Sentenza n. 395/99

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 395

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.      Renato GRANATA, Presidente

- Prof.      Giuliano VASSALLI                                                    

- Prof.      Francesco GUIZZI    

- Prof.      Cesare MIRABELLI

- Prof.      Fernando SANTOSUOSSO                                                

- Avv.      Massimo VARI                                                    

- Dott.      Cesare RUPERTO                                               

- Dott.      Riccardo CHIEPPA                                            

- Prof.      Gustavo ZAGREBELSKY                                                 

- Prof.      Valerio ONIDA                                                   

- Prof.      Carlo MEZZANOTTE                                                         

- Prof.      Guido NEPPI MODONA                                                   

- Prof.      Piero Alberto CAPOTOSTI                                

- Prof.      Annibale MARINI                                              

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.1, quarto comma, della legge 12 giugno 1984, n. 222 (Revisione della disciplina della invalidità pensionabile), promosso con ordinanza emessa il 7 gennaio 1998 dal Pretore di Ivrea nel procedimento civile vertente tra Attilia Nacci e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), iscritta al n. 337 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Visto l’atto di costituzione dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 settembre 1999 il Giudice relatore Cesare Mirabelli;

  udito l’avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. ¾ Nel corso di un giudizio promosso dalla titolare di un assegno ordinario di invalidità per ottenere la condanna dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) al pagamento della integrazione al trattamento minimo, che non le era stata concessa perché i suoi redditi cumulati con quelli del coniuge, dal quale viveva separata a seguito di un provvedimento adottato dal presidente del tribunale in pendenza del giudizio di separazione (art. 708 cod. proc. civ.), superavano il limite previsto dalla legge, il Pretore di Ivrea, con ordinanza emessa il 7 gennaio 1998, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, quarto comma, della legge 12 giugno 1984, n. 222 (Revisione della disciplina della invalidità pensionabile), nella parte in cui non consente di integrare al minimo la pensione al coniuge che, ancora non legalmente separato, abbia ottenuto un provvedimento presidenziale in base all’art. 708 cod. proc. civ. che lo autorizzi a vivere separato.

  La disposizione denunciata stabilisce che l’integrazione dell’assegno ordinario di invalidità al trattamento minimo non spetta ai soggetti coniugati e «non separati legalmente», qualora il reddito, cumulato con quello del coniuge, sia superiore a tre volte l’importo della pensione sociale.

  Il giudice rimettente, ritenuta infondata una eccezione preliminare di decadenza formulata dall’INPS, in vista del giudizio di merito rileva che, perché i coniugi possano essere considerati «legalmente separati», condizione nella quale è escluso il cumulo dei redditi ai fini della integrazione dell’assegno di invalidità, non sarebbe sufficiente l’ordinanza, sempre modificabile e che ha funzione cautelare, emanata nel giudizio di separazione dal presidente del tribunale dopo l’infruttuoso tentativo di conciliazione dei coniugi. Lo stesso giudice ritiene che ad una diversa interpretazione della disposizione denunciata, che sia conforme ai principi costituzionali, non si possa pervenire con i normali strumenti ermeneutici.

Motivando la non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente osserva che con la convivenza è possibile fare a meno dell’integrazione del trattamento pensionistico, se i redditi dei coniugi superino nel loro complesso un determinato livello; ma quando essi vivono separati, a seguito del provvedimento presidenziale emanato in base all’art. 708 cod. proc. civ., vengono meno le economie di scala collegate alla convivenza e molte spese, in precedenza affrontate con i redditi familiari, sono duplicate e rimangono a carico del coniuge separato.

  Il giudice rimettente segnala anche gli inconvenienti che si presenterebbero sia per le separazioni legali poste in essere per lucrare l’integrazione al minimo sulla pensione in godimento, sia in caso di attribuzione della integrazione dopo l’emanazione del provvedimento presidenziale di separazione provvisoria; ciò che imporrebbe di tenere conto, per determinare l’ammontare dell’assegno da porre a carico del coniuge, dell’entità della pensione quale risulterebbe dopo la sua integrazione.

  2. ¾ Si è costituito in giudizio l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata non fondata. L’INPS ritiene, con riferimento al principio di eguaglianza, che la situazione del beneficiario dei provvedimenti presidenziali cautelari, previsti dall’art. 708 cod. proc. civ., e quella del coniuge legalmente separato siano diverse e non equiparabili, sicché non potrebbe essere imposta una identica disciplina.

  L’anticipazione degli effetti della separazione legale, che determina uno stato definitivo, alla fase cautelare del procedimento di separazione, non si giustificherebbe razionalmente giacché, ritiene l’INPS, i provvedimenti cautelari perderebbero la loro efficacia in caso di estinzione del giudizio di merito (art. 669-novies cod. proc. civ.); inoltre la separazione provvisoria riguarderebbe rapporti tra le parti, senza che ne possano derivare oneri alimentari a carico di un terzo.

L’INPS sottolinea che sarebbero insindacabili sia la scelta del legislatore di ancorare l’integrazione al minimo ai limiti di reddito familiare, sia quella di attribuire rilievo al provvedimento definitivo di separazione, senza anticiparne gli effetti al momento cautelare; ciò sarebbe giustificato dall’esigenza di evitare che la regola previdenziale possa essere aggirata mediante procedimenti di separazione iniziati e mai conclusi.

  3. ¾ E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.

  L’Avvocatura sostiene, preliminarmente, che la questione sia inammissibile, perché il giudice, prima di sollevarla, avrebbe dovuto pronunciarsi sulla eccezione di decadenza proposta dall’INPS.

  Nel merito la mancata equiparazione, ai fini della integrazione al trattamento minimo, tra chi è legalmente separato e chi è stato autorizzato dal presidente del tribunale a vivere separato dal coniuge (con provvedimento adottato in base all’art. 708, terzo comma, cod. proc. civ.), non violerebbe il principio di eguaglianza. Le due situazioni sarebbero diverse, giacché il provvedimento presidenziale avrebbe un contenuto limitato e provvisorio, essendo rivolto a regolamentare i rapporti tra i coniugi in pendenza del giudizio, senza che si determini neppure la cessazione della eventuale comunione dei beni tra essi. Per i trattamenti pensionistici integrativi è richiesta, invece, una separazione con effetti definitivi e costitutivi: quindi o la separazione giudiziale passata in giudicato o la separazione consensuale omologata; mentre, invece, l’ordinanza presidenziale può essere modificata nel corso del giudizio e può perdere efficacia. Inoltre, l’assegno di mantenimento eventualmente attribuito con la sentenza di separazione potrebbe essere di tale entità da escludere qualsiasi diritto all’integrazione del trattamento pensionistico, con la conseguente difficoltà di recuperare quanto sia stato erogato per una prestazione ritenuta di carattere alimentare.

  Nella discussione in udienza l’Avvocatura ha eccepito ulteriori profili di inammissibilità della questione, perché essa sarebbe stata prospettata dubitativamente e richiederebbe un intervento additivo rimesso alla discrezionalità del legislatore.

Considerato in diritto

  1. ¾ La questione di legittimità costituzionale investe la disciplina dell’integrazione dell’assegno ordinario di invalidità al trattamento minimo, disciplina la quale prevede, secondo il giudice rimettente, che si debba tenere conto del cumulo dei redditi propri con quelli del coniuge, anche quando essi vivono separati a seguito di un provvedimento emanato dal presidente del tribunale, in base all’art. 708 cod. proc. civ.

Il Pretore di Ivrea ritiene che possa essere in contrasto con gli artt. 3 e 38, primo comma, della Costituzione l’art. 1, quarto comma, della legge 12 giugno 1984, n. 222 (Revisione della disciplina della invalidità pensionabile), il quale prevede che l’integrazione al trattamento minimo «per i soggetti coniugati e non separati legalmente» non spetta qualora il reddito, cumulato con quello del coniuge, sia superiore a tre volte l’importo della pensione sociale. Difatti tale cumulo opererebbe anche quando il titolare dell’assegno viva separato dal coniuge a seguito di un provvedimento giudiziale di separazione provvisoria. In questa situazione l’integrazione del trattamento pensionistico, destinata a fornire a chi sia inabile i mezzi necessari per vivere, non potrebbe essere attribuita, anche se il titolare dell’assegno non può più contare sui redditi del coniuge, mentre vengono meno le economie connesse con la convivenza e molte spese, in precedenza affrontate con le risorse familiari, devono essere duplicate.

2. ¾ L’Avvocatura dello Stato prospetta l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, perché prima di sollevarla il giudice rimettente avrebbe dovuto decidere sulla eccezione, formulata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale, di decadenza della domanda presentata dall’interessata.

L’eccezione non è fondata. Pur senza considerare che l’ordine nel quale devono essere decise le diverse questioni proposte nel giudizio principale non è sindacabile nel giudizio di legittimità costituzionale (sentenza n. 100 del 1993), è da rilevare che il giudice rimettente motiva, per escluderla espressamente, la fondatezza dell’eccezione di decadenza, considerata pregiudiziale rispetto al giudizio di merito nel quale trova applicazione la norma denunciata.

Egualmente infondate sono le eccezioni di inammissibilità prospettate sul presupposto che l’ordinanza di rimessione si esprima in termini dubitativi e richieda un intervento additivo che tocca la discrezionalità del legislatore. Difatti il giudice rimettente, pur segnalando i diversi inconvenienti che la disciplina del cumulo dei redditi dei coniugi, ai fini della integrazione dei trattamenti pensionistici, presenterebbe in ogni caso di separazione, prende posizione sulla interpretazione che intende dare alla disposizione denunciata, sulla cui base prospetta, poi, il dubbio di legittimità costituzionale. Né si può ritenere che la pronuncia richiesta renda necessaria una innovazione legislativa, giacché si tratterebbe di applicare ai coniugi che vivono separati a seguito di un provvedimento adottato in base all’art. 708 cod. proc. civ. la stessa disciplina prevista dal legislatore per la integrazione al minimo in caso di separazione giudiziale o consensuale omologata.

3. ¾ Nel merito la questione non è fondata.

  La premessa dalla quale traggono origine i dubbi di legittimità costituzionale è costituita dalla interpretazione dell’art. 1, quarto comma, della legge n. 222 del 1984, che, facendo riferimento ai coniugi «separati legalmente», non comprenderebbe quelli che vivono separati a seguito di un provvedimento giudiziale adottato in base all’art. 708 cod. proc. civ. Ma questa interpretazione non è esatta.

Nel contesto della legislazione previdenziale il legislatore ha più volte fatto riferimento a persona «legalmente separata», usando una espressione che non corrisponde letteralmente a quelle usate dal codice civile nel capo dedicato alla «separazione dei coniugi» (art. 150), che nell’ambito della «separazione personale dei coniugi» comprende la «separazione giudiziale» (art. 151) e la «separazione consensuale» (art. 158).

La diversità delle espressioni letterali rispecchia la diversa ampiezza del contenuto da attribuire alla locuzione «separati legalmente», anche tenendo conto delle finalità che caratterizzano la norma previdenziale nel prendere in considerazione i redditi propri o dei quali la persona comunque può godere in ragione della solidarietà familiare.

Secondo il criterio di interpretazione letterale, «separato legalmente» è da intendere il coniuge che si trovi in tale situazione in base ad un titolo legale e non per una mera evenienza di fatto. Quando i coniugi siano autorizzati a vivere separati a seguito dell’ordinanza emanata dal giudice (art. 708 cod. proc. civ.), il titolo legale di separazione esiste e non solo dà certezza del momento genetico di tale situazione, ma regolamenta (sia pure provvisoriamente) anche i rapporti, in particolare patrimoniali, tra i coniugi che vivono separati. Tale interpretazione dell’espressione «separati legalmente», come comprensiva della situazione che deriva a seguito dell’ordinanza prevista dall’art. 708 cod. proc. civ., è l’unica coerente con la finalità della norma previdenziale che, considerando, ai fini dell’integrazione al trattamento minimo, il cumulo dei redditi del titolare dell’assegno con quelli del coniuge, presuppone che a determinati e comuni bisogni di vita possa essere data soddisfazione con le risorse del coniuge nel contesto della solidarietà familiare. Per i coniugi separati questa disponibilità di risorse è contenuta nei limiti dell’eventuale assegno posto a carico di uno di essi e del quale si tiene conto ai fini della determinazione del reddito di chi lo riceve (art. 47 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917). Ciò vale anche nella separazione basata sull’art. 708 cod. proc. civ., tanto più che l’ordinanza presidenziale, fino a quando non sia sostituita da altro provvedimento, conserva la sua efficacia, che mantiene anche dopo la estinzione del processo (art. 189 disp. att. cod. proc. civ.).

E’ ben vero che il provvedimento presidenziale non determina una situazione irreversibile; ma in ogni caso di separazione, sia giudiziale o consensuale, sia a seguito del provvedimento presidenziale emanato in base all’art. 708 cod. proc. civ., le parti possono di comune accordo far cessare gli effetti della separazione, senza che sia necessario alcun intervento del giudice, con una dichiarazione espressa o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione (art. 157 cod. civ.).

Si deve, dunque, ritenere che anche la separazione basata sull’art. 708 cod. proc. civ. rientri nella previsione dell’art. 1, quarto comma, della legge n. 222 del 1984.

Anche se questa interpretazione fosse solo una delle diverse consentite dalla disposizione denunciata, essa dovrebbe comunque essere preferita dal giudice, in rispondenza ai principi costituzionali richiamati dall’ordinanza di rimessione (cfr. sentenza n. 363 del 1997).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, quarto comma, della legge 12 giugno 1984, n. 222 (Revisione della disciplina della invalidità pensionabile), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38, primo comma, della Costituzione, dal Pretore di Ivrea con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 ottobre 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Cesare MIRABELLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 ottobre 1999.