Sentenza n. 301/2000
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ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI 

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria  FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, 8, 15, 20 e 21 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), promosso con ordinanza emessa il 19 febbraio 1998 dal Pretore di Bassano del Grappa, sezione distaccata di Asiago, iscritta al n. 300 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 1998.

 Visti l’atto di costituzione dell’associazione “Antichi Binari” di Asiago nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 udito nell’udienza pubblica del 21 marzo 2000 il Giudice relatore Valerio Onida;

 uditi l’avvocato Mauro Mellini per l’associazione “Antichi Binari” di Asiago e l’avvocato dello Stato Giancarlo Mandò per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione emessa per l’applicazione di sanzione amministrativa per violazione di norme del regolamento comunale sulla pubblicità in combinato disposto con le norme del d. lgs. n. 507 del 1993 in materia di imposta sulla pubblicità, il Pretore di Bassano del Grappa, sezione distaccata di Asiago, su eccezione del ricorrente, ha sollevato, con ordinanza emessa il 19 febbraio 1998, pervenuta a questa Corte il 10 aprile 1998, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 21 e 53, primo comma, della Costituzione, degli articoli 5, 8, 15, 20 e 21 del d. lgs. 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), “nella parte in cui assoggettano ad imposta sulla pubblicità e ad apposita dichiarazione da parte del soggetto passivo dell’imposta, anche la propaganda di contenuto ideologico a mezzo di diffusione di manifestini, senza scopo di lucro”.

Premette il remittente che il giudizio dinanzi ad esso pendente riguarda una contestazione di violazione delle norme sull’imposta sulla pubblicità effettuata a carico del legale rappresentante di un’associazione politico-culturale, per la distribuzione, in occasione della ricorrenza del 25 aprile, di un volantino “inteso a mantenere vivo il ricordo dei valori della lotta antifascista e del permanente pericolo del fascismo”.

Ricorda poi che questa Corte, con sentenza n. 131 del 1973, dichiarò l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli articoli 21 e 53, primo comma, della Costituzione, di norme previgenti in tema di imposta sulla pubblicità nella parte in cui assoggettavano ad imposta anche le forme di propaganda ideologica effettuata, senza fini di lucro, a diretta cura degli interessati; e osserva che analogo sospetto di illegittimità costituzionale è dato avanzare nei confronti delle norme del sopravvenuto d. lgs. n. 507 del 1993.

Infatti – osserva il giudice a quo – è ben vero che l’art. 5, secondo comma, del decreto legislativo, considerando rilevanti, ai fini dell’imposizione, i messaggi diffusi nell’esercizio di un’attività economica, allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato, sembra escludere dalla soggezione al tributo i messaggi di natura politica, ideologica, religiosa effettuati senza fine di lucro: ma siffatta interpretazione non sarebbe sostenibile alla luce dei successivi articoli 20 e 21 dello stesso decreto. L’art. 20, lettere b e c, comprende fra i casi di riduzione del diritto sulle pubbliche affissioni “i manifesti di comitati, associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non abbia scopo di lucro”, e “i manifesti relativi ad attività politiche, sindacali e di categoria, culturali, sportive, filantropiche e religiose, da chiunque realizzate, con il patrocinio o la partecipazione degli enti pubblici territoriali”; l’art. 21, elencando i casi di esenzione dal tributo, non vi comprende i messaggi di propaganda ideologica o politica.

Ad avviso del remittente, perciò, il combinato disposto di tali norme, non lasciando spazio ad un interpretazione conforme al dettato costituzionale, sarebbe suscettibile di violare i canoni della libertà di manifestazione del pensiero con qualsiasi mezzo, e della capacità contributiva, difettando quest’ultima radicalmente in presenza di propaganda ideologica.

L’ordinanza conclude sottolineando la rilevanza della questione, in quanto in caso di suo accoglimento il giudicante dovrebbe annullare l’ordinanza ingiunzione opposta.

2. – Si è costituita l’associazione “Antichi binari”, ricorrente nel giudizio a quo, la quale chiede preliminarmente che la Corte affermi che le norme denunciate vanno intese nel senso di escludere l’applicabilità del tributo e dei relativi incombenti alle ipotesi di propaganda ideologica e politica effettuata direttamente dagli interessati, senza fine di lucro, e pertanto dichiari la questione “irrilevante ed infondata per difetto di effettiva sussistenza della disposizione di cui è allegato il contrasto con la norma costituzionale”.

Secondo la parte, poiché questa Corte, con la sentenza n. 131 del 1973, ha dichiarato la illegittimità costituzionale parziale della normativa preesistente con una pronuncia additiva, introducendo così una esclusione dalla soggezione al tributo, tale limitazione dovrebbe intendersi operante anche rispetto alla formulazione della nuova normativa, pur in assenza di un espresso richiamo di questa; in ogni caso, anche indipendentemente da ciò, le norme sopravvenute andrebbero interpretate, nel dubbio, in senso non contrastante con i principi costituzionali.

La parte aggiunge che il decreto legislativo n. 507 del 1993 è stato emanato in base alla delega conferita al Governo con la legge n. 421 del 1992 per il “riordino della finanza degli enti territoriali”: delega che pertanto dovrebbe intendersi finalizzata ad un più efficace, equo e funzionale assetto della materia, in un ambito che non potrebbe toccare spazi inerenti a diritti fondamentali, tanto più se espressamente fatti salvi da una specifica pronuncia del giudice delle leggi. Ne conseguirebbe che se il decreto legislativo dovesse risultare lesivo del principio già affermato dalla Corte, esso dovrebbe considerarsi affetto da illegittimità costituzionale, prima ancora che per il suo contenuto, per eccesso rispetto alla delega.

Per il caso in cui la Corte non ritenesse di seguire detta via interpretativa, la parte chiede venga dichiarata la illegittimità costituzionale delle norme denunciate.

3. – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Essa sarebbe priva di rilevanza nel giudizio principale, il quale dovrebbe concludersi con una pronuncia di difetto di giurisdizione del giudice adìto, dato che la questione sulla soggezione all’imposta sarebbe devoluta alle commissioni tributarie, a norma dell’art. 2, lettera h, del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413).

Nel merito, essa sarebbe comunque infondata, in quanto basata su di un’errata interpretazione delle norme denunciate. Infatti, in forza dell’art. 5 del decreto legislativo n. 507 del 1993, presupposto dell’imposta è la diffusione di messaggi pubblicitari “nell’esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato”: onde, secondo l’Avvocatura erariale, la legge si adeguerebbe perfettamente al principio affermato con la sentenza di questa Corte n. 131 del 1973, ed escluderebbe l’imposizione sulla propaganda di contenuti ideologici senza scopo di lucro.

Tale interpretazione non sarebbe contraddetta dall’art. 20 del decreto, che non riguarda l’imposta sulla pubblicità, ma il diritto sulle pubbliche affissioni di manifesti, e prevede la soggezione ad esso, in misura peraltro ridotta, anche quando l’operazione materiale di affissione eseguita dal Comune riguarda manifesti relativi ad una attività non soggetta all’imposta come quelle politiche, sindacali, culturali, ecc. Nel caso di specie l’art. 20 non troverebbe applicazione, trattandosi di propaganda mediante diffusione di manifestini non destinati alla affissione.

Se mai – prosegue la difesa erariale – un apparente contrasto con il principio dell’art. 5 potrebbe riscontrarsi nell’art. 16, non menzionato dall’ordinanza, che prevede la riduzione dell’imposta per la pubblicità relativa a “manifestazioni” politiche, sindacali, religiose, culturali, sportive con il patrocinio o la partecipazione degli enti pubblici territoriali, nonché per la pubblicità di “festeggiamenti” patriottici, religiosi ecc. In tal caso la norma non concernerebbe la propaganda a contenuto ideologico di per sé, ma la pubblicità di eventi organizzati che involgono più ampi interessi.

4. – In una memoria depositata in vista dell’udienza, la difesa del Presidente del Consiglio osserva che la definizione delimitativa del presupposto dell’imposta sulla pubblicità, contenuta nell’art. 5 del decreto legislativo impugnato, è stata modellata proprio tenendo presenti i principi enunciati da questa Corte, ed è diversa da quella, più ampia, enunciata nell’art. 6 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 639 (Imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle pubbliche affissioni), ai cui articoli 12 e 15 si riferiva la dichiarazione di illegittimità costituzionale. Sulla base di detta definizione del presupposto, non sarebbe soggetta all’imposta la c.d. propaganda ideologica, che di per sé non costituirebbe mai messaggio pubblicitario rilevante ai fini dell’imposta medesima, non avendo la funzione di richiamare l’attenzione del pubblico su beni o servizi dei quali si intenda sollecitare la domanda, né di promuovere il miglioramento dell’immagine della persona o dell’ente cui si riferisce la pubblicità, e quindi una finalità di “lucro” sia pur latamente intesa: con la conseguenza che non sussisterebbe in tal caso nemmeno l’obbligo di dichiarazione previsto dall’art. 8 del decreto a carico del soggetto di imposta.

Alla luce di tale premessa andrebbe letto anche l’art. 15 del decreto, che si riferisce alla “pubblicità varia” effettuata mediante distribuzione di manifestini, nell’ovvio presupposto che si tratti di messaggi pubblicitari quali definiti nell’art. 5.

Non varrebbe, in contrario, il richiamo agli artt. 20 e 21 del decreto, operato nell’ordinanza di rimessione: tali articoli disciplinerebbero la distinta materia della riduzione di tariffa e della esenzione relativamente al diritto sulle pubbliche affissioni, prestazione patrimoniale di carattere tariffario dovuta al Comune per il servizio delle pubbliche affissioni negli appositi spazi. Pertanto, a parte la non rilevanza della questione con riguardo a tali articoli, dal richiamo ad essi non potrebbe comunque dedursi che la propaganda ideologica attuata mediante distribuzione di manifestini sia soggetta ad imposta sulla pubblicità. Il pagamento del diritto sulle pubbliche affissioni di manifesti, anche di carattere ideologico (salve le ipotesi di riduzione o di esenzione indicate dalla legge), troverebbe la sua specifica giustificazione nella richiesta del servizio prestato dal Comune, costituendo il rimborso del relativo costo, e nell’uso della risorsa limitata costituita dallo spazio adibito all’affissione, quale che sia il contenuto dei manifesti.

La memoria ricorda infine che, quanto alla legittimità costituzionale della soggezione a diritti sulle pubbliche affissioni di manifesti, anche a contenuto di propaganda ideologica, questa Corte si è già espressa con la sentenza n. 89 del 1979.

Considerato in diritto

1. – La questione sollevata investe gli articoli 5, 8, 15, 20 e 21 del d. lgs. 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale).

L’art. 5 definisce il presupposto dell’imposta comunale sulla pubblicità; l’art. 8 prevede che il soggetto passivo dell’imposta sia tenuto, prima di iniziare la pubblicità, a presentare al Comune apposita dichiarazione; l’art. 15 stabilisce la tariffa dell’imposta per la così detta “pubblicità varia”, tra cui è compresa (comma 4) quella effettuata mediante distribuzione di manifestini o di altro materiale pubblicitario; l’art. 20 riguarda i casi di riduzione alla metà del diritto sulle pubbliche affissioni, fra l’altro, “per i manifesti di comitati, associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non abbia scopo di lucro” (lettera b), e “per i manifesti relativi ad attività politiche, sindacali e di categoria, culturali, sportive, filantropiche e religiose, da chiunque realizzate, con il patrocinio o la partecipazione degli enti pubblici territoriali” (lettera c); l’art. 21, infine, riguarda i casi di esenzione dal medesimo diritto sulle pubbliche affissioni.

Da questa disciplina, complessivamente considerata, e in particolare dalle citate disposizioni sulle ipotesi di esenzione e di riduzione, il remittente desume che la propaganda a contenuto ideologico, a mezzo di diffusione di manifestini, senza scopo di lucro – quale si sarebbe verificata nella fattispecie ad esso sottoposta – non sarebbe sottratta alla imposizione; e dubita che tale assoggettamento contrasti con gli articoli 21 e 53, primo comma, della Costituzione, per le stesse ragioni che indussero questa Corte, a suo tempo, a dichiarare la illegittimità costituzionale delle norme previgenti in tema di imposta sulla pubblicità, contenute nella legge 5 luglio 1961, n. 641, e nel successivo d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 639, nella parte in cui assoggettavano ad imposta “anche le forme di propaganda ideologica effettuata, senza fini di lucro, a diretta cura degli interessati” (sentenza n. 131 del 1973).

2. – Non può essere accolta la eccezione di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, proposta dalla difesa del Presidente del Consiglio sull’assunto che il giudice remittente sarebbe privo di giurisdizione, spettando alle commissioni tributarie la decisione della controversia davanti ad esso proposta. Infatti, all’epoca in cui ebbe luogo la violazione contestata, fu applicata la sanzione e fu proposta l’opposizione oggetto del giudizio a quo, era in vigore l’originaria disciplina recata dall’art. 24, comma 1, del decreto legislativo n. 507 del 1993, secondo cui per l’applicazione delle sanzioni amministrative in materia di imposta sulla pubblicità si osservavano “le norme contenute nelle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689”, alla cui stregua la competenza a conoscere delle opposizioni alle ordinanze ingiunzione applicative di sanzioni amministrative spetta al giudice ordinario. Né può aver rilievo la successiva modifica recata a detto art. 24, comma 1, dall’art. 12 del d. lgs. 18 dicembre 1997, n. 473, entrato in vigore il 1° aprile 1998, che rinviava all’osservanza della disciplina generale delle sanzioni amministrative per la violazione delle norme tributarie: modifica a sua volta poi superata da quella successivamente intervenuta ad opera dell’art. 4, comma 3, del d. lgs. 5 giugno 1998, n. 203, che ha nuovamente fatto richiamo alle norme della legge n. 689 del 1981 e, “per le violazioni delle norme tributarie”, a “quelle sulla disciplina generale delle relative sanzioni amministrative”. In base al principio della perpetuatio jurisdictionis (art. 5 cod. proc. civ.), infatti, la giurisdizione del giudice ordinario, sussistente all’epoca della proposizione del giudizio a quo, nonché al momento della emanazione dell’ordinanza di rimessione (19 febbraio 1998), non potrebbe essere comunque negata.

3. – Nel merito, la questione non è fondata, in quanto è erronea l’interpretazione del sistema normativo sulla cui base essa è stata sollevata.

Come riconosce lo stesso remittente, l’art. 5 del decreto legislativo n. 507 del 1993, che considera rilevanti, ai fini dell’imposizione, solo “i messaggi diffusi nell’esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato” (comma 2), è formulato in modo tale da escludere dalla soggezione al tributo i messaggi di contenuto politico, ideologico, religioso effettuati senza fine di lucro.

Dai lavori preparatori risulta del resto che il testo dell’art. 5 è stato consapevolmente ed intenzionalmente formulato in modo da tener conto della statuizione di questa Corte (sent. n. 131 del 1973) secondo cui non è conforme a Costituzione l’assoggettare all’imposta la così detta pubblicità ideologica (cfr. la relazione allo schema di decreto legislativo a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale).

Questa è la disposizione fondamentale che definisce in via generale i presupposti dell’imposizione, ed è dunque ad essa che occorre far capo per stabilire se una fattispecie rientri o meno nell’area dell’obbligo tributario, nonché per orientare coerentemente l’interpretazione delle altre specifiche disposizioni del decreto legislativo in questione.

Alla esclusione della pubblicità ideologica dalla soggezione all’imposta non pone alcun ostacolo l’art. 8, pure denunciato, del d.lgs. n. 507, che si limita a disciplinare l’obbligo di dichiarazione gravante sui soggetti passivi dell’imposta; né l’art. 15, che definisce le tariffe per le forme della così detta “pubblicità varia”, sempre sul presupposto, evidentemente, che si tratti di messaggi pubblicitari soggetti all’imposta ai sensi dell’art. 5.

Nulla in contrario può desumersi, diversamente da quanto ritiene il remittente, nemmeno dagli articoli 20 e 21 del decreto, i quali non riguardano le riduzioni e le esenzioni dall’imposta sulla pubblicità, ma quelle relative al diverso diritto sulle pubbliche affissioni, comprensivo bensì anche dell’imposta sulla pubblicità (art. 19, comma 1), ma dovuto al Comune in relazione al servizio delle affissioni da questo prestato, e che ha quindi presupposti e caratteri differenziati da quelli della predetta imposta: onde si tratta di disposizioni, come esattamente rileva la difesa del Presidente del Consiglio, estranee alla fattispecie dedotta davanti al giudice a quo.

Ma anche se si abbia riguardo agli articoli 16 e 17 del decreto (non impugnati), che disciplinano rispettivamente le riduzioni e le esenzioni dall’imposta sulla pubblicità, le conclusioni non cambiano. L’art. 17 non aveva ragione di contemplare l’esenzione della pubblicità ideologica, in quanto si tratta di ipotesi, come si è detto, radicalmente estranea al presupposto dell’imposizione. Quanto all’art. 16, i casi di riduzione dell’imposta da esso disciplinati – concernenti la “pubblicità effettuata da comitati, associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non abbia scopo di lucro” (lettera a), la “pubblicità relativa a manifestazioni politiche, sindacali e di categoria, culturali, sportive, filantropiche e religiose, da chiunque realizzate, con il patrocinio o la partecipazione degli enti pubblici territoriali” (lettera b), e la “pubblicità relativa a festeggiamenti patriottici, religiosi, a spettacoli viaggianti e di beneficenza”(lettera c) – vanno intesi in correlazione ed in coerenza con la definizione legislativa del presupposto dell’imposta offerta dall’art. 5: si tratta delle forme di pubblicità imponibile ai sensi dell’art. 5, qualificate dalla natura soggettiva di chi le effettua (lettera a); e di forme di pubblicità, pur sempre rientranti nella generale definizione del presupposto dell’imposta, qualificate non già dal loro contenuto politico, culturale, sportivo, filantropico o religioso, ma dall’essere relative a (cioè dirette a diffondere la conoscenza di) manifestazioni di tale natura, festeggiamenti patriottici o religiosi, spettacoli viaggianti e di beneficenza (lettere b e c).

In definitiva, dunque, dal sistema normativo in esame, correttamente interpretato, non discende affatto che siano soggette all’imposta le forme di propaganda di contenuto ideologico effettuate senza fini di lucro, cui aveva riguardo la sentenza n. 131 del 1973 di questa Corte, e a cui si riferisce la questione sollevata dal giudice a quo: della quale, pertanto, non sussiste il fondamento.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 5, 8, 15, 20 e 21 del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), sollevata, in riferimento agli articoli 21 e 53, primo comma, della Costituzione, dal Pretore di Bassano del Grappa, sezione distaccata di Asiago, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 19 luglio 2000.