Ordinanza n. 263/2001

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ORDINANZA N. 263

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Giovanni Maria FLICK "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale:

- degli artt. 197, comma 1, lettera a), e 210, comma 4, in relazione al comma 1, del codice di procedura penale, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze emesse il 1° giugno 2000 dal Tribunale di Padova, il 20 giugno 2000 dal Tribunale di Milano, il 29 giugno 2000 dal Tribunale di Rovereto, il 20 ottobre 2000 dal Tribunale militare di Verona e il 30 ottobre 2000 dal Tribunale di Napoli, iscritte rispettivamente ai nn. 483, 563, 659 e 797 del registro ordinanze 2000 e n. 68 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 38, 42, 46 e 52, prima serie speciale, dell'anno 2000 e n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2001;

- dell'art. 197, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, promosso, nell'ambito di un procedimento penale, con ordinanza emessa il 16 maggio 2000 dal Tribunale di Milano, iscritta al n. 556 del registro ordinanze 2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, nonché l'atto di costituzione, nel giudizio relativo alla questione iscritta al n. 483 del registro ordinanze del 2000, dell'imputato in procedimento connesso;

udito nella camera di consiglio del 6 giugno 2001 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che il Tribunale di Padova, con ordinanza emessa il 1° giugno 2000 (r.o. n. 483 del 2000), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 197, comma 1, lettera a), e 210, comma 4, in relazione al comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevedono: il primo, l'incompatibilità con l'ufficio di testimone dei coimputati del medesimo reato o degli imputati di reato connesso a norma dell'art. 12 cod. proc. pen., anche se nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile o comunque definitiva; il secondo, che possano avvalersi della facoltà di non rispondere anche le persone nei confronti delle quali sia stata pronunciata sentenza irrevocabile;

che questioni analoghe sono state sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 111 e 112 Cost., dal Tribunale di Milano con ordinanza del 20 giugno 2000 (r.o. n. 563 del 2000); in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 97, 101, secondo comma, 111, commi dal primo al quinto, e 112 Cost., dal Tribunale di Rovereto con ordinanza del 29 giugno 2000 (r.o. n. 659 del 2000); in riferimento agli artt. 101 e 111 Cost., dal Tribunale militare di Verona con ordinanza del 20 ottobre 2000 (r.o. n. 797 del 2000); in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost., dal Tribunale di Napoli con ordinanza del 30 ottobre 2000 (r.o. n. 68 del 2001);

che il Tribunale di Milano, con ordinanza del 16 maggio 2000 (r.o. n. 556 del 2000), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, 101, secondo comma, 111 e 112 Cost., questione di legittimità costituzionale del solo art. 197, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., «nella parte in cui stabilisce la incompatibilità con l'ufficio di testimone delle persone coimputate nel medesimo reato o imputate in un procedimento connesso nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna divenuta irrevocabile»;

che tutte le censure fanno specifico riferimento alla situazione dell'imputato di reato connesso che ha già «definito la propria posizione rispetto ai fatti di causa» (così, testualmente, r.o. n. 68 del 2001), e che, avendo in precedenza reso dichiarazioni eteroaccusatorie, si avvale, in dibattimento, della facoltà di non rispondere: precisandosi nelle ordinanze iscritte ai nn. 483, 556, 563, 659 e 797 del r.o. del 2000 che la fattispecie rilevante nei giudizi a quibus è quella di "dichiaranti" che hanno definito la propria posizione con sentenza di patteggiamento;

che esplicitamente nelle ordinanze nn. 483, 659, 797 del 2000 e 68 del 2001 i rimettenti rilevano che, in assenza dell'accordo tra le parti, i verbali delle dichiarazioni rese da tali persone durante le indagini non sono in alcun modo né acquisibili al fascicolo del dibattimento né utilizzabili;

che la preclusione discende, a parere dei rimettenti, dal nuovo testo dell'art. 111 Cost. (r.o. n. 68 del 2001) o meglio, non solo e non tanto dalla «natura di norme self executive» che va riconosciuta «alle disposizioni più dettagliate» del nuovo testo costituzionale, ma dal decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2 (Disposizioni urgenti per l'attuazione dell'articolo 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo) convertito, con modificazioni, nella legge 25 febbraio 2000, n. 35, che all'art. 1, comma 1, «dispone l'immediata applicazione dei principi di cui all'art. 111 della Costituzione ai procedimenti in corso», con «conseguente tacita abrogazione di tutte le disposizioni processuali con essa incompatibili e, pertanto, anche dell'art. 513, secondo comma c.p.p., così come modificato da Corte cost. n. 361/1998» (r.o. n. 659 e, in senso analogo, r.o. nn. 483 e 797 del 2000);

che ad avviso dei rimettenti, poiché la ratio del diritto al silenzio non riposa in una presunzione di inattendibilità del dichiarante, ma nel suo interesse a non essere obbligato a edere contra se, e cioè nell'esigenza che sia garantito il suo diritto di difesa (che però, si rileva nella ordinanza n. 659 del 2000, è assicurato dall'art. 24, secondo comma, Cost. solamente con riferimento a ogni stato e grado del procedimento nei confronti del dichiarante stesso, non oltre);

che pertanto l' «eccesso di tutela» a favore di coloro che hanno oramai definito la propria posizione processuale determinerebbe la lesione di altri interessi di rilievo costituzionale, contrapposti al "diritto di difesa" del dichiarante;

che sarebbe così violato l'art. 3 Cost.:

- perché sono irragionevolmente regolate in maniera diversa la situazione del testimone rispetto a quella dell'imputato in procedimento connesso che ha reso dichiarazioni erga alios (r.o. nn. 556, 563 del 2000), nonché la situazione dell'imputato in procedimento connesso prosciolto con sentenza irrevocabile, per il quale non vige l'incompatibilità con l'ufficio di testimone, rispetto a quella dell'imputato in procedimento connesso condannato con sentenza irrevocabile, per il quale invece quella incompatibilità sussiste, nonostante si tratti di situazioni del tutto equivalenti dal punto di vista del concreto pregiudizio processuale che il dichiarante potrebbe subire nel caso renda dichiarazioni autoindizianti (r.o. nn. 483, 556, 659 del 2000);

- e perché - costituendo la disciplina dei rapporti tra «obbligo di testimoniare» e «diritto al silenzio» uno «snodo fondamentale del sistema processuale penale, che impone sempre un ragionevole e meditato bilanciamento di contrapposti valori» - la tutela incondizionata di uno solo degli interessi in gioco, col conseguente sacrificio degli interessi contrapposti, incide sulla «tenuta complessiva del sistema» determinandone l'intrinseca irragionevolezza (r.o. nn. 563, 556, 659 del 2000);

che sarebbero quindi violati gli artt. 24, secondo comma, e 111, terzo comma, Cost., nei quali trova riconoscimento costituzionale il diritto di difesa dell'imputato nel processo in cui il dichiarante è chiamato a rendere l'esame, con specifico riferimento alla facoltà «di interrogare o di fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico» e dunque alla garanzia del contraddittorio come esplicazione del diritto di difesa dell'imputato (r.o. nn. 563, 659 del 2000, nonché r.o. nn. 483, 556, 797 del 2000, ma solo in riferimento all'art. 111 Cost.);

che sarebbe anche, e soprattutto, violato l'art. 111, quarto comma, prima parte, Cost., che riconosce il principio (oggettivo) del contraddittorio nella formazione della prova quale metodo privilegiato di accertamento della verità e che impone «una revisione dei confini tra il diritto alla formazione in contraddittorio della prova, ed il diritto al silenzio del dichiarante erga alios»;

che il riconoscimento della facoltà di non rispondere svuoterebbe di effettività tale principio (r.o. nn. 483, 556, 563, 797 del 2000; nella ordinanza n. 68 del 2001 censura analoga è svolta in riferimento all'art. 3 Cost.), consentendo a un soggetto estraneo al processo di condizionare in senso restrittivo, in base a una scelta del tutto insindacabile, l'ambito conoscitivo offerto al contraddittorio, che invece «postula che la selezione dei dati rilevanti per il giudizio sia la più ampia possibile, in funzione di garanzia contro una selettività arbitraria determinata da un'indagine a senso unico» e «svolge la funzione di massimizzare non semplicemente le possibilità di controllo critico ma anche le stesse informazioni utili ai fini della decisione a disposizione del giudice» (r.o. n. 659 del 2000);

che la disciplina censurata sarebbe, inoltre, in contrasto:

- con gli artt. 25, secondo comma, e 111, primo comma, Cost., in quanto incide sulla funzione conoscitiva del processo penale che è strumento, non disponibile dalle parti, finalizzato all'accertamento dei fatti reato e delle relative responsabilità e quindi a una giusta decisione (r.o. nn. 556 e 659 del 2000; censure sostanzialmente analoghe sono svolte nella ordinanza n. 68 del 2001 per violazione del principio di ragionevolezza e, quindi, in riferimento all'art. 3 Cost.);

- con l'art. 2 Cost., in quanto la libertà sostanzialmente accordata al dichiarante di difendersi anche accusando falsamente altri, ovvero di sottrarsi nel dibattimento al confronto dialettico con l'accusato nonostante le rilevanti conseguenze prodotte sul piano investigativo, cautelare e processuale, dalle dichiarazioni accusatorie rese nella fase predibattimentale, confligge con i più elementari doveri di solidarietà sociale (r.o. nn. 563, 659 del 2000);

- con l'art. 97 Cost., in quanto le disposizioni che regolano i rapporti tra «obbligo di testimoniare» e «diritto al silenzio» finiscono per incidere sul buon andamento e sull'imparzialità della amministrazione giudiziaria (r.o. n. 659 del 2000);

- con l'art. 101, secondo comma, Cost., in quanto la disciplina censurata comporta l'irragionevole e inaccettabile sacrificio del principio del libero convincimento, desumibile dalla soggezione del giudice soltanto alla legge (r.o. nn. 556, 659, 797 del 2000);

- con l'art. 112 Cost., incidendo tale disciplina sulla indefettibilità della giurisdizione e sulla obbligatorietà dell'azione penale (r.o. nn. 483, 556, 563, 659 del 2000 e 68 del 2001);

che nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate facendo riferimento, in particolare, ai principi di cui all'art. 24 Cost. e, nelle memorie successivamente depositate, alla legge 1° marzo 2001, n. 63, che, medio tempore, ha modificato le disposizioni censurate;

che nel giudizio relativo alla questione iscritta al n. 483 del r.o. del 2000 si è costituito l'imputato in procedimento connesso, in relazione al cui "diritto al silenzio" è sollevata la questione, rappresentato e difeso dall'avv. Piero Longo, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.

Considerato che identica è la sostanza delle questioni, concernenti tutte il diritto al silenzio riconosciuto alle persone che hanno in precedenza reso dichiarazioni eteroaccusatorie imputate in un procedimento connesso e già giudicate;

che, nonostante sia formalmente indirizzata al solo art. 197 cod. proc. pen., la questione sollevata con l'ordinanza n. 556 del 2000 è sostanzialmente uguale a quelle che investono il combinato disposto degli artt. 197 e 210 cod. proc. pen., in quanto il Tribunale di Milano ritiene che l'art. 197 cod. proc. pen., stabilendo «il discrimine fra la figura dell'imputato e quella di testimone», contempli «categorie di soggetti nei confronti dei quali non pare possa riconoscersi il diritto al silenzio»;

che deve pertanto essere disposta la riunione dei relativi giudizi;

che successivamente alle ordinanze di rimessione è intervenuta la legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e di valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione), che ha profondamente inciso sulla disciplina del diritto al silenzio e della formazione della prova in dibattimento, modificando, tra l'altro, gli artt. 64, 197 e 210 cod. proc. pen. e inserendo l'art. 197-bis cod. proc. pen., che individua e regola le ipotesi in cui le persone imputate o giudicate in un procedimento connesso o per reato collegato assumono l’ufficio di testimone;

che di conseguenza, essendo mutati le norme censurate e il contesto complessivo della disciplina di riferimento, gli atti devono essere restituiti ai giudici rimettenti, perché verifichino se le questioni siano tuttora rilevanti nei giudizi a quibus.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Padova, al Tribunale di Milano, al Tribunale di Rovereto, al Tribunale militare di Verona e al Tribunale di Napoli.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2001.