Ordinanza n. 48

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ORDINANZA N. 48

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7, del regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), promosso con ordinanza emessa l’11 maggio 1999 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Bigoni Maria Anna contro la Regione Emilia–Romagna ed altri, iscritta al n. 685 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di costituzione di Bigoni Maria Anna;

udito nell’udienza pubblica del 23 gennaio 2001 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto che nel corso di un giudizio promosso per l’annullamento di una delibera del Comitato regionale di controllo per la Regione Emilia–Romagna il Consiglio di Stato, con ordinanza del 13 maggio 1996, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, alinea n. 7, del regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione;

che in quella sede il giudice rimettente osservava che la norma impugnata, nell’impedire con rigido automatismo l’accesso al pubblico impiego (comunale) a coloro i quali fossero stati condannati per determinati reati, appariva irragionevole, e ciò sulla base della giurisprudenza costituzionale che, a partire dalla sentenza n. 971 del 1988, aveva dichiarato l’illegittimità della c.d. destituzione di diritto, disposta, cioé, sulla base della semplice condanna penale e senza lo svolgimento di un procedimento disciplinare;

che questa Corte, con sentenza n. 249 del 1997, dichiarava non fondata la predetta questione, sul rilievo preminente che non fosse possibile istituire un paragone tra le cause di cessazione dall’impiego e quelle che, invece, sono ostative all’assunzione;

che il Consiglio di Stato, tuttavia, nel corso del medesimo giudizio di appello pendente tra le medesime parti, é tornato a sollevare questione di legittimità costituzionale della stessa norma di cui in precedenza, sempre in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione;

che nell’odierna ordinanza di rimessione il giudice a quo, nel riepilogare i termini di fatto della questione, ricorda che, nel caso specifico, si tratta della vincitrice di un concorso pubblico che, presentando la relativa domanda, non aveva dichiarato di avere un precedente penale per il reato di emissione di assegni a vuoto; bloccata provvisoriamente la nomina, la candidata era stata processata e condannata anche per il delitto di cui all’art. 496 cod. pen. (false dichiarazioni su qualità personali), dopo di che il Comune aveva ritenuto di procedere ugualmente alla nomina, annullata poi dal Comitato regionale di controllo;

che il Consiglio di Stato, nel riproporre la questione, osserva che l’art. 8, alinea n. 7, del r.d. n. 383 del 1934 appare in contrasto con gli invocati parametri in quanto, precludendo l’accesso agli uffici pubblici, fra gli altri, ai condannati per i delitti contro la fede pubblica, fa riferimento ad una "vastissima e proteiforme categoria di reati", il cui grado di offensività non é omogeneo;

che nel caso specifico la ricorrente é stata condannata in entrambe le occasioni ad una modesta pena pecuniaria, a fronte della quale – secondo il rimettente – appare sproporzionata la sanzione comminata dalla norma in oggetto, con la prospettazione quindi di un primo dubbio di legittimità costituzionale, nella irragionevolezza della scelta legislativa di tanta indiscriminata ampiezza;

che il Consiglio di Stato ravvisa anche un ulteriore motivo di censura, emergente dal raffronto tra la norma impugnata e quella concernente il pubblico impiego statale;

che per quest’ultima categoria, infatti, il d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, prevedeva soltanto l’ipotesi della destituzione di diritto (art. 85), mentre il testo unico n. 383 del 1934 sull’impiego comunale distingueva i casi di impedimento all’assunzione (art. 8) da quelli di destituzione di diritto (art. 247), sicchè, mentre per l’impiego statale il venir meno di quest’ultima sanzione (a seguito della sentenza n. 971 del 1988 di questa Corte) ha comportato anche, in via interpretativa, il travolgimento della "speculare disciplina" relativa alle condizioni ostative all’accesso, per l’impiego comunale la norma oggi impugnata é rimasta formalmente e sostanzialmente operante fino alla data della sua abrogazione, disposta dall’art. 64 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali);

che da tale diversità di trattamento deriva, ad avviso del rimettente, un’evidente violazione del principio di eguaglianza;

che in punto di rilevanza della presente questione, infine, il Consiglio di Stato si limita a ribadire che la norma impugnata, pur essendo stata abrogata, dev’essere applicata nel giudizio pendente, trattandosi di fatti anteriori al 1990;

che si é costituita in giudizio la parte privata ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della presente questione.

Considerato che il Consiglio di Stato torna a proporre la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, alinea n. 7, del regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione;

che detta questione é stata già sollevata e dichiarata non fondata da questa Corte, con la sentenza n. 249 del 1997, nell’ambito del medesimo grado di giudizio pendente tra le stesse parti;

che essa, pertanto, pur ponendo all’esame della Corte alcuni aspetti non esattamente coincidenti con quelli decisi a suo tempo, si presenta, nella sostanza, come la riproposizione della medesima questione;

che al giudice a quo é precluso, per costante giurisprudenza (v. fra le altre, le sentenze n. 215 e n. 12 del 1998), rimettere – sia pure con ulteriori argomenti – una seconda volta alla Corte, nel corso dello stesso grado di giudizio pendente tra le parti, una questione concernente la medesima norma di legge in riferimento ad identici parametri costituzionali, giacchè tale ulteriore rimessione, comportando un bis in idem, si risolverebbe in un’inammissibile impugnazione della precedente pronuncia di merito;

che la presente questione, non potendo definirsi nuova, dev’essere dichiarata manifestamente inammissibile.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, alinea n. 7, del regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l’ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2001.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente e Redattore

Depositata in cancelleria il 6 marzo 2001.