Sentenza n. 360/2000

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SENTENZA N. 360

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, secondo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), promosso con ordinanza emessa il 10 febbraio 1999 dal Pretore di Modena nel procedimento civile vertente tra Patierno Rosaria e l’INPS, iscritta al n. 323 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 1999.

 Visto l’atto di costituzione dell’INPS;

 udito nell’udienza pubblica del 6 giugno 2000 il Giudice relatore Fernanda Contri;

 udito l’avv. Vincenzo Cerioni per l’INPS.

Ritenuto in fatto

1. - Il Pretore di Modena, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza emessa il 10 febbraio 1999, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, secondo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), nella parte in cui non prevede l’applicabilità alle lavoratrici a domicilio dell’art. 5 della medesima legge.

Il rimettente osserva, in ordine alla rilevanza della questione, che l’art. 1 della legge n. 1204 del 1971 dispone l’applicabilità alle lavoratrici a domicilio solo degli artt. 2, 4, 6 e 9 ma non dell’art. 5, il quale disciplina l’interdizione anticipata dal lavoro, con la conseguenza che la domanda della ricorrente, diretta al riconoscimento dell’indennità di maternità nel detto periodo, non potrebbe essere accolta, anche perché le indicate disposizioni non sono state abrogate dall’art. 9 della legge n. 877 del 1973 (Nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio), che si è limitato ad estendere l’applicazione a tale categoria di lavoratori delle norme vigenti in tema di assicurazioni sociali e di assegni familiari.

Ad avviso del giudice a quo, la inapplicabilità alle lavoratrici a domicilio delle disposizioni relative all’interdizione anticipata appare del tutto ingiustificata, in quanto la specialità di tale rapporto di lavoro non è ragione sufficiente per motivare il diverso trattamento previsto per detta categoria rispetto a quello delle lavoratrici subordinate; e ciò soprattutto ove si consideri che nella previsione di cui alla lettera a) dell’art. 5, ricorrente nella fattispecie, l’interdizione anticipata può disporsi anche quando l’attività lavorativa non si svolga all’interno dell’impresa.

Il giudice rimettente afferma inoltre che la norma in esame confligge con i principi costituzionali di tutela della maternità, di cui agli artt. 31 e 37 della Costituzione, non consentendo l’attuazione della speciale protezione espressamente prevista per la lavoratrice madre e per il bambino.

2. - Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituito soltanto l’Istituto nazionale della previdenza sociale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

Osserva anzitutto il predetto istituto che difettando, per mancata previsione legislativa, il diritto all’astensione anticipata della lavoratrice a domicilio, non poteva conseguentemente ipotizzarsi il diritto all’indennità per maternità in relazione a periodi diversi da quelli indicati dall’art. 4 della medesima legge n. 1204 del 1971, né la corresponsione dell’indennità, ai sensi del secondo comma dell’art. 17, in quanto nella specie erano decorsi più di sessanta giorni tra la cessazione del rapporto di lavoro e l’inizio del periodo di astensione obbligatoria.

La parte costituita sottolinea, in particolare, come le caratteristiche del rapporto di lavoro a domicilio - e precisamente l’assenza di subordinazione giuridica, nel significato di cui all’art. 2094 del codice civile, ma non di subordinazione tecnica, e l’ampia libertà organizzativa nell’esecuzione dell’opera commissionata - siano tali da giustificare la diversità di trattamento, ai fini in esame, di tali lavoratrici rispetto a quelle che svolgono lavoro subordinato.

Nelle indicate caratteristiche e nella circostanza che il lavoratore a domicilio non è soggetto ai ritmi, né alle esigenze di produttività del lavoro svolto all’interno dell’azienda, né, infine, ai rischi connessi al raggiungimento del luogo di lavoro, deve individuarsi, ad avviso della detta parte, la ragione della diversa disciplina dettata dal legislatore.

Alle lavoratrici a domicilio è comunque applicabile l’art. 4 della legge n. 1204 del 1971, che, al secondo comma, consente l’anticipazione dell’astensione obbligatoria a tre mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli, e tale disposizione è diretta a soddisfare, sia pure in limiti temporali più ristretti, le medesime esigenze di tutela di cui alla lettera a) dell’art. 5.

L’Inps, infine, oltre a sottolineare la incompatibilità delle previsioni contenute nelle lettere b) e c) dell’art. 5 con lo svolgimento dell’attività nel domicilio della lavoratrice o in locali di cui la medesima abbia la disponibilità, osserva conclusivamente, richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 9 del 1976, che al legislatore non è impedito di regolamentare i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, tenendo conto della natura particolare che alcuni rapporti assumono rispetto ad altri, e di emanare quindi discipline diverse; così come le misure per la tutela della maternità, dell’infanzia e della famiglia possono essere graduate dal legislatore in relazione alle diverse situazioni e all’entità dei mezzi finanziari.

Considerato in diritto

1. - Il Pretore di Modena, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, secondo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), in quanto tale disposizione, indicando negli artt. 2, 4, 6 e 9 della medesima legge le norme protettive applicabili alle lavoratrici a domicilio, non richiama anche l’art. 5, che disciplina l’interdizione anticipata dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza.

Il giudice a quo individua in tale omissione una ingiustificata disparità di trattamento delle lavoratrici a domicilio rispetto alle altre lavoratrici subordinate in conflitto con i principi costituzionali di tutela della maternità, enunciati dagli artt. 31 e 37 della Costituzione.

2. - La questione è fondata.

3. - La legge n. 1204 del 1971, in attuazione dei principi costituzionali che tutelano la maternità e che impongono una speciale adeguata protezione della madre lavoratrice e del bambino, delinea un complesso sistema di garanzie delle lavoratrici dipendenti durante i periodi della gravidanza e del puerperio, che si articola attraverso la imposizione di una serie di divieti al datore di lavoro e il riconoscimento di diritti e facoltà alle lavoratrici stesse.

Tra le specifiche misure protettive del benessere psico-fisico della madre e del bambino, oltre al divieto di adibire la donna a lavori pesanti, pericolosi ed insalubri, si pone l’istituto dell’astensione obbligatoria dal lavoro, disciplinato dall’art. 4, con il quale il legislatore ha introdotto in favore della donna una presunzione assoluta di inabilità lavorativa della stessa nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi ad esso successivi, imponendo al datore di lavoro un espresso divieto di adibire al lavoro le donne in tali periodi.

Nel periodo di astensione obbligatoria, durante il quale è inibito alla donna, senza alcuna possibilità di deroga, lo svolgimento di attività lavorativa, è correlativamente prevista la corresponsione di un indennizzo economico, il quale è diretto da un lato ad evitare riflessi negativi sulla stessa scelta di maternità della donna, dall’altro ad evitare che la perdita di reddito lavorativo determini uno stato di bisogno della lavoratrice, compromettendone le condizioni di vita.

Potendosi tuttavia verificare anche nelle prime fasi della gestazione e, quindi, in epoca anteriore al periodo di astensione obbligatoria, eventi o condizioni pregiudizievoli alla salute della donna e del nascituro, l’art. 5 della legge in esame consente, in particolari e tassative ipotesi, l’interdizione anticipata dal lavoro, che è disposta, sulla base di accertamento medico, dall’Ispettorato del lavoro, cui è rimessa anche la determinazione della durata del periodo o dei periodi di interdizione.

La predetta interdizione è equiparata sotto tutti i profili all’astensione obbligatoria ante partum: nell’aspetto funzionale, perché l’interdizione persegue la medesima finalità di tutela della salute della madre e del bambino, evitando tutto ciò che possa compromettere il buon andamento della gestazione; nell’aspetto sostanziale, perché una volta emanato dall’organo competente il relativo provvedimento è inibito alla donna di svolgere attività lavorativa durante tutto il periodo stabilito, mentre riprende vigore il divieto per il datore di lavoro di adibire la donna al lavoro; nell’aspetto economico, perché è garantita anche in tale periodo, computato a tutti gli effetti nell’anzianità di servizio, la corresponsione dell’indennità giornaliera nella stessa misura prevista per il periodo di astensione obbligatoria.

L’identità delle rationes dei due istituti in esame e delle conseguenze cui essi danno luogo consente, in definitiva, di affermare che l’elemento differenziale tra l’astensione obbligatoria ante partum e l’interdizione anticipata consiste nella circostanza che la prima è una presunzione assoluta e generale di incapacità lavorativa, che opera automaticamente e del tutto indipendentemente dalle effettive condizioni di salute della donna, solo in forza della data presunta del parto, debitamente certificata; la seconda, pur concretandosi in una incapacità lavorativa, postula l’accertamento in concreto dell’esistenza di una delle cause che secondo l’apprezzamento del legislatore impediscono lo svolgimento di attività lavorativa.

Può ritenersi perciò che la incapacità lavorativa è presunta nell’astensione obbligatoria ed è invece presumibile nell’interdizione anticipata, allorché si verifichino quelle circostanze, indicate in via generale dalla norma, che devono essere accertate nel singolo caso concreto.

4. - L’art. 1, secondo comma, della legge n. 1204 del 1971 dispone testualmente che “alle lavoratrici a domicilio si applicano le norme del presente titolo di cui agli artt. 2, 4, 6 e 9”.

Occorre domandarsi se la mancata previsione dell’applicabilità alle lavoratrici a domicilio dell’interdizione anticipata di cui all’art. 5 della citata legge trovi adeguata giustificazione.

La funzione della interdizione anticipata - consistente nell’impedire che la salute della lavoratrice e del nascituro siano esposte a rischi a causa dello svolgimento di attività lavorativa in presenza di eventi o condizioni pregiudizievoli alla gestazione - e la correlativa corresponsione di una indennità giornaliera nel periodo di interdizione dimostrano come l’istituto in esame costituisca l’attuazione di quei principi costituzionali che impongono di proteggere la maternità e di assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Da tale ineludibile premessa deriva che in presenza di situazioni omogenee la tutela della maternità non tollera esclusioni né vuoti normativi, non potendosi consentire che vi siano categorie di lavoratrici escluse dal beneficio di quel livello di protezione che è assicurato alla generalità delle lavoratrici subordinate dalla legge n. 1204 del 1971, al di fuori di quelle ipotesi in cui una diversa disciplina è stata ritenuta giustificata in forza della specialità del rapporto di lavoro (si vedano, ad esempio, le sentenze nn. 86 del 1994, 9 del 1976 e 27 del 1974, relative alla legittimità della esclusione del divieto di licenziamento per le collaboratrici domestiche).

Ad avviso di questa Corte, le caratteristiche del lavoro a domicilio, ancorché peculiari soprattutto in relazione alle concrete modalità di svolgimento, non sono idonee a giustificare l’inapplicabilità dell’interdizione anticipata alle lavoratrici occupate in tali attività.

E’ ben vero che la lavoratrice a domicilio non è sottoposta agli stessi ritmi del lavoro che si svolge all’interno dell’impresa e che può eventualmente beneficiare dell’aiuto accessorio di membri della sua famiglia conviventi e a carico; così come è innegabile che alla lavoratrice a domicilio, tenuta ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere, deve riconoscersi una certa autonomia gestionale nella concreta organizzazione dell’attività commissionatale.

Ciò non esclude tuttavia che qualora insorgano eventi o condizioni pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino, tali da impedire di fatto lo svolgimento dell’attività, la lavoratrice potrebbe essere indotta ad eseguire comunque il lavoro commissionato al fine di non subire la perdita di reddito; ove poi si consideri che le lavoratrici a domicilio sono retribuite in base alle tariffe di cottimo, nella cui determinazione assume particolare rilievo l’elemento temporale nella lavorazione dei prodotti, risulta ancora più evidente come la lavoratrice, pur in presenza di cause ostative all’esecuzione dell’attività, potrebbe essere costretta a mantenere un insostenibile ritmo di lavoro per evitare decrementi di reddito, non potendo beneficiare in tali circostanze delle forme di provvidenza a sostegno della maternità, che invece vengono riconosciute alle altre lavoratrici dipendenti.

La lamentata inapplicabilità dell’art. 5 della legge n. 1204 del 1971 priva dunque ingiustificatamente la lavoratrice a domicilio di una specifica tutela, non potendo questa ottenere l’interdizione anticipata, né conseguentemente beneficiare della relativa indennità giornaliera.

Un tale vuoto normativo in nessun caso potrebbe essere colmato mediante il ricorso al trattamento assicurativo di malattia, e ciò per l’impossibilità di equiparare la maternità alla malattia, in considerazione della diversità concettuale e naturalistica che intercorre tra l’evento biologico e quello patologico.

La norma che discrimina irragionevolmente le lavoratrici a domicilio rispetto alla generalità delle lavoratrici subordinate e che non assicura un’adeguata protezione della maternità è quindi contraria ai principi costituzionali che detta tutela esigono: onde la sua declaratoria di illegittimità costituzionale.

Si deve constatare infine che la legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città), pur ampliando l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione di alcune norme protettive della legge n. 1204 del 1971, quali quelle relative all’astensione facoltativa e ai periodi di riposo, non ha modificato la disciplina di tutela della maternità delle lavoratrici a domicilio, essendo rimasto invariato il secondo comma dell’art. 1 della legge n. 1204, il quale pertanto non può sottrarsi alla declaratoria di incostituzionalità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, secondo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), nella parte in cui non prevede l’applicabilità alle lavoratrici a domicilio dell’art. 5 della medesima legge.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 26 luglio 2000.