Ordinanza n. 452/99

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ORDINANZA N. 452

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof.  Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI 

- Prof.  Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv. Massimo VARI 

- Dott. Cesare RUPERTO 

- Dott. Riccardo CHIEPPA 

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY 

- Prof. Valerio ONIDA 

- Prof. Carlo MEZZANOTTE 

- Avv. Fernanda CONTRI 

- Prof. Guido NEPPI MODONA 

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof. Annibale MARINI 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 160 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 26 ottobre 1998 dal Pretore di Lecce, iscritta al n. 76 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Udito nella camera di consiglio del 27 ottobre 1999 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto che il Pretore di Lecce, nel procedimento a carico di due persone imputate del delitto di tentata truffa, commesso il 15 ottobre 1990, dopo aver puntualizzato che il decreto di citazione a giudizio emesso, con la sottoscrizione “sia del pubblico ministero sia dell’ausiliario che lo assiste”, il 13 ottobre 1995, era stato notificato ad una imputata il 28 novembre 1995 ed all’altra imputata il 24 novembre 1995 e che, dunque, ove si avesse avuto riguardo alla data di emissione dell’atto introduttivo del giudizio, il reato non sarebbe risultato prescritto, diversamente da quanto si sarebbe verificato se si fosse presa in considerazione la data di ciascuna delle notificazioni, entrambe eseguite oltre i cinque anni dal tempus commissi delicti, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 160 del codice penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione della giurisprudenza pressocché consolidata della Corte di cassazione – prevede che il corso della prescrizione è interrotto dall’emissione del decreto di citazione a giudizio anziché dalla notificazione del decreto stesso;

che, il giudice a quo, nel riprodurre il testo di altra ordinanza di rimessione relativa alla medesima questione, adottata nello stesso processo e dichiarata inammissibile da questa Corte con ordinanza n. 184 del 1998, per difetto di motivazione in punto di rilevanza - precisata la concreta incidenza della norma denunciata nel procedimento in corso - ravvisa nella norma così come interpretata violazione del principio di eguaglianza, vulnerato sia perché nel procedimento pretorile il decreto di citazione a giudizio viene emesso dal pubblico ministero, con la conseguenza che la parte privata viene a trovarsi “in posizione di inferiorità” rispetto ad un soggetto che è anch’egli parte, “in quanto, apprendendo l’esistenza di un procedimento nei suoi confronti dopo il decorso del termine di prescrizione (quando ormai poteva ragionevolmente ritenere estinto il reato eventualmente configurabile a suo carico), incontra senz’altro maggiori difficoltà per la raccolta del materiale probatorio a sua difesa”, sia per l’irragionevole disparità di trattamento riservata ai soggetti destinatari degli atti di interruzione, profilandosi alcuni di tali atti, per spiegare concreta efficacia interruttiva, come subordinati alla conoscenza da parte dell’interessato “in modo certo ed effettivo della volontà punitiva dello Stato”;

che la violazione del diritto di difesa conseguirebbe, pure qui, dall’impossibilità per il destinatario di un atto di interruzione “non recettizio”, di venire a conoscenza della volontà statuale di perseguirlo prima dell’avvenuta notificazione dell’atto stesso, tanto da precludergli, non dando rilievo all’effettiva conoscenza di tale atto, di apprestare tempestivamente le proprie difese; per di più, compromettendo anche l’osservanza dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, che riconosce all’incolpato il diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole nonché di essere informato nel più breve tempo possibile del contenuto dell’accusa elevata nei suoi confronti e di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la difesa;

che nel giudizio non si sono costituite le parti private né ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato che l’art. 3 della Costituzione si rivela non correttamente evocato sotto entrambi i profili denunciati: sotto il primo, perché il potere attribuito al pubblico ministero di emettere nel giudizio pretorile il decreto di citazione a giudizio, che è funzionale soprattutto al sollecito esercizio, da parte dell’imputato, della facoltà di richiedere, a norma dell’art. 555, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale, uno dei riti semplificati, non determina alcuna violazione della parità delle parti, rappresentando il decreto di citazione a giudizio uno degli strumenti attraverso i quali il pubblico ministero esercita l’azione penale, a norma dell’art. 405 del codice di procedura penale, senza che, dunque, possa riscontrarsi diseguaglianza di sorta in relazione al momento ritenuto rilevante ai fini dell’interruzione della prescrizione, una volta che l’atto risulti perfezionato nei suoi requisiti di sostanza e di forma e si configuri, quindi, come una vera e propria vocatio in iudicium (cfr. ordinanza n. 155 del 1997); sotto il secondo profilo, perché l’addotta diseguaglianza è coessenziale alla tipologia dell’atto cui la legge riconosce l’effetto interruttivo della prescrizione, cosicché davvero esorbitanti si rivelano gli additati termini di raffronto (interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice, presentazione dell’imputato per il giudizio direttissimo, ordinanza di convalida del fermo o dell’arresto, sentenza di condanna), taluni dei quali, peraltro, non postulano necessariamente l’effettiva conoscenza da parte dell’imputato;

che, analogamente, deve escludersi ogni violazione del diritto di difesa, non soltanto perché non può assegnarsi alcun rilievo giuridico ad una sorta di “aspettativa” dell’imputato al maturarsi della prescrizione, ma anche perché la conoscenza effettiva dell’atto interruttivo (ovvero, più precisamente, la conoscibilità di esso) non rappresenta condizione per il dispiegarsi delle possibilità difensive attenendo la causa estintiva del reato alle conseguenze derivanti dal decorso del tempo e il diritto di difesa, così come nella specie richiamato, alla possibilità - certo non preclusa all’imputato, dal decorrere l’effetto interruttivo di tale causa estintiva dalla emissione anziché dalla notificazione - di contestare il contenuto dell’accusa;

che, infine, neppure il richiamo, da collegare anch’esso – nella prospettiva dell’ordinanza di rimessione – al dedotto vulnus arrecato all’art. 24 della Costituzione, all’art. 6, comma 3, lettera b), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali risulta pertinente, sia per la già ricordata natura “sollecitatoria” dell’attribuzione al pubblico ministero del potere di emettere il decreto di citazione a giudizio – volta, quindi a perseguire, a prescindere dal momento rilevante ai fini della prescrizione, la complessiva economia dei tempi processuali – sia perché, in ogni caso, all’atto della notificazione, l’imputato e la sua difesa sono posti in grado di avvedersi dell’insussistenza della causa estintiva del reato e che, pertanto, non è certo la notificazione dell’atto ad incidere sulla pronta definizione del processo nel senso voluto dal rimettente;

che la questione, dunque, deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953 n. 87, e 9, secondo comma, della norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 160 del codice penale, sollevata in riferimento gli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Lecce con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costitu-zionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 1999.

Giuliano VASSALLI, Presidente e Redattore

Depositata in cancelleria il 17 dicembre 1999