Ordinanza n. 269/2001

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ORDINANZA N. 269

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 513 del codice di procedura penale, come risultante a seguito della sentenza n. 361 del 1998 della Corte Costituzionale; dell’art. 1, commi 1 e 2 del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2 (Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo) e dell’art. 210, comma 4, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 7 febbraio 2000 dalla Corte di assise di appello di Napoli, il 5 febbraio 2000 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo, l’11 aprile e il 23 maggio 2000 dal Tribunale di La Spezia, il 15 marzo 2000 dal Tribunale di Venezia, il 10 aprile 2000 dal Tribunale di La Spezia, il 1° giugno 2000 dal Tribunale di Milano, il 24 maggio 2000 dal Tribunale di Massa, il 13 giugno 2000 dal Tribunale di La Spezia, il 22 giugno 2000 da Tribunale militare di Palermo, il 1° giugno 2000 dal Tribunale di Trento, il 18 luglio e il 18 aprile 2000 dal Tribunale di La Spezia, il 28 giugno 2000 dal Tribunale di Locri, il 5 luglio 2000 dalla Corte di appello di Venezia, il 22 maggio 2000 dal Tribunale di La Spezia, il 18 luglio 2000 dai Tribunali di Roma e di Nuoro e il 27 e il 23 ottobre 2000 dal Tribunale di La Spezia, rispettivamente iscritte ai numeri 142, 331, 446, 466, 469, 500, 515, 527, 528, 558, 568, 578, 579, 593, 610, 712, 719, 824 e 856 del registro ordinanze 2000 e al n. 29 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 16, 25, 35, 37, 39, 40, 41, 42, 43, 44 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2000 e numeri 2,3 e 4, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 giugno 2001 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con nove ordinanze di contenuto identico, il Tribunale di La Spezia ha sollevato, in riferimento all’art. 111, quarto e quinto comma, della Costituzione, nel testo sostituito ad opera della legge costituzionale n. 2 del 1999, questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, del codice di procedura penale, come «interpretato» dalla sentenza n. 361 del 1998 di questa Corte, nella parte in cui consente la utilizzazione, nei confronti degli imputati, delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dalle persone esaminate a norma dell’art. 210 cod.proc.pen., a seguito della contestazione effettuata ai sensi dell’art. 500, commi 2-bis e 4, dello stesso codice, qualora il dichiarante si sia avvalso della facoltà di non rispondere, indipendentemente dal verificarsi di uno dei casi previsti dall’art. 111, quinto comma, Cost.;

che a parere del giudice a quo la possibilità, introdotta con il meccanismo delle contestazioni, di acquisire ed utilizzare contra alios le dichiarazioni in precedenza rese dalla persona esaminata ai sensi dell’art. 210 cod.proc.pen., che si sia avvalsa in dibattimento della facoltà di non rispondere, si porrebbe in contrasto: a) con l'art. 111, quarto comma, Cost., in quanto risulterebbe violato il principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova, dovendosi altresì ritenere integrata la specifica ipotesi del soggetto che si è sottratto volontariamente all’esame da parte dell’imputato e del suo difensore in relazione alla propria posizione processuale; b) con l’art. 111, quinto comma, Cost., in quanto non ricorrerebbe alcuna delle ipotesi in cui è consentita la formazione della prova al di fuori del contraddittorio (consenso dell’imputato, accertata impossibilità di natura oggettiva, provata condotta illecita);

che in parte coincidenti sono anche le plurime censure prospettate dalla Corte di assise di appello di Napoli. Viene infatti sollevata, in primis, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2 (Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo), per violazione degli artt. 3, primo comma, 77 e 138, primo comma, della Costituzione, nonché dell’art. 111, terzo e quarto comma, della stessa Carta e dell'art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2. Si impugna, poi, l'art. 1, comma 2, del medesimo decreto-legge n. 2 del 2000 per violazione dell'art. 111, quarto comma, Cost., e si censura, infine, l'art. 513, comma 2, cod.proc.pen., come integrato dalla sentenza costituzionale n. 361 del 1998, per violazione dell’art. 111, terzo e quarto comma, della Costituzione;

che in merito alle prospettate questioni il giudice rimettente sottolinea, in particolare, come l'art. 1, comma 1, del d.l. n. 2 del 2000 abbia escluso l'applicabilità dei nuovi principi sanciti dall’art. 111 Cost. nei procedimenti in corso nei casi in cui - come nella specie - il dibattimento fosse stato già dichiarato aperto, mentre il comma 2 del medesimo art. 1 del decreto avrebbe riconosciuto alle dichiarazioni non confermate valore di semiplena probatio: sicché - prospetta il rimettente - una fonte ordinaria, per di più priva dei caratteri della necessità ed urgenza sanciti dall’art. 77 Cost., avrebbe inciso su di una fonte costituzionale, generando disparità di trattamento fra cittadini e violazione dell’art. 2 della legge costituzionale n. 2 del 1999, posto che la stessa aveva assegnato al legislatore ordinario il compito di disciplinare, ma non di escludere, l’applicabilità dei nuovi principi costituzionali ai procedimenti in corso. Quanto, poi, all’art. 513, comma 2, cod.proc.pen., lo stesso, consentendo, attraverso il meccanismo delle contestazioni introdotto dalla sentenza n. 361 del 1998, l’acquisizione e la valutazione di dichiarazioni rese da persone che si sono sottratte all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore, si porrebbe in contrasto con il principio del contraddittorio, con la facoltà di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a carico e con il principio costituzionale per il quale «la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore»;

che nel giudizio promosso con l’ordinanza da ultimo citata è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo disporsi la restituzione degli atti al giudice a quo per nuovo esame «su fondatezza e rilevanza della questione in base alla nuova normativa». Rileva, infatti, l’Avvocatura che il d.l. n. 2 del 2000 ha subito sensibili modifiche ad opera della successiva legge di conversione n. 35 del 2000, sicché è alla luce di tale normativa sopravvenuta che il giudice rimettente dovrà rivalutare i dubbi di legittimità costituzionale;

che anche il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo ha sollevato, in riferimento all’art. 111, secondo e terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, cod.proc.pen., nella parte in cui prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura, si applichi l’art. 500, commi 2-bis e 4, cod.proc.pen., indipendentemente dal verificarsi di uno dei casi previsti dall’art. 111, terzo comma, Cost.;

che a tal proposito il rimettente rileva, in particolare, che, non essendo stata ancora approntata una analitica disciplina dei casi in cui è consentito derogare al contraddittorio e data la immediata applicabilità dei nuovi principi costituzionali, alla luce di quanto disposto dal d.l. n. 2 del 2000, diverrebbe allora fondato «dubitare della legittimità costituzionale di un regime di acquisizione probatoria che, per il solo fatto che l’imputato abbia liberamente ritenuto di non rispondere all’esame, consenta di far transitare nel fascicolo per il dibattimento - e dunque di dotare di efficacia probatoria - le dichiarazioni rese senza la partecipazione della difesa, indipendentemente dal verificarsi di uno dei casi espressamente previsti dal comma terzo dell’art. 111 Cost.»;

che anche il Tribunale di Venezia ha sollevato, in riferimento all’art. 111, quarto comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, secondo comma, ultimo periodo, cod.proc.pen., come modificato dalla sentenza n. 361 del 1998, e dell’art. 210, comma 4, dello stesso codice. Rileva, infatti, il Tribunale rimettente che l’art. 513 del codice di rito, come modificato dalla citata sentenza di questa Corte, prevede la possibilità che, anche in assenza di accordo tra le parti, dichiarazioni in precedenza rese da persona che poi si è avvalsa della facoltà di non rispondere, siano acquisite al fascicolo per il dibattimento, in ciò determinandosi un contrasto con l’art. 111, quarto comma, Cost., in quanto si tratta di dichiarazioni che non hanno formato oggetto di contraddittorio, né al momento della loro originaria enunciazione, né in dibattimento, atteso il silenzio serbato dal dichiarante. Ove non fosse condivisa da questa Corte la fondatezza di tali rilievi - prosegue il giudice a quo - «sotto alternativo profilo altra normativa processuale presterebbe il fianco a censure di incostituzionalità, in quanto, ad impedire il principio costituzionale della formazione della prova in contraddittorio, sembrerebbe allora stare la norma di cui all’art. 210, quarto comma, c.p.p., che facoltizza l’imputato di reato connesso a non rispondere». Infatti - sottolinea il rimettente - è proprio l’esercizio di tale facoltà a dare avvio «ad un iter procedimentale che culmina con l’acquisizione delle dichiarazioni»;

che, a sua volta, il Tribunale di Milano solleva, in riferimento agli artt. 101 e 102 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 1, cod.proc.pen., nella parte in cui impone il consenso delle parti per una piena valutazione delle dichiarazioni rese «in istruttoria» da uno dei coimputati, che nel dibattimento sia contumace o assente o rifiuti di sottoporsi all’esame. Impugnativa che il giudice a quo fonda sul rilievo secondo il quale «la scelta di far dipendere l’utilizzabilità di un atto legittimamente acquisito al fascicolo per il dibattimento dalla mutevole circostanza che le parti prestino o meno il proprio consenso, implichi, ove consenso non vi sia, un assoluto impedimento della valutazione dell’atto medesimo, non ripetibile in virtù del principio secondo cui l’imputato non può essere obbligato a deporre; e impedimento della valutazione - deduce il rimettente - non può non significare impedimento di formazione del libero convincimento, ossia impedimento di un pieno esercizio della funzione giurisdizionale, in contrasto con le norme costituzionali che, invece, tale funzione impongono nella sua pienezza»;

che in quest’ultimo giudizio ha depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi inammissibile e comunque infondata la proposta questione;

che anche il Tribunale di Massa solleva, in riferimento agli artt. 3, 25, 111, quarto e quinto comma, e 112 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, cod.proc.pen., come «interpretato» dalla sentenza n. 361 del 1998, nella parte in cui consente l’utilizzazione, nei confronti degli imputati, delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari dalla persona esaminata a norma dell’art. 210 cod.proc.pen., a seguito della contestazione effettuata ai sensi dell’art. 500, commi 2-bis e 4, dello stesso codice, qualora il dichiarante si sia avvalso della facoltà di non rispondere, indipendentemente dal verificarsi di uno dei casi previsti dall’art. 111, quinto comma, Cost. Ritiene in particolare il giudice a quo che, alla luce della nuova composizione delle diverse garanzie fondamentali scaturita dalle innovazioni introdotte con la legge costituzionale n. 2 del 1999, risulterebbe in contrasto con il principio costituzionale del diritto al contraddittorio - suscettibile di ristrettissime esclusioni, espressamente individuate dalla fonte costituzionale - la previsione della facoltà di non rispondere prevista dall’art. 210 cod.proc.pen., quanto alle dichiarazioni che un imputato renda su fatti concernenti la responsabilità di altri;

che anche il Tribunale militare di Palermo solleva, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 513, comma 2, ultimo inciso, cod.proc.pen., nella parte in cui consente l’acquisizione per contestazioni di dichiarazioni rese in precedenza da chi, sentito in dibattimento ai sensi dell’art. 210 cod.proc.pen., si avvalga della facoltà di non rispondere. Reputa infatti il rimettente che la possibilità di acquisire verbali di dichiarazioni già rese da chi in dibattimento si sottrae all’esame, violi, ad un tempo, il nuovo art. 111 Cost., stante la tassatività dei casi nei quali la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio, l’art. 24 Cost., giacché il diritto di difesa viene ad essere correlativamente menomato, nonché l’art. 3 della medesima Carta, in quanto si genera una disparità di trattamento rispetto alle ipotesi in cui le prove vengono ad essere correttamente formate ed acquisite;

che analoghe censure sono prospettate anche dal Tribunale di Trento, il quale solleva, per contrasto con l’art. 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 513 cod.proc.pen., nella parte in cui prevede che, qualora il dichiarante rifiuti di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura si applica l’art. 500, commi 2-bis e 4, cod.proc.pen. Osserva al riguardo il giudice a quo che, tramite l’applicazione del meccanismo consentito dall’art. 513 cod.proc.pen, quale scaturito dalla sentenza n. 361 del 1998, i verbali di dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari dal coimputato citato ex art. 210 cod.proc.pen., vengono a trovare ingresso nel processo penale, così sottraendosi al contraddittorio, ora costituzionalmente presidiato;

che non dissimili sono le censure svolte dal Tribunale di Locri a sostegno della identica questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, cod.proc.pen., sollevata per contrasto con l’art. 111 Cost. Sottolinea, infatti, il rimettente che il meccanismo delle contestazioni, introdotto dalla sentenza n. 361 del 1998, la quale ha integrato anche l’art. 513, comma 2, del codice di rito, consentendo l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni rese da persone che si sono sottratte all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore, vulneri il principio del contraddittorio nella formazione della prova, oltre che quello secondo il quale la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore;

che anche la Corte di appello di Venezia solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, cod.proc.pen., come interpretato da questa Corte nella sentenza n. 361 del 1998, nella parte in cui consente la formazione della prova in sede dibattimentale senza un effettivo contraddittorio fra le parti, deducendone il contrasto con l’art. 111, quarto comma, Cost. A parere del rimettente, infatti, il comportamento di chi, dopo essersi avvalso della facoltà di non rispondere nel corso del dibattimento, si limiti a subire le contestazioni sulla base di quanto in precedenza dichiarato senza nulla rispondere, si risolve di fatto in una volontaria sottrazione all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore, con la conseguenza che, non realizzandosi un effettivo contraddittorio, le dichiarazioni precedentemente rese non possono concorrere a formare prova alla luce del nuovo dettato costituzionale;

che identiche, nella sostanza, sono pure le doglianze prospettate dal Tribunale di Roma, il quale solleva, in riferimento all’art. 111, quarto comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, cod.proc.pen., come interpretato dalla sentenza n. 361 del 1998, nella parte in cui consente la utilizzazione, nei confronti degli imputati, delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari dalla persona esaminata ex art. 210 cod.proc.pen., a seguito della contestazione effettuata ai sensi dell’art. 500, commi 2-bis e 4, cod.proc.pen., qualora il dichiarante si sia avvalso della facoltà di non rispondere, indipendentemente dal verificarsi di uno dei casi previsti dall’art. 111, quinto comma, Cost. Osserva il rimettente che tale ultima previsione costituzionale, affidando al legislatore ordinario il compito di regolare le ipotesi in cui è consentita la formazione della prova al di fuori del contraddittorio, ha limitato dette ipotesi ai casi del consenso dell’imputato, della accertata impossibilità di natura oggettiva e di provata condotta illecita. Ciò confermerebbe, dunque, che, in base al dettato costituzionale, in caso di rifiuto di rispondere da parte della persona da esaminare ex art. 210 cod.proc.pen., non è consentita neanche de iure condendo una sia pur limitata possibilità di acquisizione e di utilizzazione delle dichiarazioni contra alios precedentemente rese in carenza di contraddittorio;

che, infine, anche il Tribunale di Nuoro solleva, in riferimento all’art. 111, secondo, terzo e quarto comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, cod.proc.pen., come integrato dalla sentenza costituzionale n. 361 del 1998, per rilievi del tutto analoghi a quelli svolti dagli altri rimettenti.

Considerato che le ordinanze sollevano questioni del tutto analoghe o comunque fra loro intimamente connesse, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione;

che, successivamente alla pronuncia degli atti di rimessione è intervenuta la legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e di valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 della Costituzione), la quale ha profondamente inciso sulla disciplina del diritto al silenzio e della formazione della prova in dibattimento, apportando, fra l’altro, sensibili modifiche alle disposizioni oggetto di impugnativa ed a varie norme ad esse direttamente collegate;

che di conseguenza, essendo mutate le norme censurate ed il contesto complessivo della disciplina di riferimento, gli atti devono essere restituiti ai giudici rimettenti, perché verifichino se le questioni proposte siano tuttora rilevanti nei giudizi a quibus;

che alle medesime conclusioni occorre pervenire anche per ciò che attiene alla impugnativa riguardante l’art. 1 del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2, sollevata dalla Corte di assise di appello di Napoli, considerato che la legge 25 febbraio 2000, n. 35, con la quale è stato convertito, con modificazioni, il menzionato decreto-legge n. 2 del 2000, ha apportato significative innovazioni rispetto al testo della norma impugnata, al punto che l’intero articolo 1 del citato decreto è stato integralmente sostituito ad opera della stessa legge di conversione (v. ordinanze n. 354 e n. 474 del 2000).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

ordina la restituzione degli atti ai giudici rimettenti.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2001.