Ordinanza n. 131 del 2002

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ORDINANZA N.131

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Massimo VARI, Presidente

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa l’8 marzo 2001 dal Tribunale di Pistoia sulle istanze riunite proposte da Conceria Peretti s.p.a. ed altre nei confronti di P.R. Salotti di Petreti Rodolfo, iscritta al n. 454 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Udito nella camera di consiglio del 13 marzo 2002 il Giudice relatore Annibale Marini.

Ritenuto che, con ordinanza emessa l’8 marzo 2001, il Tribunale di Pistoia – chiamato a pronunciarsi su talune istanze di fallimento nei confronti di un imprenditore commerciale - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), "nella parte in cui non prevede che per l’imprenditore individuale il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento decorre dalla pubblicazione della cessazione dell’attività nel registro delle imprese";

che, ad avviso del giudice a quo, la disciplina riguardante il fallimento dell’impresa individuale che abbia cessato la propria attività risulterebbe - alla stregua del diritto vivente - sostanzialmente diversa da quella dettata per l’impresa collettiva dalla stessa legge fallimentare, come emendata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 319 del 2000;

che, infatti, il termine di cui all’art. 10 della legge fallimentare decorrerebbe per la impresa collettiva dalla data della sua cancellazione dal registro delle imprese, per l’impresa individuale dalla data di effettiva cessazione dell’attività;

che siffatta diversità di disciplina si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, determinando una ingiustificata disparità di trattamento tra i creditori dell’imprenditore collettivo, nei cui confronti assumerebbe rilevanza la pubblicità prevista dall’art. 2196 del codice civile, ed i creditori dell’imprenditore individuale, ai quali la cessazione dell’attività di impresa sarebbe opponibile a prescindere da qualsiasi pubblicità, con conseguente lesione, nei confronti di costoro, anche del diritto alla tutela giurisdizionale, garantito dall’art. 24 della Costituzione.

Considerato che questione identica a quella sollevata dall’odierno rimettente é stata dichiarata manifestamente infondata con ordinanza n. 361 del 2001;

che, successivamente all’entrata in vigore della legge 29 dicembre 1993, n. 580 (Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), istitutiva del registro delle imprese, va esclusa la configurabilità di un diritto vivente sulla rilevanza, ai fini della decorrenza del termine di cui all’art. 10 della legge fallimentare, della semplice cessazione di fatto dell’impresa individuale;

che nella stessa ordinanza é stato, altresì, evidenziato come l’affermazione – costante nella giurisprudenza, anche recente, della Cassazione – secondo cui "la cessazione dell’attività di impresa, ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell’imprenditore (art. 10 legge fallimentare), presuppone che nel detto periodo non vengano compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste in essere nell’esercizio dell’impresa" (Cassazione 4 settembre 1998, n. 8781), non sia affatto incompatibile con l’efficacia dichiarativa della iscrizione nell’apposito registro della cessazione dell’attività di impresa in quanto la pubblicità della cessazione non esclude certo la possibilità per i terzi di provare la non veridicità del fatto iscritto e, dunque, in ipotesi, il compimento di atti di esercizio dell’impresa successivamente all’iscrizione della sua cessazione;

che va, pertanto, ribadito che l’interpretazione sulla cui base il rimettente solleva la questione di costituzionalità é erroneamente qualificata in termini di diritto vivente e non é sicuramente l’unica compatibile con il testo della norma denunciata;

che, essendo, conseguentemente, possibile dare della norma stessa una interpretazione conforme a Costituzione, la questione va dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Pistoia, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 aprile 2002.

Massimo VARI, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 22 aprile 2002.