Ordinanza n. 192/99

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ORDINANZA N. 192

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 323 cod. pen. nel testo anteriore alla legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’articolo 323 del codice penale in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale), promossi con ordinanze emesse il 25 giugno 1998 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Sondrio ed il 2 dicembre 1997 dal Tribunale di Sondrio, iscritte, rispettivamente, ai nn. 655 e 864 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 39 e 49, prima serie speciale, dell’anno 1998.

  Udito nella camera di consiglio del 28 aprile 1999 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto che, con ordinanza emanata il 25 giugno 1998, pervenuta a questa Corte il 25 agosto 1998 (R.O. n. 655 del 1998), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Sondrio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 cod. pen. (Abuso d’ufficio), nel testo vigente prima della novella recata dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’articolo 323 del codice penale in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale), per contrasto con gli artt. 24, secondo comma, 25, secondo comma, e 97 della Costituzione;

che la rilevanza della questione é ritenuta dal remittente sulla base della considerazione che il fatto per cui é giudizio, commesso all’epoca in cui era in vigore la norma denunciata, appare astrattamente sussumibile anche nella fattispecie dell’art. 323 cod. pen. come sostituito dall’art. 1 della legge n. 234 del 1997, onde non potrebbe pervenirsi ad una pronuncia di non doversi procedere perchè il fatto non é più previsto dalla legge come reato, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, del codice penale; e che d’altra parte la soluzione del dubbio di legittimità costituzionale del precedente testo dell’art. 323 é necessaria, dovendosi, in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della predetta norma, cui conseguirebbe la caducazione ex tunc della medesima, pervenire ad una pronuncia di proscioglimento perchè il fatto non é più previsto come reato, in ossequio al principio di irretroattività della legge penale, che impedirebbe di applicare la norma di cui al nuovo art. 323 cod. pen.; ovvero, ove si ritenesse che tornino a rivivere gli originari artt. 323 e 324 cod. pen., come vigenti prima della novella del 1990, dovendosi raffrontare queste ultime norme con quella attualmente vigente, per gli effetti dell’art. 2, terzo comma, cod. pen.;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza richiama il principio di tassatività delle norme incriminatrici, derivante dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione, che esprimerebbe l’esigenza di evitare la genericità e l’indeterminatezza della fattispecie, in modo che sia assicurata al giudice la possibilità di individuare, a mezzo degli usuali metodi ermeneutici, la condotta penalmente rilevante, nonchè in modo che sia consentito ai consociati di conoscere preventivamente ciò che é reato e ciò che non lo é;

che, ciò premesso, il remittente osserva che, secondo l’interpretazione corrente dell’art. 323 cod. pen. nel testo previgente, venivano ricompresi nella condotta incriminata ogni violazione del parametro di doverosità quale risulta dalle regole normative improntate ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, ogni comportamento esplicantesi in un’illecita deviazione dai fini istituzionali, nonchè gli atti viziati da eccesso di potere;

che, ad avviso del giudice a quo, siffatta interpretazione, che costituirebbe "diritto vivente", non consentirebbe di escludere dubbi sull’indeterminatezza della fattispecie penale, in relazione ad espressioni quali "parametro di doverosità" e "fini istituzionali", e alla figura normativamente non definita, e in costante evoluzione, dell’eccesso di potere;

che, inoltre, la incertezza della norma non permetterebbe un efficace esercizio del diritto di difesa garantito dall’art. 24, secondo comma, della Costituzione;

che, infine, la insufficiente determinatezza della fattispecie, anche per il "ruolo centrale" del dolo specifico, che finirebbe per decidere della stessa illiceità di una condotta di per sè neutra, comprometterebbe il buon andamento della pubblica amministrazione, poichè "le incursioni del giudice penale nella sfera amministrativa, in assenza di univoci criteri oggettivi idonei a delimitare il confine fra lecito ed illecito", rischierebbero di paralizzare anche le più ordinarie attività dei pubblici funzionari, dal che discenderebbe altresì la violazione dell’art. 97 della Costituzione;

che, con ordinanza emessa il 2 dicembre 1997, pervenuta a questa Corte il 19 novembre 1998 (R.O. n. 864 del 1998), il Tribunale di Sondrio ha sollevato a sua volta questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, dell’art. 323 cod. pen., nel testo vigente prima della modifica recata dalla legge n. 234 del 1997;

che gli argomenti addotti dal remittente, in punto di non manifesta infondatezza, sono analoghi a quelli svolti nell’ordinanza iscritta al n. 655 R.O. 1998, con riguardo al solo art. 25, secondo comma, della Costituzione; mentre, in punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che, rientrando astrattamente il fatto nella fattispecie come delineata nel nuovo testo dell’art. 323 cod. pen., la norma di cui al testo previgente troverebbe necessaria applicazione, dovendo il giudice, qualora accerti che la condotta ascritta all’imputato rientra anche in tale ultima fattispecie, verificare quale delle due norme sia più favorevole; e che l’eventuale accoglimento della questione, con conseguente espunzione ex tunc della norma dall’ordinamento, determinerebbe, ai sensi dell’art. 2, primo comma, del codice penale, l’emanazione di sentenza di non doversi procedere perchè il fatto non era previsto come reato all’epoca in cui fu commesso;

che tanto nel primo che nel secondo giudizio non vi é stata costituzione di parti nè intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato che i giudizi, aventi lo stesso oggetto, possono essere riuniti per essere decisi con unica pronunzia;

che questa Corte ha già dichiarato manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, questioni analoghe, sollevate dagli stessi remittenti, con ordinanze n. 252 e n. 427 del 1998;

che anche le questioni oggi proposte si appalesano manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza;

che, infatti, le censure mosse al testo previgente dell’art. 323 cod. pen. attengono alla asserita indeterminatezza della fattispecie, a cui sono riconducibili, nella prospettazione dello stesso remittente, anche i profili di violazione degli artt. 24, secondo comma, e 97 della Costituzione, sollevati dalla sola ordinanza R.O. n. 655 del 1998;

che gli stessi remittenti premettono che i fatti sui quali sono chiamati a giudicare appaiono sussumibili anche nella fattispecie descritta dal nuovo testo dell’art. 323 cod. pen., riguardo alla quale non sollevano alcun dubbio di insufficiente determinatezza, ancorchè si tratti di norma più favorevole, destinata in ipotesi a trovare applicazione ai sensi dell’art. 2, terzo comma, cod. pen.;

che l’asserita indeterminatezza della preesistente fattispecie riguarderebbe non già l’intera area delle condotte punibili, ma solo quelle connotate da elementi di incerta definizione, come la generica antidoverosità, il contrasto con i fini istituzionali e il vizio di eccesso di potere: non, dunque, le condotte di abuso connotate da violazione di specifiche norme di legge o di regolamento e tali da causare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale all’agente o ad altri, ovvero un danno ingiusto ad altri, come quelle descritte nel nuovo testo dell’art. 323 cod. pen, come modificato dall’art. 1 della legge n. 234 del 1997;

che, pertanto, il giudizio sui fatti sottoposti ai remittenti non verrebbe in alcun modo influenzato dalla eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale del testo previgente dell’art. 323 cod. pen. nella parte in cui conteneva – in ipotesi – l’indicazione di ulteriori condotte punibili non sufficientemente determinate, in quanto connotate dai predetti elementi di incerta definizione (ordinanza n. 427 del 1998);

che ove, per converso, i fatti risultassero riconducibili a tale ultimo tipo di condotte, ma non a quelle indicate dal nuovo testo dell’art. 323, la questione sollevata apparirebbe comunque irrilevante in quanto, come ammettono gli stessi remittenti, in questo caso la norma sopravvenuta imporrebbe di prosciogliere gli imputati perchè il fatto non é più previsto come reato;

che risulta dunque in ogni caso inapplicabile quella parte della norma incriminatrice – non più in vigore – sulla quale si appuntano i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dai giudici a quibus;

che, d’altra parte, il raffronto fra la norma incriminatrice vigente all’epoca dei fatti e quella sopravvenuta, per determinare la norma applicabile, ai sensi dell’art. 2, terzo comma, del codice penale, non comporta alcuna applicazione giudiziale delle norme stesse, ma costituisce una mera operazione logica di confronto fra due descrizioni di fattispecie, e fra ciascuna di esse e la condotta contestata all’imputato, operazione preliminare e strumentale rispetto alla scelta della norma eventualmente applicabile, e non condizionata dall’eventuale dubbio di illegittimità costituzionale dell’una o dell’altra norma; mentre solo all’esito di tale operazione di raffronto il giudice individuerà quale sia la norma applicabile nel giudizio, in ordine alla quale possa proporsi una eventuale questione di legittimità costituzionale rilevante nel giudizio stesso (ordinanza n. 252 del 1998).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 del codice penale (Abuso d’ufficio), nel testo anteriore alla modifica recata dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’articolo 323 del codice penale in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, 25, secondo comma, e 97 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Sondrio, e dal Tribunale di Sondrio, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 25 maggio 1999.