Sentenza n. 408/2000

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SENTENZA N. 408

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI   

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI         

- Cesare RUPERTO    

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 11 della legge 10 maggio 1938, n. 745 (Ordinamento dei Monti di credito su pegno) e 47 del regio decreto 25 maggio 1939, n. 1279 (Attuazione della legge 10 maggio 1938, n. 745 sull’ordinamento dei Monti di credito su pegno), promosso con ordinanza emessa il 18 maggio 1999 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Torino nel procedimento penale a carico di Dragutinovic Veselin, iscritta al n. 719 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2000 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto in fatto

1.— Nell’ambito di un procedimento penale per i reati di ricettazione e di falsità materiale (artt. 648 e 482 cod. pen.), a carico di un soggetto che aveva dato in pegno vari monili ed altri beni presso il Monte dei pegni di Torino, il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, degli artt. 11 della legge 10 maggio 1938, n. 745 (Ordinamento dei Monti di credito su pegno) e 47 del regio decreto 25 maggio 1939, n. 1279 (Attuazione della legge 10 maggio 1938, n. 745 sull’ordinamento dei Monti di credito su pegno), che vietano all’autorità giudiziaria di ordinare la restituzione delle cose smarrite, rubate o provenienti da reato, costituite in pegno presso un Monte, se il proprietario non fornisce la prova di aver rimborsato al Monte stesso la somma data in prestito, con gli interessi e gli eventuali diritti accessori.

Secondo il giudice per le indagini preliminari la questione é rilevante nel giudizio a quo in quanto, ai sensi delle norme impugnate, non potrebbe ordinarsi la restituzione ad una delle persone offese dal reato di un anello in oro sottrattole e collocato dall’indagato al Monte dei pegni.

Inoltre, la questione non sarebbe manifestamente infondata, poichè le norme impugnate riserverebbero un ingiustificato privilegio ai Monti dei pegni rispetto ad altri terzi possessori di beni mobili, "in particolare in confronto a coloro che detengono un bene a titolo di garanzia". Diversamente dai Monti dei pegni, alla generalità di detti terzi l’autorità giudiziaria potrebbe sottrarre il bene, restituendolo al legittimo proprietario, se ritenga che abbiano agito non in buona fede o anche solo senza la normale diligenza nell’accertamento dell’origine del bene.

Nel caso di specie, secondo il giudice per le indagini preliminari, il Monte dei pegni di Torino non si sarebbe comportato con diligenza, ed anzi avrebbe violato anche l’art. 38 del r.d. n. 1279 del 1939 (che gli consentiva di rifiutare la concessione del prestito qualora avesse avuto fondato motivo di ritenere che le cose offerte in pegno fossero di illegittima provenienza), in quanto avrebbe ritirato da persona – quanto meno all’apparenza – non facoltosa un rilevante numero di monili che, per le loro caratteristiche, si potevano fondatamente sospettare di provenienza delittuosa.

Il giudice a quo sostiene, inoltre, che il privilegio concesso ai Monti dei pegni colliderebbe con qualsiasi principio di razionalità, anche perchè tali istituti non sarebbero vincolati ad un particolare facere oneroso, nè sarebbero tenuti a ricevere in ogni caso il bene, nè infine rischierebbero di perdere somme rilevanti, dato che l’art. 39 del citato r.d. n. 1279 stabilisce il tetto massimo, e non quello minimo, del rapporto tra il valore del bene impegnato e l’entità del prestito concesso.

2.— E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

La difesa erariale richiama la precedente decisione della Corte costituzionale avente ad oggetto le stesse norme oggi impugnate, sia pure in riferimento al diverso parametro dell’art. 42 Cost. (sentenza n. 702 del 1988), nella quale si affermava che dette norme prevedono un caso di affidamento incolpevole e si presentano come applicazione specifica della generale disciplina di cui all’art. 1153, terzo comma, del codice civile, secondo cui "il possesso in buona fede vale titolo". In tale pronuncia, secondo l’Avvocatura, si richiamava l’innovazione introdotta dal codice civile del 1942 rispetto a quello del 1865, che ha fatto venir meno la distinzione tra perdita volontaria e perdita involontaria del possesso di un bene.

Non sussisterebbe, quindi, la dedotta disparità di trattamento rispetto alle altre forme di garanzia reale.

Per quanto riguarda, poi, la denunciata scarsa diligenza dell’istituto creditizio che, nel caso specifico, avrebbe concesso il prestito su pegno a persona non affidabile, non verrebbe in considerazione la disparità di trattamento con situazioni simili, ma si verterebbe in un caso di responsabilità civile sia contrattuale che extracontrattuale.

Considerato in diritto

1.— Il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, degli articoli 11 della legge 10 maggio 1938, n. 745 (Ordinamento dei Monti di credito su pegno) e 47 del regio decreto 25 maggio 1939, n. 1279 (Attuazione della legge 10 maggio 1938, n. 745 sull’ordinamento dei Monti di credito su pegno), che vietano all’autorità giudiziaria di ordinare la restituzione delle cose smarrite, rubate o provenienti da reato, costituite in pegno presso un Monte, se il proprietario non fornisce la prova di aver rimborsato al Monte stesso la somma data in prestito, con gli interessi e gli eventuali diritti accessori.

Il giudice a quo ritiene che tale previsione riservi ai Monti di credito su pegno un ingiustificato privilegio, nella ipotesi in cui gli organi dell’istituto di credito abbiano agito senza la normale diligenza nel valutare se le cose offerte in pegno fossero di illegittima provenienza.

La questione é infondata nei termini di seguito precisati.

2.— La legge n. 745 del 1938 ed il r.d. n. 1279 del 1939 stabiliscono una disciplina speciale di favore per i Monti e gli altri istituti che effettuano crediti su pegno, al fine di consentire loro di concedere prestiti di importo anche minimo, a miti condizioni, alle persone che si trovino in difficoltà economica e non possano fornire le ordinarie garanzie patrimoniali richieste dalle aziende di credito.

Così il prestito non può eccedere i due terzi del valore di stima del bene impegnato (o i quattro quinti, in caso di preziosi): tale valore é fissato da un perito, "il quale deve garantire all’ente mutuante, in caso di vendita all’asta della cosa costituita in pegno, l’integrale recupero dell’importo del prestito e dei relativi interessi ed accessori" (art. 12 della legge n. 745 e art. 39 del r.d. n. 1279, citati), per cui, se non vi sono offerte adeguate, la cosa é aggiudicata al perito medesimo, per l’importo da lui stimato. Inoltre si limita la responsabilità del Monte in caso di perdita del bene ed é vietato far valere preventivamente nei suoi confronti eventuali pretese sulle cose impegnate, da chiunque avanzate, che potranno indirizzarsi unicamente sull’eccedenza che dovesse conseguire alla vendita all’asta dei beni stessi.

In questo quadro di garanzie per l’istituto si collocano le norme impugnate, che, come detto, impediscono all’autorità giudiziaria di ordinare la restituzione delle cose smarrite, rubate o provenienti da reato, costituite in pegno, se il proprietario non fornisce la prova di aver rimborsato al Monte stesso la somma data in prestito, con gli interessi e gli eventuali diritti accessori.

3.— Tale ultima previsione é già stata impugnata davanti a questa Corte, ma con riferimento al diverso parametro dell’art. 42 della Costituzione.

Nel dichiarare infondata la questione allora sollevata, la sentenza n. 702 del 1988 ha precisato che, mentre nell’ordinamento del codice civile del 1865 le norme denunziate (già stabilite dalla legge n. 169 del 1898 e dal r.d. n. 185 del 1899) avevano carattere eccezionale, in quello del nuovo codice – che ha soppresso la distinzione tra perdita volontaria ed involontaria del possesso da parte del rivendicante ed ha ammesso la tutela immediata della buona fede del terzo anche nel caso di provenienza delle cose da furto (salvo l’art. 1154) – tali norme sono divenute una applicazione specifica della regola generale (fissata dall’art. 1153, terzo comma, cod. civ.) secondo cui il "possesso in buona fede vale titolo".

Pertanto, nel conflitto tra l’interesse individuale del proprietario e l’interesse collettivo alla sicurezza del commercio mobiliare prevale il secondo, in ragione della tutela dell’affidamento incolpevole dei terzi acquirenti: ciò sia in caso di pegno ordinario, sia in caso di credito pignoratizio concesso da un istituto abilitato. Infatti – soggiunge la citata sentenza – "il Monte di Pietà che, nell’esercizio della sua attività istituzionale di prestito su pegno, riceve in buona fede cose mobili altrui a titolo di garanzia reale, acquista il diritto di pegno e, con esso, le facoltà previste dagli artt. 2794 e 2796 cod. civ.".

4.— Questa complessiva disciplina deve tuttavia operare entro limiti ben precisi, convertendosi altrimenti in un privilegio ingiustificato a favore di alcuni operatori economici: tanto più che l’evoluzione normativa ha portato a sopprimere la peculiare figura dei Monti dei pegni (ad opera dell’art. 161 del testo unico delle leggi in materia creditizia, di cui al d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, che ha abrogato tutte le disposizioni previgenti relative a tali istituti, salvo quelle regolanti l’operazione di prestito e quindi anche le norme in questa sede impugnate) ed a consentire a qualunque azienda bancaria di esercitare il credito su pegno, parallelamente alle altre attività (art. 48).

Tra i limiti in esame vanno innanzitutto annoverati quelli previsti da norme penali, nel caso in cui gli operatori del Monte si rendano colpevoli dei reati di ricettazione o di incauto acquisto. A tal proposito, occorre anche rilevare la tendenza legislativa ad accrescere i possibili controlli dell’autorità giudiziaria sull’attività di prestito su pegno: in particolare, la legge 4 febbraio 1977, n. 20 ha abolito l’anonimato che tradizionalmente contrassegnava i prestiti su pegno, prescrivendo l’annotazione in un apposito registro, esaminabile da parte degli agenti di polizia giudiziaria a ciò delegati dal giudice, di tutti gli elementi dell’operazione (generalità e domicilio del cliente, estremi del documento di identificazione, data dell’operazione, descrizione dettagliata degli oggetti ricevuti in pegno, numero della polizza).

5.— Inoltre, i diritti sanciti dalle norme impugnate non possono essere attribuiti agli istituti creditizi che esercitano il prestito su pegno nel caso in cui risultino, a carico dei loro operatori, comprovati elementi di dolo o di colpa. Ciò é ravvisabile anche quando essi agiscano con accertata violazione della diligenza richiesta non solo – come a qualunque altro possessore – dalle norme civili e penali, ma specificamente dall’art. 38 del r.d. n. 1279 del 1939, in base al quale "i Monti possono sempre rifiutare la concessione di prestiti quando hanno fondato motivo di ritenere che le cose offerte in pegno sono di illegittima provenienza".

Diversamente opinando, si dovrebbe affermare che, nel caso specifico, l’ordinamento configura come assoluta la presunzione di buona fede prevista dall’art. 1147, terzo comma, cod. civ.: soluzione invece esclusa, sia dalla lettura dei principi in materia di possesso, sia dalla necessità di scegliere, fra più interpretazioni possibili, quella conforme alla Costituzione.

Così interpretata, la disciplina censurata consente alla autorità giudiziaria penale di provvedere alla restituzione del bene impegnato, eventualmente rimettendo, ai sensi dell’art. 263, terzo comma, cod. proc. pen., al giudice civile la risoluzione della "controversia sulla proprietà delle cose sequestrate".

Pertanto le norme impugnate, se correttamente interpretate, sfuggono alla sollevata censura di legittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 11 della legge 10 maggio 1938, n. 745 (Ordinamento dei Monti di credito su pegno) e 47 del regio decreto 25 maggio 1939, n. 1279 (Attuazione della legge 10 maggio 1938, n. 745 sull’ordinamento dei Monti di credito su pegno), in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sollevata dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Torino, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

Depositata in cancelleria il 31 luglio 2000.