Sentenza n. 497/2000

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SENTENZA N. 497

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), promossi con tre ordinanze emesse il 18 febbraio 2000 dal Consiglio superiore della magistratura, sezione disciplinare, rispettivamente iscritte ai nn. 153, 154 e 155 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di costituzione del magistrato incolpato, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 settembre 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;

udito l’Avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. — Nel corso di tre procedimenti disciplinari a carico dello stesso magistrato, il Consiglio superiore della magistratura, sezione disciplinare, ha sollevato, con tre identiche ordinanze emesse tutte il 18 febbraio 2000, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), “nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere, per la propria difesa, da un avvocato del libero Foro”.

Nelle ordinanze di rimessione si premette che l’incolpato ha dichiarato di non volersi avvalere della difesa di un magistrato, intendendo farsi assistere da un libero professionista, sicché, non potendo, in questa situazione, procedersi alla nomina di un difensore d’ufficio, non gli resterebbe che ricorrere all’autodifesa.

Secondo la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, la questione sarebbe quindi rilevante e non sarebbe ancora stata portata al vaglio di questa Corte, in quanto con la sentenza n. 220 del 1994 è stata dichiarata inammissibile analoga questione per difetto di rilevanza nel giudizio nel cui ambito il problema era stato sollevato, e, con la successiva sentenza n. 119 del 1995, è stato affrontato il diverso problema dell’autodifesa del magistrato nel procedimento disciplinare.

Ad avviso del remittente, l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, delineerebbe una nozione ampia del diritto di difesa, che si estenderebbe anche alla garanzia dell’assistenza tecnica. Alla luce di questa interpretazione, sarebbe del tutto naturale fare riferimento allo strumento specificamente preposto a tale scopo, e cioè, in primo luogo, alla difesa assicurata da un avvocato. In tale contesto, tenuto anche conto dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, che garantisce il diritto alla scelta di un difensore, potrebbe fondatamente dubitarsi che il divieto posto dall’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo. n. 511 del 1946 – norma che rifletterebbe un assetto precostituzionale – sia compatibile con il pieno esercizio del diritto di difesa costituzionalmente sancito.

La sezione disciplinare – pur ricordando che, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’art. 24 della Costituzione non preclude che la disciplina legislativa del diritto di difesa si conformi alle speciali caratteristiche dei singoli procedimenti e che “l’intera vicenda disciplinare riflette il proprium dell’ordine giudiziario” (sentenza n. 220 del 1994) – osserva che la peculiarità del procedimento disciplinare a carico dei magistrati non esclude che, nel suo ambito, l’esercizio del diritto di difesa debba esplicarsi con la stessa ampiezza riconosciuta dall’ordinamento in altri settori della giurisdizione.

Il remittente rileva ancora che, se è vero che le norme del codice di procedura penale si applicano al procedimento disciplinare solo in via integrativa per effetto degli artt. 32 e 34 del regio decreto legislativo n. 511 del 1946 (sentenza n. 119 del 1995), non sarebbe in ogni caso ragionevole una limitazione del diritto di difesa tale da escludere che l’incolpato, nel suo libero diritto di scelta, possa avvalersi, ove lo ritenga più opportuno, dell’assistenza di un libero professionista.

In questa prospettiva la disposizione censurata sarebbe in contrasto non solo con l’art. 24, ma anche con l’art. 3 della Costituzione, in quanto introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto al modo in cui può esplicarsi in sede giurisdizionale il diritto di difesa di ogni cittadino.

2. — Nel giudizio relativo ad una delle ordinanze di rimessione (R.O. n. 153 del 2000) si è costituito, a mezzo del suo difensore munito di procura speciale, il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare e ha chiesto che la questione venga accolta.

Ad ulteriore conforto dell’inesistenza di un interesse, più o meno pubblico, che precluda ai magistrati incolpati la difesa col ricorso all’assistenza di un avvocato libero professionista, la parte privata ricorda che, in virtù della modifica apportata all’art. 6 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), dall’art. 1 della legge 12 aprile 1990, n. 74 (Modifica alle norme sul sistema elettorale e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), davanti alla sezione disciplinare il dibattito si svolge in pubblica udienza. Conseguentemente, a suo avviso, non si potrebbe neppure sostenere che esistano esigenze di “segretezza” della procedura disciplinare, tali da giustificare la scelta, operata dal legislatore del 1946, di precludere al magistrato la facoltà di farsi assistere da un avvocato del libero Foro.

3. — Nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata “inammissibile e comunque infondata”.

L’Avvocatura ritiene che, con la sentenza n. 119 del 1995, questa Corte sia già pervenuta alla conclusione che l’attuale disciplina della difesa del magistrato nel procedimento disciplinare (le cui peculiarità e finalità non consentirebbero la comparazione con il processo penale) dia adeguata attuazione all’art. 24 della Costituzione. Il magistrato incolpato potrebbe, infatti, scegliere tra autodifesa e difesa da parte di un collega e la sezione disciplinare potrebbe nominargli d’ufficio un magistrato difensore quando, pur avendo scelto di farsi assistere da un collega, non sia riuscito a reperirne uno.

L’Avvocatura rileva che la disciplina delle garanzie difensive apparterrebbe alla discrezionalità del legislatore, al quale soltanto spetterebbe valutare le speciali caratteristiche dei singoli procedimenti. In proposito richiama la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, pur sussistendo una matrice comune nel procedimento a carico dei dipendenti pubblici e in quello a carico dei magistrati, dovendosi in entrambi i casi assicurare l’interesse pubblico al buon andamento e all’imparzialità delle funzioni statali da bilanciarsi con i diritti dei singoli, per i magistrati i due termini del bilanciamento assumono una connotazione ulteriore: da un lato, l’interesse pubblico in gioco riguarda il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale (assistito dalla speciale garanzia di indipendenza e autonomia); dall’altro, la tutela del singolo va commisurata alla salvaguardia del dovere di imparzialità e della connessa esigenza di credibilità collegata all’esercizio della funzione giurisdizionale (sentenza n. 119 del 1995).

Secondo la difesa dello Stato, proprio le particolari caratteristiche del procedimento disciplinare in esame escluderebbero altresì la violazione dell’art. 3 della Costituzione. Il principio di eguaglianza non sarebbe, infatti, applicabile quando si tratti di situazioni che, pur derivando da basi comuni, differiscano tra loro per aspetti particolari, ma quando vi sia omogeneità di situazioni da regolare legislativamente in modo uniforme e coerente. Conseguentemente, la discrezionalità del legislatore nel regolamentare due distinte fattispecie troverebbe l’unico limite nella razionalità della diversa disciplina, razionalità che, nel caso in esame, non potrebbe essere negata, attese le peculiarità degli interessi coinvolti nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati.

Considerato in diritto

1. — La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con tre identiche ordinanze in pari data, dubita, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), “nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere, per la propria difesa, da un avvocato del libero Foro”.

Ad avviso del remittente, la disposizione censurata, che rifletterebbe un assetto precostituzionale, non sarebbe compatibile con l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, il quale delineerebbe una nozione ampia del diritto di difesa, che si estenderebbe alla garanzia dell’assistenza tecnica, sicché, anche alla luce dell’art. 6 della convenzione dei diritti dell’uomo, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, sarebbe del tutto naturale fare riferimento allo strumento specificamente preposto a tale scopo, e cioè alla difesa assicurata da un avvocato.

La sezione disciplinare rileva inoltre che le peculiarità del procedimento disciplinare a carico dei magistrati non escluderebbero che, nel suo ambito, l’esercizio del diritto di difesa debba esplicarsi con la stessa ampiezza riconosciuta dall’ordinamento in altri settori della giurisdizione. In questa prospettiva, il divieto contenuto nell’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo n. 511 del 1946 si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 della Costituzione, per la irragionevole limitazione del diritto di difesa e per la ingiustificata disparità di trattamento rispetto al modo in cui può esplicarsi in sede giurisdizionale il diritto di difesa di ogni cittadino.

2. — I giudizi vanno riuniti in considerazione dell’identità delle questioni proposte con le tre ordinanze di rimessione.

3. — Il tema della difesa del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare è già venuto, nei medesimi termini, all’attenzione di questa Corte, che però non ha potuto affrontarlo nel merito. Nella fattispecie a cui si riferiva la sentenza n. 220 del 1994 si trattava di un incolpato che aveva optato per la difesa da parte di un magistrato, non riuscendo tuttavia a reperire un collega disposto ad assisterlo; sicché la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del regio decreto legislativo n. 511 del 1946, nella parte in cui non consente la nomina di un difensore del libero Foro, era, in quel caso, irrilevante ed è stata perciò dichiarata inammissibile. Nella vicenda dalla quale prende le mosse l’attuale giudizio di costituzionalità si tratta, invece, di un magistrato che, incolpato in tre distinti procedimenti disciplinari, ha dichiarato di non volersi avvalere della difesa di un collega ma di quella di un libero professionista. La questione è pertanto indubbiamente rilevante e deve essere scrutinata nel merito.

4. — La questione è fondata.

Le ragioni che hanno indotto il legislatore a configurare il procedimento disciplinare per i magistrati secondo paradigmi di carattere giurisdizionale sono state più volte esaminate da questa Corte: da un lato l’opportunità che l’interesse pubblico al regolare e corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie e lo stesso prestigio dell’ordine giudiziario siano tutelati nelle forme più confacenti alla posizione costituzionale della magistratura e al suo statuto di indipendenza; dall’altro l’esigenza che alla persona del magistrato raggiunto da incolpazione disciplinare sia riconosciuto quell’insieme di garanzie che solo la giurisdizione può assicurare (cfr. sentenze nn. 71 del 1995, 289 del 1992 e 145 del 1976).

Ora, riconoscere al magistrato la facoltà di farsi assistere da un difensore del libero Foro, anziché imporgli, quale opzione esclusiva, un difensore “interno” appartenente all’ordine giudiziario, significa trarre alle loro naturali conseguenze le finalità di rango costituzionale sottese alla giurisdizionalizzazione della responsabilità disciplinare.

5. — La premessa teorica dalla quale occorre procedere è che il regolare e corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie e il prestigio della magistratura investono il momento della concretizzazione dell’ordinamento attraverso la giurisdizione, vale a dire l’applicazione imparziale e indipendente della legge. Si tratta perciò di beni i quali, affidati alle cure del Consiglio superiore della magistratura, non riguardano soltanto l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartengono alla generalità dei soggetti e, come del resto la stessa indipendenza della magistratura, costituiscono presidio dei diritti dei cittadini.

All’inquadramento concettuale della responsabilità disciplinare secondo logiche corrispondenti all’autentico significato che l’indipendenza della magistratura assume nel sistema costituzionale (come garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini), si è pervenuti attraverso un ampio dibattito, che ha visto impegnata anche la magistratura in molte delle sue componenti e che ha propiziato l’abbandono di schemi obsoleti, ereditati dalla legislazione anteriore e ancora attivi dopo l’entrata in vigore della Costituzione, imperniati sull’idea, che rimandava ad antichi pregiudizi corporativi, secondo cui la miglior tutela del prestigio dell’ordine giudiziario era racchiusa nel carattere di riservatezza del procedimento disciplinare. Il punto di arrivo di un tale percorso, politico-istituzionale e culturale ad un tempo, è individuabile nella regola della pubblicità delle udienze disciplinari, anticipata in via di prassi nella giurisprudenza ispirata ai principî risultanti dall’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, e formalizzata, oggi, nell’art. 1 della legge 12 aprile 1990, n. 74. In tale regola si manifesta con un massimo di evidenza il totale rovesciamento di quei vecchi schemi ricostruttivi ed emerge nitidamente la stretta correlazione tra la nozione di prestigio dell’ordine giudiziario e la credibilità dell’esercizio delle funzioni giudiziarie presso la pubblica opinione, intesa ovviamente in senso pluralistico nel suo articolarsi in modi di vedere non necessariamente uniformi. Una nozione, quindi, che postula non la segretezza del procedimento disciplinare ma la trasparenza, valore portante di ogni sistema autenticamente democratico, i cui caratteri sono destinati a riflettersi sulla stessa difesa del magistrato, che non può, a sua volta, non conformarsi alla funzione propria della responsabilità disciplinare e alla sua vocazione a oltrepassare la ristretta cerchia di un corpo professionale organizzato.

Nel mutato contesto che si è venuto dischiudendo, segnato da una crescente consapevolezza dell’ineliminabile compenetrazione dei principî costituzionali sulla magistratura con quelli di pubblicità e trasparenza delle funzioni pubbliche, la regola contenuta nella citata legge sulle guarentigie, secondo cui l’incolpato può farsi assistere da un collega, permane, né è rinvenibile alcuna ragione per la quale essa debba venire rimossa. Tuttavia tale regola dismette la sua originaria caratterizzazione corporativa ed assume una ratio diversa, che può essere così esplicitata: la scelta dell’incolpato cade su un collega non in quanto appartenente ad una presunta corporazione di soggetti interessati alla tutela del prestigio dell’ordine giudiziario, ma in quanto ritenuto in possesso dell’idoneità tecnica per assumere una siffatta difesa. Se però la validità della scelta legislativa deve essere misurata sul piano dell’idoneità tecnica del difensore, allora restano prive di qualunque fondamento giustificativo la limitazione ai soli magistrati della sfera dei soggetti legittimati a svolgere l’ufficio difensivo e la conseguente esclusione degli avvocati del libero Foro, ai quali, a causa del loro specifico statuto professionale, l’attitudine a difendere non può essere disconosciuta.

6. — Tutto ciò appare evidente se si assume a criterio di valutazione l’interesse pubblico al corretto e regolare svolgimento delle funzioni giurisdizionali e al prestigio dell’ordine giudiziario. Se poi ci si colloca nella prospettiva della persona incolpata e del suo diritto di difesa, è egualmente chiaro che la pienezza della tutela giurisdizionale non può trovare in tale interesse pubblico un controvalore con il quale debba essere bilanciata. Al contrario, tale tutela è anche funzionale alla migliore e più efficace realizzazione di quell’interesse. Il massimo di incisività delle garanzie accordate al magistrato sottoposto a procedimento disciplinare, infatti, non può che convertirsi in una altrettanto incisiva tutela del prestigio dell’ordine giudiziario e del corretto e regolare svolgimento delle funzioni giudiziarie. Ebbene, proprio dal punto di vista del singolo incolpato, il procedimento di cui è questione, come tutti i procedimenti disciplinari potenzialmente incidenti sullo status professionale, tocca la posizione del soggetto nella vita lavorativa e coinvolge quindi beni della persona che già richiedono, di per sé, le garanzie più efficaci. Ma con riferimento ai magistrati l’esigenza di una massima espansione delle garanzie difensive si fa, se possibile, ancora più stringente, poiché nel patrimonio di beni compresi nel loro status professionale vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura. E’ anzi, questo, uno dei punti nevralgici dell’insieme dei rapporti che fanno capo al magistrato incolpato: davanti alla sezione disciplinare, tanto più se si tiene conto della mancata tipizzazione legislativa degli illeciti, il diritto di difesa, a partire dalla prima delle facoltà che esso racchiude, quella della scelta del difensore, deve essere configurato in modo che nello stesso incolpato e nella pubblica opinione in nessun caso possa ingenerarsi il sospetto, anche il più remoto, che il procedimento disciplinare si trasformi in uno strumento per reprimere convincimenti sgraditi o per condizionare l’esercizio indipendente delle funzioni giudiziarie.

Vi è quindi stretta correlazione tra l’indipendenza del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare e la facoltà di scelta del difensore da lui ritenuto più adatto, sicché limitare quest’ultima facoltà significa in definitiva menomare in parte anche il valore dell’indipendenza. Spetterà semmai al magistrato, in relazione alla singola vicenda disciplinare, decidere se sia più conveniente l’assistenza di un collega ovvero quella di un difensore esterno, che potrebbe essere reputato più efficiente anche eventualmente in considerazione della sua posizione di estraneità all’ordine giudiziario e del suo non essere soggetto ad alcuno dei poteri del Consiglio superiore della magistratura.

7. — A riprova dell’incongruenza della disciplina può ulteriormente osservarsi che, permanendo il censurato art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo n. 511 del 1946, l’incolpato deve obbligatoriamente servirsi di un avvocato iscritto all’albo speciale per il patrocinio innanzi alle magistrature superiori nell’eventuale successivo giudizio davanti alle sezioni unite della Cassazione, e che, in caso di accoglimento del suo ricorso con rinvio alla sezione disciplinare, egli dovrebbe necessariamente tornare all’autodifesa o all’assistenza di un collega, con un dispendio di energie difensive del quale non è ravvisabile alcun fondamento giustificativo.

Se dunque si ha riguardo all’insieme dei profili connessi alla questione di costituzionalità, la conclusione è che, nel procedimento davanti alla sezione disciplinare, la difesa del magistrato deve potersi dispiegare nella sua pienezza, la quale non può dirsi raggiunta se al magistrato è negata la possibilità di avvalersi dell’apporto difensivo di un avvocato del libero Foro.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere da un avvocato.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria il 16 novembre 2000.