Sentenza n. 166/98

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SENTENZA N.166

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI    

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 155, quarto comma, del codice civile e del combinato disposto degli artt. 151, primo comma, e 155 stesso codice promossi con ordinanze emesse il 29 ottobre 1996 dal Tribunale di Como sul reclamo proposto da Butti Patrizia contro Negrini Valerio, iscritta al n. 1333 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 1997 ed il 27 dicembre 1996 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Zecchino Maria e Moriondo Francesco, iscritta al n. 82 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 1997.

  Udito nella camera di consiglio del 29 ottobre 1997 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto in fatto

  1. - Il Tribunale di Como, adìto con reclamo avverso un provvedimento di rigetto dell’istanza cautelare di sequestro giudiziario, con la quale era stata chiesta l’assegnazione della casa familiare di proprietà esclusiva del convenuto, dal genitore naturale affidatario di figlio minore, nato durante un rapporto di convivenza more uxorio e riconosciuto da entrambi i genitori, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 30 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 155, quarto comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede la possibilità di assegnare in godimento la casa familiare al genitore naturale affidatario di un minore, o convivente con prole maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, anche se lo stesso genitore affidatario non sia titolare di diritti reali o di godimento sull’immobile.

  Il giudice rimettente premette anzitutto di non aderire a quell’orientamento giurisprudenziale e dottrinario, che reputa applicabile per analogia alla famiglia di fatto la disciplina normativa della famiglia legittima ed in particolare il provvedimento di assegnazione della casa familiare di cui all’art. 155, quarto comma, del codice civile, in quanto la emanazione di tale provvedimento si fonda sul necessario presupposto del matrimonio, come, del resto, si desume dallo stesso tenore letterale della disposizione in oggetto, che fa riferimento al "coniuge cui vengono affidati i figli", non già al "genitore".

  Inoltre, ad avviso del rimettente, l’applicazione analogica della norma censurata e l’interpretazione estensiva di essa devono ritenersi escluse dalla circostanza che il potere del giudice di attribuire il godimento della casa familiare ad un soggetto che su di essa non vanti alcun diritto, estromettendone il titolare, ha natura eccezionale e non é configurabile al di fuori delle fattispecie espressamente previste.

  Ciò premesso, il giudice a quo ravvisa un contrasto tra la norma censurata, che non consente di disporre l’assegnazione della casa familiare al genitore naturale affidatario di figlio minore, e gli artt. 3 e 30 della Costituzione, per violazione del principio di uguaglianza e del principio di tutela dei figli naturali.

  2. - Nel corso di un procedimento cautelare, nel quale la ricorrente, proprietaria esclusiva di un immobile, ove abitava con il convivente more uxorio e con il figlio minore, nato durante la stessa convivenza e riconosciuto da entrambi i genitori, aveva chiesto, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, l’emissione di un provvedimento avente ad oggetto l’ordine di allontanamento del convivente, essendo divenuta intollerabile la prosecuzione del detto rapporto di fatto, il Pretore di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 151, primo comma, e 155 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la separazione giudiziale e i provvedimenti riguardanti i figli e l’assegnazione della casa familiare possano essere richiesti al giudice dal convivente more uxorio con il procedimento disciplinato dagli artt. 706, 707, 708 e 709 del codice di procedura civile.

  Il giudice rimettente osserva, in primo luogo, come la cessazione della convivenza more uxorio non possa essere trattata alla stregua della cessazione di un qualunque rapporto obbligatorio (prospettato, nella specie, quale comodato), senza che da ciò derivi la lesione di diritti costituzionalmente garantiti, a meno che ad essa non vengano applicati alcuni strumenti di tutela previsti per il matrimonio, come l’assegnazione della casa di abitazione e l’affidamento dei figli, allorchè vi sia prole naturale.

  Ad avviso del giudice a quo, la differenziazione, in relazione agli strumenti di tutela, tra la convivenza more uxorio e la famiglia legittima determina una violazione:

a.                      dell’art. 2 della Costituzione, in quanto il diritto all’abitazione deve essere garantito anche al convivente more uxorio, che abbia contribuito, a proprie spese, all’acquisizione di un diritto reale o di godimento sull’immobile, nel quale si é esercitata la convivenza con la prole naturale, potendo tale diritto essere sacrificato solo se questo sia in conflitto con altri diritti della persona, della prole e della famiglia;

b.                      dell’art. 24 della Costituzione, poichè il diritto all’abitazione del convivente more uxorio con prole naturale non riceve le medesime garanzie processuali previste dagli artt. 706 e seguenti del codice di procedura civile in relazione alla separazione dei coniugi;

c.                      dell’art. 30 della Costituzione, in quanto il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli non é ugualmente garantito rispetto ai figli nati fuori del matrimonio, essendo consentito al convivente more uxorio, che sia titolare del diritto reale o di godimento sulla casa familiare, di instaurare il processo innanzi al pretore, competente ai sensi dell’art. 8 cod. proc. civ., senza obbligo alcuno, da parte del giudice, di valutare i diritti dell’altro convivente e della prole;

d.                     dell’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevole disparità di trattamento, in caso di separazione dei genitori, di situazioni giuridiche omogenee, relative al diritto all’abitazione e ai doveri dei genitori nei confronti dei figli, secondo che esse traggano origine dal matrimonio o dalla convivenza more uxorio.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Como dubita, in riferimento agli artt. 3 e 30 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 155, quarto comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede la possibilità di assegnare in godimento la casa familiare al genitore naturale affidatario di un minore, o convivente con prole maggiorenne non economicamente autosufficiente, anche se lo stesso genitore affidatario non sia titolare di diritti reali o di godimento sull’immobile.

Il Pretore di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 151, primo comma, e 155 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la separazione giudiziale e i provvedimenti riguardanti i figli e l’assegnazione della casa familiare possano essere richiesti al giudice dal convivente more uxorio con il procedimento disciplinato dagli artt. 706, 707, 708 e 709 del codice di procedura civile.

Poichè le dette ordinanze sollevano questioni di legittimità costituzionale connesse, i relativi giudizi possono essere riuniti e vengono decisi con un’unica sentenza.

2. - La questione prospettata dal Tribunale di Como é infondata nei sensi appresso precisati. Essa involge profili di serio ed indubbio rilievo giuridico-sociale in ordine alla concreta ed effettiva equiparazione tra filiazione legittima e filiazione naturale, che non di rado, in assenza di specifiche previsioni normative, risulta affidata all’opera interpretativa della giurisprudenza.

Gli interventi legislativi succedutisi in materia, tra cui, particolarmente, le disposizioni della legge n. 431 del 1967 sull’adozione speciale, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, di cui alla legge n. 184 del 1983, dimostrano come sia stata riconosciuta all’interesse del minore una posizione preminente. L’espresso riconoscimento del diritto del minore ad essere educato nell’ambito della propria famiglia e le norme dirette a garantire concreta assistenza e cura ai minori privi di un idoneo ambiente familiare sono elementi sintomatici della inversione di tendenza verificatasi nella valutazione comparativa dei diversi interessi, che situa in posizione nitidamente sopraordinata le esigenze dei minori; del pari, l’effettiva attuazione dei principi costituzionali a tutela della filiazione naturale può ritenersi una delle principali caratteristiche della riforma del diritto di famiglia, evidenziata dall’attribuzione di specifici contenuti al canone della equiparazione dei figli - naturali e legittimi - e dalla connotazione di assolutezza riferita al valore della procreazione.

3. - La questione proposta dal Tribunale rimettente concerne la regolamentazione della cessazione del rapporto di convivenza di fatto nello specifico profilo inerente all’assegnazione della casa familiare al genitore naturale affidatario di figli minori, o convivente con prole maggiorenne non ancora economicamente autosufficiente. Si lamenta, in particolare, l’assenza di una disciplina corrispondente a quella dettata dall’art. 155 del codice civile in relazione alla separazione dei coniugi, che il rimettente stesso ritiene non applicabile analogicamente, per difetto del presupposto consistente nel matrimonio.

Ed in effetti, attesa la collocazione della norma nel capo relativo allo scioglimento del matrimonio e alla separazione dei coniugi, correttamente viene escluso il ricorso all’analogia, in quanto essa presuppone la similarità delle situazioni, la quale, oltre a non essere presente tra il rapporto coniugale e quello di mera convivenza in sè considerati, non é voluta dalle stesse parti, che nel preferire un rapporto di fatto hanno dimostrato di non voler assumere i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio; onde la imposizione di norme, applicate in via analogica, a coloro che non hanno voluto assumere i diritti e i doveri inerenti al rapporto coniugale si potrebbe tradurre in una inammissibile violazione della libertà di scelta tra matrimonio e forme di convivenza.

Di fronte a tale corretta interpretazione é necessario muovere da una diversa prospettiva ed affrontare la questione ponendosi sul piano del rapporto di filiazione e delle norme ad esso relative.

Tra le disposizioni della legge di riforma del diritto di famiglia maggiormente incisive in subiecta materia particolare importanza assume l’art. 317-bis, secondo comma, del codice civile, che, nella evidente finalità di assicurare una pari tutela dei figli naturali rispetto a quelli legittimi, disciplina l’esercizio della potestà dei genitori sui figli naturali in modo corrispondente a quello previsto in relazione alla famiglia legittima: infatti, qualora il riconoscimento sia fatto da entrambi i genitori e questi siano conviventi, l’esercizio della potestà sui figli naturali é regolato mediante espresso rinvio all’art. 316 del codice civile, relativo appunto alla potestà dei genitori sui figli legittimi.

Ed ancora, l’art. 261 cod. civ. enuncia il fondamentale principio in forza del quale il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi, il che attesta l’assoluta preminenza attribuita al rapporto di filiazione in quanto tale.

Nello spirito della riforma del 1975, il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti tra genitori e figli - legittimi e naturali riconosciuti - identico essendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri.

La condizione giuridica dei genitori tra di loro, in relazione al vincolo coniugale, non può determinare una condizione deteriore per i figli, poichè quell’insieme di regole, che costituiscono l’essenza del rapporto di filiazione e che si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole, derivante dalla qualità di genitore, trova fondamento nell’art. 30 della Costituzione che richiama i genitori all’obbligo di responsabilità.

4. - Il valore costituzionale di tutela della filiazione trova concreta specificazione nelle disposizioni previste dagli artt. 147 e 148 del codice civile, che, in quanto complessivamente richiamate dal successivo art. 261, devono essere riguardate nel loro contenuto effettivo, indipendentemente dalla menzione legislativa della qualità di coniuge, trattandosi dei medesimi doveri imposti ai genitori che abbiano compiuto il riconoscimento dei figli naturali.

Il primo obbligo enunciato dall’art. 147 del codice civile consiste in quello di mantenimento della prole: é questo un dovere inderogabile, che nella sua concreta attuazione é commisurato in proporzione alle rispettive sostanze dei genitori e alle capacità di lavoro di ciascuno. Procede per necessità da ciò che i provvedimenti giudiziali inerenti all’entità dell’obbligo, poichè questa é rapportata ad elementi variabili nel tempo, sono soggetti a modifica in conseguenza del mutamento della situazione di fatto. L’assolutezza dell’obbligo in esame e l’indissolubilità del suo legame con il rapporto di filiazione sono confermati dall’intervento imposto dal legislatore agli altri ascendenti legittimi o naturali, che sono tenuti, quando i genitori siano privi di mezzi sufficienti, a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinchè possano adempiere al loro dovere di cura nei confronti dei figli, il quale dovere resta inderogabilmente a carico dei genitori.

Ora, il concetto di mantenimento comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, e segnatamente tra queste, in ordine all’effettivo adempimento del predetto obbligo, assumono profonda rilevanza la predisposizione e la conservazione dell’ambiente domestico, considerato quale centro di affetti, di interessi e di consuetudini di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità del figlio. La tutela dell’interesse della prole rappresenta infatti la ratio in forza della quale il legislatore, prevedendo la disciplina circa l’assegnazione della casa familiare in sede di separazione dei coniugi, ha introdotto il criterio preferenziale, ancorchè non assoluto, indicato dal quarto comma dell’art. 155 del codice civile, la cui applicazione é rimessa alla valutazione del giudice in relazione alla situazione concreta. Sotto questo profilo l’obbligo di mantenimento si sostanzia quindi nell’assicurare ai figli l’idoneità della dimora, intesa quale luogo di formazione e sviluppo della personalità psico-fisica dei medesimi; onde l’attuazione di detto dovere non può in alcun modo essere condizionata dalla assenza del vincolo coniugale tra i genitori, poichè la fonte dell’obbligo de quo agitur é unica, ma sufficiente: quella del rapporto di filiazione.

La mancanza di una specifica norma che regoli le conseguenze, riguardo ai figli, della cessazione del rapporto di convivenza di fatto dei genitori non impedisce allora di trarre da una interpretazione sistematica delle norme in tema di filiazione la regula iuris da applicare in concreto, senza necessità di ricorrere all’analogia, nè ad una declaratoria di incostituzionalità. L’interprete é infatti al cospetto di un sistema perfettamente coerente con i principi costituzionali, nel quale é già contenuta la norma che gli consente di regolamentare, ex latere filii, le conseguenze della cessazione della convivenza di fatto: la linea di guida cui egli deve attenersi é l’interesse del figlio alla abitazione, come al mantenimento, correlato alla posizione di dovere facente capo al genitore.

L’assegnazione della casa familiare nell’ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio, allorchè vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve quindi regolarsi mediante l’applicazione del principio di responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status (sentenza n. 99 del 1997).

La disposizione impugnata si sottrae pertanto alle dedotte censure di incostituzionalità, in quanto il principio invocato dal giudice a quo - la tutela del minore attraverso l’assegnazione in godimento dell’abitazione, oltre che la determinazione di una somma dovuta per il suo mantenimento - é immanente nell’ordinamento e deve essere attuato sulla base di una interpretazione sistematica degli artt. 261, 147 e 148 del codice civile in correlazione con l’art. 30 della Costituzione, senza necessità dell’intervento caducatorio di questa Corte.

5. - Il Pretore di Torino prospetta la illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 151, primo comma, e 155 del codice civile, il quale non prevede la possibilità di applicare il procedimento previsto dagli artt. 706 e seguenti del codice di procedura civile ai conviventi more uxorio con prole.

La questione é manifestamente infondata.

L’impossibilità di disciplinare la convivenza di fatto con le stesse regole previste per la famiglia legittima deriva dalla considerazione che il fondamento dei diritti e dei doveri indicati nel capo IV del titolo VI del codice civile é costituito dall’istituto stesso del matrimonio, sì che la cessazione della convivenza matrimoniale richiede necessariamente una regolamentazione specifica di tutti gli effetti conseguenti. Tale regolamentazione é disciplinata nel profilo sostanziale dagli artt. 150-158 del codice civile e nell’aspetto processuale dagli artt. 706-709 del codice di procedura civile.

Si é già detto al punto 3) che la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle regole che il legislatore ha sancito in dipendenza dal matrimonio: da ciò deriva che l’estensione automatica di queste regole alla famiglia di fatto potrebbe costituire una violazione dei principi di libera determinazione delle parti. La inapplicabilità della disciplina della separazione dei coniugi alla cessazione delle convivenze di fatto, nel cui ambito sia nata prole, non equivale tuttavia ad affermare che la tutela dei minori, nati da quelle unioni, resti priva di disciplina, essendo invocabile l’intervento del giudice, che, nella pronuncia dei provvedimenti concernenti i figli, é tenuto alla specifica valutazione dell’interesse di questi. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare proprio in relazione alla cessazione delle convivenze di fatto e alle diverse competenze rispettivamente attribuite al tribunale per i minorenni e al tribunale ordinario per la emanazione dei provvedimenti riguardo all’affidamento e al mantenimento dei figli naturali (sentenza n. 23 del 1996), "manca un processo necessariamente unitario, che coinvolga il momento della separazione, quello della sorte dei figli comuni e quello del regolamento dei rapporti patrimoniali sia tra loro che relativamente al mantenimento della prole".

L’assenza di un procedimento specularmente corrispondente a quello di separazione dei coniugi involge questioni di politica legislativa, ma certamente non determina la violazione dei principi costituzionali invocati dal rimettente, in considerazione della diversità delle situazioni poste a raffronto, che non ne consente la reductio ad unitatem.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 155, quarto comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 30 della Costituzione, dal Tribunale di Como con l’ordinanza in epigrafe;

2) dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 151, primo comma, e 155 del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 30 della Costituzione, dal Pretore di Torino con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Fernanda CONTRI

Depositata in cancelleria il 13 maggio 1998.