Ordinanza n. 316/2002

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ORDINANZA N.316

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare                                    RUPERTO                 Presidente

- Riccardo                                 CHIEPPA                  Giudice

- Gustavo                                  ZAGREBELSKY      "

- Valerio                                    ONIDA                      "

- Carlo                                       MEZZANOTTE        "

- Fernanda                                 CONTRI                    "

- Guido                                     NEPPI MODONA    "

- Piero Alberto                          CAPOTOSTI                         "

- Annibale                                 MARINI                    "

- Franco                                     BILE                           "

- Francesco                                AMIRANTE              "

- Ugo                                         DE SIERVO              "

- Romano                                  VACCARELLA        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 604, comma 6, del codice di procedura penale, promosso, nell'ambito di un procedimento penale, dalla Corte di appello di Milano con ordinanza del 1° giugno 2001, iscritta al n. 814 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2001.

Visti l'atto di costituzione dell'imputato nel procedimento a quo, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 4 giugno 2002 il Giudice relatore Guido Neppi Modona;

uditi l'avvocato Corso Bovio per la parte privata e l'avvocato dello Stato Sergio Sabelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che con ordinanza del 1° giugno 2001 la Corte di appello di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 604, comma 6, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice di appello, il quale riconosca l’erroneità della dichiarazione di improcedibilità pronunciata dal giudice di primo grado nella fase degli atti preliminari al dibattimento, debba rinviare gli atti al medesimo giudice per la celebrazione del relativo giudizio;

che il rimettente espone le complesse vicende processuali che, a seguito della dichiarazione di fallimento nel 1979 di una società di capitali, avevano dato luogo a due distinti procedimenti penali per il reato di bancarotta fraudolenta, che si erano sviluppati prima sotto la vigenza del codice di procedura penale del 1930 e, successivamente, sotto quella dell'attuale codice di rito;

che, in particolare, erano state inizialmente pronunciate due sentenze istruttorie di proscioglimento, una delle quali era stata appellata e poi confermata dalla Corte di appello di Milano; che il pubblico ministero aveva chiesto al giudice per le indagini preliminari ex art. 434 cod. proc. pen., e ottenuto, la revoca di una delle due sentenze di proscioglimento emesse dal giudice istruttore, e aveva poi esercitato l'azione penale alla stregua del nuovo codice di rito;

che nel corso delle successive vicende processuali il Tribunale investito del giudizio, con sentenza emessa prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, aveva dichiarato non doversi procedere per essersi formato il giudicato sulle altre sentenze di proscioglimento, non revocate, pronunciate sullo stesso fatto dal Giudice istruttore e dalla Corte di appello;

che, a seguito di appello e di successivo ricorso del pubblico ministero, la Corte di cassazione, con sentenza del 16 novembre 2000, aveva annullato con rinvio la sentenza con cui la Corte di appello di Milano aveva dichiarato l'improcedibilità dell'azione penale ai sensi dell'art. 434 cod. proc. pen. per mancata revoca integrale delle diverse sentenze istruttorie di proscioglimento;

che secondo la Corte di cassazione l'improcedibilità dell'azione penale era stata dichiarata erroneamente, in quanto l'ordinanza di revoca del Giudice per le indagini preliminari di Milano aveva implicitamente revocato tutte le sentenze di proscioglimento istruttorio (di primo e di secondo grado) relative a quella regiudicanda;

che, tutto ciò premesso, la Corte di appello rimettente, investita del giudizio a seguito dell'annullamento con rinvio della Corte di cassazione, solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 604, comma 6, cod. proc. pen., nei termini sopra precisati;

che il giudice a quo rileva che nel caso di specie deve appunto trovare applicazione l’art. 604, comma 6, cod. proc. pen., in forza del quale il giudice di appello, che riconosca l’erroneità della dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale pronunciata dal giudice di primo grado, deve decidere nel merito, previa rinnovazione del dibattimento, ove necessaria;

che, ad avviso del rimettente, tale disciplina violerebbe il diritto di difesa, in quanto la fattispecie in esame si caratterizza per l'assenza del dibattimento nel primo grado di giudizio, non solo con riferimento alla decisione, ma anche al diritto della parte di avanzare in quella sede le conclusioni di merito utili alla propria difesa;

che sarebbe prospettabile anche la lesione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento tra imputati, a seconda che nei confronti degli stessi sia stata pronunciata una sentenza di improcedibilità adottata in fase predibattimentale ovvero analoga sentenza emessa al termine del dibattimento;

che infatti l'imputato si troverebbe di fronte alla alternativa tra proporre l'eccezione di improcedibilità in limine al dibattimento, affrontando però il rischio che la decisione sia riformata in appello, con relativa perdita di un grado del processo di merito, e rinunziare a dedurla in limine, subordinando la prospettazione di ogni questione pregiudiziale all'esame del merito;

che nella fattispecie concreta, osserva ancora la Corte di appello, l'annullamento della sentenza di proscioglimento favorevole agli appellati ha determinato l'incongrua conseguenza della perdita della fase di merito del primo grado di giudizio;

che, ad avviso del rimettente, i denunciati profili di incostituzionalità potrebbero essere eliminati solo prevedendo l'obbligo per il giudice di appello, qualora riconosca l'erroneità della dichiarazione di improcedibilità emessa in limine dal giudice di primo grado (o a ciò sia vincolato a seguito di sentenza della Corte di cassazione), di rinviare gli atti a quest'ultimo per la celebrazione del relativo giudizio;

che nel giudizio si é costituito uno degli imputati nel procedimento a quo, rappresentato e difeso dagli avvocati Oreste Dominioni e Corso Bovio, i quali hanno chiesto che la questione sia dichiarata fondata, richiamando le censure prospettate dal rimettente;

che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo invece che la questione sia dichiarata infondata;

che a parere dell'Avvocatura la questione sarebbe simile a quella, sollevata in riferimento all'art. 24 Cost. e concernente un'analoga norma del codice del 1930 (art. 522, quarto comma), dichiarata infondata con la sentenza n. 41 del 1965;

che, in particolare, la censura relativa alla lesione del diritto di difesa dimostrerebbe "troppo", coinvolgendo ogni ipotesi in cui il giudice debba pronunciare una sentenza di improcedibilità ex art. 129 cod. proc. pen.;

che, "stante la struttura normativa del dibattimento", ad avviso dell'Avvocatura é "plausibile che il legislatore si sia posto il problema, nel caso di (erronea) pronuncia di primo grado sulla improcedibilità, di assicurare, in secondo grado, lo sviluppo del "merito" della causa [...], prevedendo appunto una sostanziale deroga alle regole generali sul giudizio di appello che, nel caso censurato, si svolge con una pienezza di poteri cognitivi altrimenti sconosciuta a quel giudice";

che con successiva memoria la parte privata, replicando alle argomentazioni esposte nell'atto di intervento dell'Avvocatura dello Stato, ha sottoposto a critica l'interpretazione data alla sentenza n. 41 del 1965 di questa Corte, che avrebbe un significato opposto a quello prospettato dall'Avvocatura, e ha contestato il rilievo secondo cui la disciplina in esame sarebbe equiparabile a tutte le altre ipotesi in cui é dichiarata l'improcedibilità dell'azione penale;

che, in particolare, la difesa sostiene che l'incostituzionalità della norma censurata discenderebbe proprio dal fatto che non vi sarebbero nel sistema processuale "altri casi in cui l'imputato venga privato [...] di un grado di giudizio senza che ciò dipenda da elementi oggettivi quali ad esempio la gravità del reato o la natura o l'entità della pena inflitta";

che, inoltre, il doppio giudizio di merito é assicurato all'imputato in tutti gli altri casi di declaratoria di improcedibilità, mentre soltanto quando la sentenza é pronunciata non in sede predibattimentale, ma in dibattimento, nella fase delle questioni preliminari, l'imputato perde il diritto al doppio grado di merito e la sentenza di improcedibilità pronunciata dal giudice di primo grado, e poi ritenuta erronea dal giudice di appello, si ritorce ai suoi danni.

Considerato che il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell'art. 604, comma 6, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che il giudice d'appello, ove riconosca che il giudice di primo grado ha erroneamente dichiarato l'improcedibilità dell'azione penale, decide nel merito, disponendo, ove necessario, la rinnovazione del dibattimento, anzichè rinviare gli atti al medesimo giudice per la celebrazione del giudizio;

che la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 24 della Costituzione, in quanto priva l'imputato del dibattimento di primo grado, precludendogli di avanzare in quella sede le proprie difese di merito, nonchè con l'art. 3 Cost., per la irragionevole disparità di trattamento tra imputati, a seconda che la sentenza di improcedibilità venga pronunciata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, con conseguente perdita del giudizio di merito in primo grado, ovvero venga emessa al termine del dibattimento, dopo che la causa é stata discussa nel merito;

che l'imputato verrebbe quindi posto di fronte all'alternativa se eccepire in limine al dibattimento la causa di improcedibilità idonea a definire il giudizio, ottenendo subito una sentenza ex art. 129 cod. proc. pen., ma correndo il rischio, ove la pronuncia venga annullata in appello, di rimanere privato del giudizio di merito in primo grado, ovvero se posticiparne la deduzione in esito al dibattimento per assicurarsi comunque il giudizio di merito in primo grado;

che i profili di illegittimità costituzionale prospettati dal rimettente si basano sul presupposto che nella sfera del diritto di difesa sia compreso il diritto alla trattazione della causa nel merito sia in primo grado che in grado di appello;

che in relazione alla disposizione dell'art. 522, quarto comma, del codice di procedura penale del 1930, sostanzialmente identica all'art. 604, comma 6, cod. proc. pen., questa Corte ha avuto occasione di precisare - in una situazione analoga a quella oggetto del presente giudizio, in cui il giudice di primo grado aveva "esaurito la sua funzione unicamente con la decisione di questioni preliminari" ed il merito non era quindi stato "trattato nella sentenza di primo grado" - che il diritto di difesa "é stato assicurato innanzi al giudice di primo grado perchè la parte non ha avuto, in quella fase, alcun limite alla discussione del merito; e viene inoltre assicurato innanzi al secondo giudice perchè quest'ultimo ha un potere di piena cognizione del merito [...], ed ha anche il potere di rinnovare il dibattimento, così da escutere le ulteriori prove che fossero pertinenti e rilevanti ai fini del migliore risultato di giustizia" (sentenza n. 41 del 1965);

che, sulla base di queste premesse, é stato affermato che "non é la doppia istanza che garantisce la completa difesa, ma piuttosto la possibilità di prospettare al giudice ogni domanda ed ogni ragione che non siano legittimamente precluse", e che la garanzia del doppio grado di giurisdizione, che peraltro non ha ricevuto riconoscimento costituzionale, non va intesa, ove prevista dall'ordinamento, nel senso che "tutte le questioni debbono essere decise da due giudici di diversa istanza, ma nel senso che deve essere data la possibilità di sottoporre tali questioni a due giudici di diversa istanza, anche se il primo non le abbia tutte decise" (v., oltre la sentenza sopra citata, ordinanza n. 109 del 1971);

che, in virtù di tali principi, dai quali non vi é ragione di discostarsi, anche nel caso sottoposto al giudizio di questa Corte il diritto di difesa dell'imputato non ha subito alcuna lesione, essendo comunque assicurato all'imputato il diritto di difendersi nel merito nel giudizio di appello;

che in quella sede, infatti, ove le parti ne facciano richiesta, si dovrà procedere alla rinnovazione del dibattimento, resa necessaria dal fatto che la sentenza di improcedibilità, pronunciata nel caso di specie su istanza della stessa difesa dell'imputato, é intervenuta in limine al dibattimento, prima che le parti private e il pubblico ministero presentassero le rispettive richieste di ammissione delle prove;

che la norma censurata non comporta dunque alcuna "incongrua" privazione di un grado di giudizio di merito, in quanto la completa trattazione del merito é assicurata in grado di appello dalla rinnovazione del dibattimento, quando la sentenza di improcedibilità é intervenuta prima che si sia dato corso all'istruzione dibattimentale, ovvero in primo grado, quando la sentenza di improcedibilità é pronunciata in esito all'istruzione dibattimentale e alla discussione sul merito;

che in tale ultima ipotesi, infatti, non é consentita una nuova fase di istruzione dibattimentale se non nei ristretti limiti previsti in via generale dall'art. 603 cod. proc. pen.;

che, conseguentemente, risulta priva di fondamento anche la censura di illegittimità costituzionale per la supposta irragionevole disparità di trattamento tra imputati a seconda del momento in cui venga pronunciata la sentenza di improcedibilità;

che la questione va pertanto dichiarata manifestamente infondata in riferimento ad entrambi i parametri evocati dal rimettente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 604, comma 6, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte di appello di Milano, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2002.