della competenza a celebrare i riti alternativi tra giudice dell’udienza preliminare e giudice del dibattimento risponde essenzialmente, nell’intenzione del legislatore, a ragioni di speditezza processuale, dall’altro che tali ragioni sono oggi assistite dal principio costituzionale della ragionevole durata del processo enunciato nel secondo comma dell’art. 111 Cost.;

che la questione deve pertanto essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 521-bis del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 516 e 517 dello stesso codice, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Napoli, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2002.