Sentenza n. 169/2001

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N.169

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 100 e 101 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’art. 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), promossi con le ordinanze emesse il 15 marzo 2000 dal Tribunale di Catanzaro, il 12 aprile 2000 dal Magistrato di sorveglianza di Macerata, il 20 marzo 2000 dal Magistrato di sorveglianza di Avellino e il 26 febbraio 2000 (n. 2 ordinanze) dal Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Empoli, rispettivamente iscritte ai nn. 328, 404, 422, 426 e 427 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 25, 29 e 30, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2001 il Giudice relatore Massimo Vari.

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 15 marzo 2000 (r.o. n. 328 del 2000), il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Catanzaro ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 101, comma 2, del decreto legislativo n. 507 del 1999 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell'art. 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), "nella parte in cui prevede che siano riscosse con le forme dell’esecuzione penale le multe inflitte con le sentenze di condanna divenute irrevocabili prima dell’entrata in vigore del decreto" stesso.

1.1. Premette il rimettente di essere stato investito, da parte del pubblico ministero, della richiesta di revoca di una sentenza, divenuta irrevocabile in data 8 dicembre 1999, con la quale é stata inflitta all’imputato la pena della multa, per il reato di cui all’art. 2 della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), depenalizzato dall’art. 29 del decreto legislativo sopra menzionato.

1.2. Nell'osservare, quanto a rilevanza della questione, che dalla disposizione denunciata "discende, nell’applicazione al caso concreto, il potere di ordinare l’esecuzione della pena pecuniaria inflitta con il titolo esecutivo devoluto per la revoca, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.", il giudice a quo ritiene violato l’art. 3 della Costituzione, a causa della "irragionevole disparità di trattamento fra situazioni omogenee e comparabili", evidenziando che, nel caso di sentenza di condanna a pena detentiva divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 507 del 1999, alla revoca del titolo per l’intervenuta abolitio criminis non consegue l’applicazione di alcuna sanzione, mentre il condannato alla sola pena pecuniaria, per il medesimo titolo di reato, deve soggiacere all’esecuzione della sanzione, nonostante la minore lesività della sua condotta.

Il rimettente, escluso di poter fornire "una interpretazione alternativa" e "costituzionalmente orientata" della disposizione oggetto di censura, ritiene che la evidenziata disparità di trattamento potrebbe essere eliminata solo ipotizzando "un potere di sostituzione della pena detentiva" con la corrispondente pena pecuniaria, in modo da agire in sede esecutiva a termini dell’art. 101 del decreto legislativo n. 507 del 1999. Ciò, tuttavia, implicherebbe un’operazione ermeneutica additiva in peius, con violazione dei principi del favor rei e dell’intangibilità del giudicato.

2. In riferimento sempre all'art. 3 della Costituzione, la stessa disposizione viene denunciata, inoltre, dal Magistrato di sorveglianza di Macerata, con ordinanza del 12 aprile 2000 (r.o. n. 404 del 2000), nel corso di un procedimento relativo alla "conversione o rateizzazione" della pena pecuniaria rimasta insoluta, inflitta per i reati di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 386 del 1990, depenalizzati dagli artt. 28 e 29 del decreto legislativo n. 507 del 1999. Il rimettente, nell'escludere che il debito che, in base alla predetta disposizione, residua, a carico del condannato a pena pecuniaria, possa identificarsi con la pena pecuniaria amministrativa, ovvero con la sanzione pecuniaria non penale da devolvere alla Cassa ammende, che ha natura disciplinare, ovvero, ancora, con le spese di giustizia, osserva che "se si ritenesse in toto revocabile il titolo di condanna e non solo limitatamente alla pena detentiva comminata, non si individuerebbe neppure la fonte dell’obbligo a carico del reo di corrispondere le spese di giustizia". Ciò posto, il giudice a quo ritiene che si tratti di "pene pecuniarie criminali", perchè altrimenti non potrebbe spiegarsi nè il fatto che, "nonostante la revoca (parziale) della sentenza con cui sono state inflitte", permangano, in base all’art. 101, comma 3, la confisca e le pene accessorie, che presuppongono necessariamente una condanna o quantomeno l’esistenza di un reato, nè, al tempo stesso, il riferimento testuale del legislatore, nella formulazione della disposizione denunciata, alle "multe e ammende", come pure il richiamo alle norme "sull’esecuzione delle pene pecuniarie".

2.1. Precisato che la questione é rilevante nel giudizio principale, poichè dalla disposizione dell’art. 101 del decreto legislativo n. 507 del 1999 deriva la necessità di convertire o rateizzare, nel caso concreto, la pena pecuniaria insoluta, ex art. 660 cod. proc. pen., l'ordinanza rileva una irragionevole disparità di trattamento, censurabile ex art. 3 della Costituzione, tra colui che sia stato condannato a pena detentiva, con sentenza divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 507 del 1999, per il reato di cui all’art. 2 della legge n. 386 del 1990, e colui che, per lo stesso reato, sia stato condannato alla sola pena pecuniaria. Analoga disparità di trattamento sussiste, inoltre, a giudizio del rimettente, tra il condannato a pena pecuniaria e il condannato a pena detentiva breve sostituita, in base alla legge n. 689 del 1981, dalla libertà controllata, nonchè, in riferimento al reato previsto dall’art. 1 della legge n. 386 del 1990, tra il condannato a pena detentiva e il condannato alla reclusione sostituita dalla multa. Nell'osservare che, in tal modo, viene riservato un trattamento deteriore a chi, punito con la pena pecuniaria, direttamente o a seguito di sostituzione della pena detentiva, ha posto in essere una condotta meno lesiva del bene protetto, o comunque tale da suscitare un minore allarme sociale, rispetto a quella posta in essere dal condannato a pena detentiva, sia pure sostituita con una sanzione sostitutiva, il magistrato di sorveglianza osserva ulteriormente che le trasgressioni della libertà controllata in cui é stata sostituita, ex art. 102 della legge n. 689 del 1981, l’originaria pena pecuniaria insoluta, possono determinare la conversione della sanzione sostitutiva non eseguita in pena detentiva, ai sensi dell’art. 108 della legge citata.

Il rimettente denuncia, perciò, la disposizione dell'art. 101, comma 2, del decreto legislativo n. 507 del 1999, "nella parte in cui prevede che siano riscosse con l'osservanza delle norme sull'esecuzione delle pene pecuniarie le multe inflitte, direttamente od a seguito di sostituzione dell'originaria pena detentiva, con le sentenze di condanna" divenute irrevocabili prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 507 del 1999, non senza rilevare l’impossibilità di una interpretazione alternativa, costituzionalmente corretta, in quanto ciò condurrebbe alla necessità di riqualificare giuridicamente la pena criminale pecuniaria residua in pena amministrativa, o in sanzione dovuta per la Cassa ammende o in spese di giustizia, nonostante la diversa conclusione cui inducono gli argomenti già considerati al riguardo.

3. Anche il Magistrato di sorveglianza di Avellino ha sollevato, con ordinanza del 20 marzo 2000 (r.o. n. 422 del 2000), questione di legittimità costituzionale del menzionato art. 101, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, per violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui tale disposizione, "nel fare riferimento alle norme sulla esecuzione delle pene pecuniarie, non esclude l’applicazione del capoverso dell’art. 660 cod. proc. pen. alle multe e alle ammende inflitte con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili ed emessi in relazione a violazioni depenalizzate dal medesimo decreto legislativo".

3.1. Premette il rimettente che altro magistrato dell'ufficio di sorveglianza di Avellino, dopo aver convertito in libertà controllata la pena pecuniaria inflitta con un decreto penale del 28 ottobre 1991, per il reato di cui all’art. 87, comma 3, del codice della strada, aveva, successivamente, revocato il decreto di conversione, in ragione dell'avvenuta depenalizzazione del reato a seguito del decreto legislativo n. 507 del 1999.

Dopo che anche il decreto penale di condanna era stato revocato dal giudice dell'esecuzione, gli atti erano stati trasmessi al rimettente dall'ufficio campione penale, con invito a procedere nuovamente alla conversione in libertà controllata della pena pecuniaria irrogata.

Tanto premesso in punto di fatto, il giudice a quo ritiene, anzitutto, di dover ribadire "l’orientamento già implicitamente espresso", sulla nuova richiesta, "dal proprio ufficio con l’emanazione del provvedimento di revoca dell’ordinanza di conversione", nel senso che le relative norme non vadano applicate nel caso in esame. Tuttavia, poichè "dalla mancanza di una specifica indicazione del riferimento normativo non può farsi discendere una automatica esclusione dello stesso", reputa di dover sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione denunciata, nella parte in cui lascia "salva la possibilità che, in caso di insolvibilità del condannato, il magistrato di sorveglianza proceda alla conversione della pena pecuniaria rimasta insoluta in sanzione sostitutiva".

3.2. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene violato, in primo luogo, l’art. 3 della Costituzione, per l'ingiusta disparità di trattamento determinato dalla sopravvivenza dell’istituto della conversione, nonostante l'intervenuta abolitio criminis, tra coloro i quali sono stati condannati a pena detentiva per un reato depenalizzato e coloro i quali, per il medesimo reato, sono stati condannati a pena pecuniaria. I primi, infatti, possono ottenere dal giudice dell’esecuzione, a norma dell’art. 101 del decreto legislativo n. 507 del 1999, la revoca della sentenza o del decreto, "estinguendo così definitivamente il proprio debito con la giustizia", mentre i secondi non soltanto continueranno a rimanere gravati dall’adempimento della sanzione ma rischieranno di vedere trasformarsi tale sanzione pecuniaria, generalmente corrispondente ad una valutazione di minore gravità del fatto, "in pena detentiva proprio a seguito del meccanismo della conversione".

Tale disparità di trattamento non può giustificarsi, ad avviso del rimettente, con il presupposto per la conversione, e cioé la violazione della prescrizione, essendo il reale elemento discriminatore costituito dalla "operatività del meccanismo della conversione, sul presupposto della salvezza della sanzione pecuniaria".

Ad avviso del giudice a quo, risulterebbe inciso, al tempo stesso, l’art. 13 della Costituzione, in quanto il condannato a pena pecuniaria si vedrebbe gravato, a seguito della conversione della pena pecuniaria in libertà controllata, da una serie di prescrizioni limitative della libertà personale, non giustificabili alla luce dell’avvenuta abolitio criminis.

Oltretutto, poichè l’art. 100 del decreto legislativo n. 507 del 1999 ha previsto, per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, la sostituzione delle sanzioni penali con le sanzioni amministrative, purchè il procedimento non sia stato definito con sentenza passata in giudicato, si determina, secondo il rimettente, una ulteriore disparità di trattamento tra coloro per i quali l’operatività della conversione deve ritenersi esclusa dalla natura amministrativa della sanzione applicabile, proprio in forza della predetta disposizione, e coloro i quali continuano a rimanere esposti alla conversione, in virtù della sanzione penale inflitta con sentenza già divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore del citato decreto legislativo n. 507 del 1999.

4. La disciplina transitoria contenuta nel decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, forma oggetto di denuncia anche da parte del giudice dell'esecuzione del Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Empoli, il quale, con due ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 426 e 427 del 2000), emesse il 26 febbraio 2000, censura gli artt. 100 e 101, "nella parte in cui dispongono il pagamento delle multe e delle ammende inflitte con sentenze o decreti irrevocabili di condanna per reati depenalizzati" dal menzionato decreto legislativo, per violazione dell’art. 3 della Costituzione.

4.1. Il rimettente chiamato a pronunziarsi su due incidenti di esecuzione, promossi dagli interessati, condannati, in relazione a fattispecie criminose depenalizzate dagli artt. 28 e 29 del decreto legislativo n. 507 del 1999, con sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., divenuta irrevocabile, rispettivamente, il 15 e il 28 aprile 1998, per lamentare il mancato rispetto, da parte dell’ente incaricato della riscossione, della rateizzazione disposta in loro favore con il provvedimento giurisdizionale assume che la sollevata questione é da reputare rilevante in quanto la dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni censurate farebbe venir meno il potere di riscossione e, quindi, il presupposto della esecuzione in corso.

4.2. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che la disciplina posta dalle disposizioni denunciate violi il principio di uguaglianza stabilito dall’art. 3 della Costituzione, osservando che, mentre alla depenalizzazione non consegue alcuna sanzione nei confronti di coloro che sono stati condannati a pena detentiva, non potendo nè eseguirsi la pena irrogata nè applicarsi, d’altro canto, la sanzione amministrativa, in virtù di quanto stabilito dall’art. 100 del decreto legislativo n. 507 del 1999, nei confronti dei condannati, per il medesimo titolo di reato, a pena pecuniaria, deve comunque procedersi alla riscossione della sanzione originariamente irrogata, nonostante che essi siano stati ritenuti dal giudice meno pericolosi e meritevoli di pena di minor gravità. Una disparità di trattamento ancor più evidente si porrebbe, inoltre, a giudizio del rimettente, tra il condannato a pena detentiva che abbia ottenuto il beneficio della conversione in pena pecuniaria, il quale si trova a dover pagare la sanzione, e il condannato a pena detentiva non ritenuto meritevole del beneficio, il quale non subisce sanzione alcuna.

5. In tutti i giudizi é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza delle sollevate questioni.

Secondo la difesa erariale, la disposizione denunciata non viola l’art. 3 della Costituzione, in quanto sia la pena detentiva, che viene meno con l’abolitio criminis, sia quella pecuniaria, che ad essa sopravvive, non operano distinzioni tra i soggetti da esse colpiti. Inoltre, non può istituirsi alcun confronto tra il diverso destino giuridico dei soggetti destinatari della pena detentiva e della pena pecuniaria, stante la non omogeneità delle situazioni.

Considerato in diritto

1. Le ordinanze in epigrafe sottopongono a scrutinio di costituzionalità la disciplina di diritto intertemporale contemplata nel decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’art. 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205). Tale decreto, nel quadro di un vasto programma di trasformazione in illecito amministrativo di fattispecie incriminatrici, ritenute dal legislatore di minor gravità e disvalore, ha stabilito, con l’art. 101, comma 1, che, se i procedimenti per le violazioni depenalizzate sono stati già definiti con sentenza o decreto di condanna divenuti irrevocabili, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto, "dichiarando che il fatto non é previsto dalla legge come reato" e adottando "i provvedimenti conseguenti".

Lo stesso articolo prevede poi, al comma 2, sul quale principalmente si appuntano le censure dei rimettenti, che le multe e le ammende inflitte con le sentenze o i decreti indicati al precedente comma 1 sono riscosse, insieme alle spese del procedimento, con l'osservanza delle norme sull'esecuzione delle pene pecuniarie.

2. I giudizi, avendo ad oggetto questioni analoghe o tra loro connesse, vanno riuniti per essere decisi con un'unica pronunzia.

3. I giudici dell’esecuzione del Tribunale di Catanzaro (r.o. n. 328 del 2000) e di Firenze (r.o. n. 426 e n. 427 del 2000), evocando l'art. 3 della Costituzione, lamentano l'irragionevole disparità di trattamento cui il predetto art. 101, comma 2, darebbe luogo tra il condannato a pena detentiva, nei confronti del quale la revoca del provvedimento, per intervenuta abolitio criminis, comporta l’inapplicabilità di qualsiasi sanzione, e il condannato alla sola pena pecuniaria per il medesimo titolo di reato, nei confronti del quale la pena va, comunque, posta in esecuzione, anche se la più lieve sanzione di natura monetaria é sintomatica di una condotta meno lesiva dell’interesse protetto.

Accanto a tale profilo di censura, il giudice dell'esecuzione del Tribunale di Firenze prospetta quello della disparità di trattamento fra il condannato a pena detentiva che abbia ottenuto il beneficio della conversione in pena pecuniaria e il condannato a pena detentiva ritenuto non meritevole del beneficio stesso, rilevando come soltanto il primo resti gravato dall’obbligo del pagamento della sanzione.

Il medesimo giudice denuncia, infine, sotto entrambi i profili accennati, anche l'art. 100 del predetto decreto legislativo n. 507 del 1999, il quale stabilisce che le disposizioni del decreto stesso che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.

4. La menzionata disposizione dell'art. 101, comma 2, viene sottoposta al vaglio della Corte anche dal Magistrato di sorveglianza di Macerata (r.o. n. 404 del 2000) e dal Magistrato di sorveglianza di Avellino (r.o. n. 422 del 2000), chiamati a convertire ovvero a rateizzare, ex art. 660 cod. proc. pen., la pena pecuniaria che era stata inflitta nella fattispecie portata al loro esame.

4.1.¾ Il primo di detti giudici, sul presupposto che l’art. 101, comma 2, contempli, per le sanzioni pecuniarie, "una revoca solo parziale del titolo di condanna", diversamente da quel che accadrebbe invece per le sanzioni detentive, lamenta l'irragionevole disparità di trattamento che si verrebbe così a determinare, in violazione dell'art. 3 della Costituzione, tra: a) il condannato a pena detentiva e il condannato a pena pecuniaria; b) il condannato a pena pecuniaria e il condannato a pena detentiva breve sostituita dalla libertà controllata, ai sensi della legge n. 689 del 1981; c) infine, con specifico riguardo al reato di cui all’art. 1 della legge n. 386 del 1990 (emissione di assegno senza autorizzazione), anche tra il condannato a pena detentiva e il condannato alla reclusione sostituita dalla multa.

4.2. Il secondo giudice, dal canto suo ¾ chiamato a convertire, secondo quel che risulta dall’ordinanza, una pena pecuniaria inflitta con un decreto penale risalente al 28 ottobre 1991, per il reato all'epoca previsto dall'art. 87, terzo comma, del codice della strada ¾ censura la disposizione, nella parte in cui "non esclude l’applicazione del capoverso dell’art. 660 del codice di procedura penale alle multe e alle ammende" in questione, dando così luogo, nella specifica prospettiva della conversione della pena, ad una irragionevole disparità di trattamento tra coloro che, essendo stati condannati a pena detentiva, potranno andare esenti da ogni sanzione, e coloro i quali, essendo stati, invece, condannati, in relazione alla medesima fattispecie, a pena pecuniaria, rimangono gravati non solo dall’adempimento della sanzione, ma anche dall’eventuale conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, ancorchè il fatto commesso debba reputarsi, in ragione della sanzione applicata, meno grave.

Secondo il rimettente, sarebbe violato anche l'art. 13 della Costituzione, a causa delle prescrizioni fortemente limitative della libertà personale che gravano irragionevolmente sul condannato a pena pecuniaria, a seguito della conversione della stessa in libertà controllata, nonostante che l’aggressione all’interesse protetto non possa reputarsi di gravità intollerabile.

5. Le questioni sollevate con le già ricordate ordinanze dei Magistrati di sorveglianza di Macerata e di Avellino sono da reputare, sia pure per ragioni diverse, inammissibili.

5.1. La prima delle anzidette ordinanze (r.o. n. 404 del 2000) muove dall'assunto che la permanenza dell'obbligo di corrispondere le multe e le ammende inflitte, nonostante l'abolitio criminis, consegua ad una revoca del titolo di condanna che, in caso di sanzioni pecuniarie, sarebbe solo "parziale", con ciò determinandosi una disparità di trattamento rispetto alle pene detentive, per le quali la revoca prevista dall'art. 101 sarebbe invece tale, nella sua assolutezza, da comportare il venir meno di ogni effetto della condanna.

La Corte, sulla base di quella valutazione di non implausibilità ad essa demandata in ordine alla premessa interpretativa dalla quale muove il giudice a quo, non ha motivo di discostarsi dalla ricostruzione del sistema normativo come operata dal rimettente.

Dalla stessa discende, tuttavia, che la questione, così come prospettata, si risolve nel porre in discussione portata e conseguenze del potere di revoca affidato al giudice dall'art. 101.

In questi termini, la questione investe, però, un ambito di cognizione che, secondo l'ordinamento processuale, appartiene, con tutta evidenza, al giudice dell'esecuzione ¾ al quale, infatti, la suddetta disposizione affida il compito di revocare la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non é previsto dalla legge come reato, e di adottare i provvedimenti conseguenti ¾ e non a quello di sorveglianza, sicchè la stessa non può trovare ingresso in questa sede, per difetto di rilevanza.

5.2. Quanto, poi, al dubbio di costituzionalità sollevato dal Magistrato di sorveglianza di Avellino (r.o. n. 422 del 2000), detto giudice, censurando l’art. 101, secondo comma, del decreto legislativo n. 507 del 1999, nella parte in cui non esclude l’applicazione della disciplina della conversione, di cui al capoverso dell’art. 660 cod. proc. pen., sollecita, in definitiva, una pronunzia alla quale consegua la non convertibilità delle multe o ammende di cui trattasi.

La questione, benchè astrattamente idonea a dare ingresso al giudizio di costituzionalità, in quanto rivolta a denunciare, per le sanzioni pecuniarie oggetto dell'art. 101, comma 2, la permanenza del potere, che é proprio del magistrato di sorveglianza, di procedere alla conversione di cui al comma 2 dell'art. 660 cod. proc. pen., va dichiarata, tuttavia, anch'essa inammissibile, sia pure per ragioni diverse da quelle esposte a proposito dell'ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Macerata.

A parte l'assenza di qualsiasi cenno, nella motivazione dell'ordinanza di rimessione, sulle ragioni che inducono a ritenere che la depenalizzazione della fattispecie all'esame del rimettente sia avvenuta per opera del decreto legislativo n. 507 del 1999 ¾ con ciò trascurando le vicende legislative che già in precedenza avevano riguardato la fattispecie stessa (decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 recante il "Nuovo codice della strada" e poi decreto legislativo 10 settembre 1993, n. 360 recante disposizioni correttive e integrative del medesimo codice), come si evincono anche dalla sentenza di questa Corte n. 3 del 1997 il giudice a quo afferma di ritenere, conformemente all’orientamento "già implicitamente espresso dal proprio ufficio", non suscettibili di conversione le sanzioni pecuniarie oggetto della disposizione denunciata, sì da sollevare l’incidente di costituzionalità unicamente perchè "dalla mancanza di una specifica indicazione del riferimento normativo non può farsi discendere una automatica esclusione dello stesso". Appare, dunque, evidente, dalla stessa prospettazione del giudice a quo, l'inammissibilità della questione stessa, posto che la sua proposizione, lungi dall'essere rivolta a rimuovere una disposizione reputata contraria alla Costituzione, é diretta ad ottenere un chiarimento circa la portata della norma censurata e, dunque, a perseguire una finalità che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, é del tutto estranea alla logica del giudizio di costituzionalità (ordinanza n. 54 del 1999).

6.¾ Sia pure in parte, sono da considerare inammissibili anche le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze con le due ordinanze sopra menzionate (r.o. nn. 426 e 427 del 2000), volte ad eccepire l'illegittimità costituzionale degli artt. 100 e 101 del decreto legislativo n. 507 del 1999.

La censura, avendo per oggetto le predette disposizioni "nella parte in cui dispongono il pagamento delle multe e delle ammende inflitte con sentenze o decreti irrevocabili di condanna per reati depenalizzati dal decreto legislativo n. 507 del 1999", investe, in realtà, il solo art. 101, comma 2, mentre non tocca in alcun modo il contenuto dell'art. 100, il quale, come già detto, riguarda la sorte delle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto n. 507 del 1999, che non siano state accertate con sentenza o decreto divenuti irrevocabili. Con riferimento all'art. 100, la questione va pertanto dichiarata inammissibile.

7.¾ Tanto premesso, resta da esaminare, nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 101, comma 2, siccome prospettata dai giudici dell’esecuzione dei Tribunali di Catanzaro (r.o. n. 328 del 2000) e di Firenze (r.o. nn. 426 e 427 del 2000).

La stessa é fondata.

Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione delle pene appartengono alla politica legislativa e, quindi, alla discrezionalità del legislatore. Tuttavia, anche se non spetta alla Corte rimodulare le scelte punitive, alla stessa rimane pur sempre affidato il compito di verificare, nei casi in cui venga dedotta la violazione del principio di eguaglianza, le ragioni per cui la legge operi all'interno dell'ordinamento quella distinzione (ovvero quella equiparazione) fra le situazioni poste a raffronto, traendone le debite conseguenze in punto di corretto uso del potere normativo (sentenze n. 89 del 1996, n. 5 e n. 441 del 2000).

Alla stregua di siffatto criterio di giudizio, va considerato che, nel quadro del programma di depenalizzazione perseguito con il decreto legislativo n. 507 del 1999, il legislatore, attraverso una propria valutazione discrezionale, ha individuato le fattispecie che si prestavano, alla stregua di un apprezzamento di minore gravità e disvalore, ad essere trasformate in mero illecito amministrativo. Ma una volta operate tali scelte, la disciplina del comma 2 dell'art. 101 e, in particolare, la permanenza, per coloro che siano stati condannati a pena pecuniaria, dell’esecuzione della relativa sanzione, nonostante l’avvenuta depenalizzazione, si atteggia, nel sistema, come elemento di evidente ed ingiustificabile disarmonia con il diverso trattamento riservato a coloro che siano stati condannati a pena detentiva, per i quali la disposta abolitio criminis comporta, invece, la totale cancellazione degli effetti della condanna stessa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 101, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’art. 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205);

dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 100 del decreto legislativo n. 507 del 1999, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Empoli, con le ordinanze in epigrafe;

dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art 101, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Macerata, con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 101, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Avellino, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2001.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2001.