Ordinanza n. 433/2001

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ORDINANZA N.433

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

- Massimo VARI, Presidente

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY              

- Valerio ONIDA                    

- Carlo MEZZANOTTE                     

- Fernanda CONTRI               

- Guido NEPPI MODONA                

- Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Annibale MARINI               

- Franco BILE             

- Giovanni Maria FLICK                    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 197, comma 1, lettera d), del codice di procedura penale e 13 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito in legge 22 gennaio 1934, n. 36, promosso, nell'ambito di un procedimento penale, dal Tribunale di Cassino con ordinanza emessa il 23 febbraio 2001, iscritta al n. 327 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 2001.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 novembre 2001 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che il Tribunale di Cassino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 197, comma 1, lettera d), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità con l'ufficio di testimone del difensore che svolga o abbia svolto la propria funzione nel medesimo procedimento, e in subordine, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito con modificazioni nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, nella parte in cui non prevede l'obbligo di astensione dalla difesa del legale che nel medesimo procedimento si trovi a cumulare le dette funzioni, ovvero la facoltà dell'autorità giudiziaria procedente di rilevare l'incompatibilità con modalità analoghe a quelle previste dall'art. 106, commi 2 e 3, cod. proc. pen.;

che il Tribunale rimettente, investito della cognizione di una complessa vicenda concernente condotte di circonvenzione, abuso di ufficio e falso ideologico, ascritte a diversi imputati e oggetto di distinti procedimenti poi riuniti per ragioni di connessione, premette di essere chiamato a pronunciarsi sulla richiesta del difensore di un imputato di ammettere in veste di testimone il legale di altri due imputati nel medesimo procedimento, ritualmente indicato nella lista testimoniale depositata a norma dell'art. 468 cod. proc. pen., in relazione a circostanze pertinenti il delitto di circonvenzione addebitato al proprio assistito;

che, quanto alla rilevanza della questione, il rimettente precisa che le circostanze dedotte, esulanti dall'ambito del segreto professionale tutelato ex art. 200 cod. proc. pen., appaiono conferenti rispetto all'addebito e non manifestamente superflue, e che quindi la prova richiesta dovrebbe essere ammessa a norma degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen.;

che, peraltro, l'ammissione della testimonianza determinerebbe l'<<attualità di un conflitto funzionale>> in capo al difensore che dovrebbe essere escusso come testimone, non risolubile alla stregua della disciplina vigente;

che, al riguardo, il giudice a quo rileva che il legislatore del 1988, nel disciplinare i casi di incompatibilità a testimoniare, ha volutamente omesso di prendere in considerazione la posizione del difensore, ritenendo che <<la disciplina della incompatibilità trovi la propria sede normativa nell'ordinamento forense, essendo in gioco anche profili di deontologia professionale che non possono trovare regolamentazione nel codice di procedura penale>>;           

che il <<conflitto funzionale>> non sarebbe d'altro canto risolubile alla stregua dell'art. 13 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, che prevede esclusivamente che "Gli avvocati [...] non possono essere obbligati a deporre nei giudizi di qualunque specie su ciò che a loro sia stato confidato o sia pervenuto a loro conoscenza per ragione del proprio ufficio, salvo quanto é disposto nell'articolo 351, comma secondo, del codice di procedura penale" (ora art. 200 cod. proc. pen.);

che il carattere eccezionale della previsione contenuta nell'art. 197 cod. proc. pen. rispetto al generale dovere di rendere testimonianza non consentirebbe di estendere analogicamente la portata della norma in esame fino a comprendere fra le cause di incompatibilità lo svolgimento di funzioni difensive nell'ambito del medesimo procedimento;

che ad avviso del rimettente l'art. 197, comma 1, lettera d), cod. proc. pen. determinerebbe una irragionevole difformità del trattamento riservato al difensore - tenuto a rendere testimonianza <<con valutazione recessiva degli interessi defensionali, in assenza, peraltro, di poteri del giudice atti a rimuovere l'inerzia del soggetto interessato analogamente a quanto espressamente previsto dall'art. 106, commi 2 e 3, cod. proc. pen.>> - rispetto alla disciplina riservata al pubblico ministero, per il quale é prevista l'incompatibilità a testimoniare;

che la denunciata irragionevole disparità di trattamento sarebbe tanto più rilevante ove si consideri che l'incompatibilità a testimoniare é prevista anche per gli ausiliari del giudice e del pubblico ministero, <<figure meno attinte da esigenze di cautela e riserbo funzionale rispetto alla pubblica accusa>>;

che l'omessa previsione dell'incompatibilità tra le funzioni di difensore e di testimone lascerebbe quindi <<sfornite di presidio normativo le ipotesi di collisione [...] tra interessi di rango costituzionale parimenti tutelati, quali quelli dell'inviolabilità del diritto di difesa e del diritto all'esame dei testi a discarico in condizioni di parità con l'accusa>>;

che, ove la norma censurata dovesse essere reputata conforme al dettato costituzionale, ad avviso del rimettente sarebbe allora ravvisabile l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 24, secondo comma, Cost., dell'art. 13 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, nella parte in cui non prevede l'<<obbligo di astensione del professionista cui faccia capo l'incompatibilità funzionale>> ovvero la <<facoltà riconosciuta all'autorità giudiziaria procedente di rilevarla con procedura analoga a quella tipizzata all'art. 106, commi 2 e 3, cod. proc. pen.>>, al fine di non demandare alla <<sensibilità deontologica del singolo>> la risoluzione del rapporto fiduciario, ma di prevedere <<un presidio normativo che ne disegni in via prescrittiva modi e forme>>;

che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate, rilevando che analoga questione di legittimità costituzionale é stata dichiarata infondata con sentenza n. 215 del 1997.

Considerato che il rimettente, sul presupposto della assoluta inconciliabilità fra funzione di difensore e ufficio di testimone, chiede a questa Corte di estendere le ipotesi di incompatibilità alla testimonianza previste dall’art. 197, comma 1, lettera d), del codice di procedura penale, così da comprendervi anche quella del difensore che venga citato in veste di testimone nel medesimo procedimento, ovvero di introdurre un generale dovere di astensione del difensore e correlativamente il potere del giudice di rilevare l’incompatibilità alla difesa secondo le modalità previste dall’art. 106, commi 2 e 3, cod. proc. pen.;

che, per ciò che concerne la denunciata disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista per il pubblico ministero, con sentenza n. 215 del 1997 questa Corte ha dichiarato infondata analoga questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 197, comma 1, lettera d), cod. proc. pen., rilevando che la situazione di assoluta inconciliabilità tra le funzioni di giudice e di pubblico ministero e l'ufficio di testimone non é comparabile con la posizione del difensore, connotata piuttosto da una sorta di incompatibilità tra ruolo della difesa e ufficio di testimone;

che, quanto agli ulteriori profili evocati dal rimettente, nella medesima decisione la Corte ha precisato che <<il problema dei rapporti tra il ruolo del difensore e l'ufficio di testimone non si presta ad essere disciplinato in termini assoluti ed astratti all’interno del codice>>, ma trova la sua naturale collocazione nella sfera delle regole deontologiche, alle quali, per la loro stessa struttura e funzione, spetta di individuare, a seconda delle varie concrete situazioni, in quali casi il munus difensivo non possa conciliarsi con l’ufficio di testimone;

che tale impostazione non é contraddetta dalla nuova causa di incompatibilità con l'ufficio di testimone introdotta dall'art. 3 della legge 7 dicembre 2000, n. 397, nell'art. 197, comma 1, lettera d), cod. proc. pen., posto che l'incompatibilità é limitata all'ipotesi in cui il difensore abbia svolto attività di investigazione difensiva;

che l’incongruità del tertium comparationis indicato dal giudice a quo e la naturale collocazione dei rapporti tra la funzione del difensore e l’ufficio del testimone nella sfera delle regole deontologiche rendono dunque privo di consistenza il denunciato contrasto dell’art. 197, comma 1, lettera d), cod. proc. pen. con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.;

che, a fronte di queste considerazioni, anche la richiesta del rimettente di introdurre, mediante un intervento sull’art. 13 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, <<un presidio normativo>> che delinei <<in via prescrittiva modi e forme>> per la risoluzione del rapporto tra il difensore e il suo assistito ove il primo venga citato come testimone, appare priva di ogni fondamento;

che, del resto, lo stesso rimedio previsto dall’art. 106, commi 2 e 3, cod. proc. pen. per rimuovere situazioni di incompatibilità alla difesa di più imputati, espressamente richiamato dal rimettente, secondo la giurisprudenza di legittimità non opera in via astratta e automatica, ma é attivabile solo quando il contrasto di interessi fra coimputati sia effettivo e reale, tale che il difensore comune si vedrebbe costretto a prospettare tesi difensive logicamente inconciliabili;

che le questioni vanno pertanto dichiarate manifestamente infondate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 197, comma 1, lettera d), del codice di procedura penale e 13 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito con modificazioni nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Cassino, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2001.

Massimo VARI, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 21 dicembre 2001.